17 Nov Euridice ama l’ombra
di Gianna Cannì
…Umbras erat illa recentes
inter, et incessit passu de vulnere tardo.
(Ovidio, Metamorfosi, X, 48-49)
In Wahrheit singen, ist ein andrer Hauch.
(Rilke, Sonetti a Orfeo, III)
I serpenti odiano le donne. Anche questo serpente di livida acqua stagnante mi odia, come quell’altro tra le foglie e le pietre, pestato per sbaglio, per sfuggire alle insistenze insulse di Aristeo.
Mio marito. L’acqua obliosa perdeva la strada, le Driadi si scorticavano pur di seguirlo nel canto ordinario; alla sua musica le belve crudeli cercavano un giaciglio di foglie e ombra abbandonando le prede: ma quando mio marito ha pianto la mia morte velenosa la ruota di Issione si è impalata e le Erinni si sono sciolte in lacrime consolatorie (l’amore esiste, per Dioniso!) e persino la lugubre coppia di Ade e Persefone gli ha dato udienza. Se qualcuno può convincere Caronte a traghettare un uomo vivo fino al Tartaro buio questo è il mio eterno coniuge Orfeo. Verranno altri, mi dicono, ma solo di lui ho contezza. La poesia è la più antica arte della persuasione, più antica ancora dell’amore.
E’ una terra celeste e profumata la Tracia e il matrimonio, persino con un seduttore d’orecchi, ha un suo delicato movimento marino, di risacca, di onda che travolge e si ritira. Precisamente quello che qualsiasi donna immagina di dover amare. E così le notti, a un passo dalla scogliera, ho accolto il poeta dentro di me, il professionale figlio di Calliope, i suoi muscoli di uomo e di animale nel mio spazio mai violato prima.
Poi, a tempo debito, è arrivata la distrazione, quella forza viscosa che allontana dal centro. E così Orfeo spariva per giornate intere su per i sentieri del Rodope con uno sciame di ragazzetti al seguito, sottomessi tutti a Dioniso, pare. Io passeggiavo al riparo dai raggi del sole, nei boschi verdi, completa nella mia solitudine, ogni tanto accettando qualche omaggio di poco conto da Aristeo, più per onorare la mia gentilezza che l’approccio prepotente di un mandriano. Al tramonto io poi tornavo, Orfeo non sempre: talvolta mi toccava attenderlo sveglia fino all’alba con la finestra spalancata per sentire avvicinarsi il battito dei suoi passi sulla terra.
Com’è e come non è, alla mia morte Orfeo si è scoperto vedovo inconsolabile e melodioso. L’accordo perfetto sulle nove corde, nove come le Muse, e le parole perfette portate dal vento – a un passo dalla mia pira accesa – hanno colmato l’ampia volta del cielo, si sono insinuate persino negli oscuri anfratti dell’Inferno, dove io – recente ombra – già provavo a riconoscermi e ricordarmi da sola.
Il resto è storia. Ha ottenuto di venirmi a recuperare tra i morti e riportarmi sulla superficie screziata del mondo. Ed è corso incontro alla mia zoppicante bellezza, ignorandone l’offesa, abbattendo le porte larghe solo per chi entra, conquistando con il canto il cane Cerbero, che non cessava poi di leccargli i piedi e il petto.
E così, pur sapendo che tutto era finto e lirico, l’ho seguito nella corsa in salita. Sapevo che si sarebbe girato, sapevo che avrebbe disobbedito all’unica regola dell’amore – non voltarsi indietro, andare verso la luce – e non per vanità o per narcisismo, come qualche lingua malevola ha suggerito. Cantare in verità è un altro respiro.
Lo dirò chiaramente: mio marito Orfeo non preferiva la vedovanza alla vicinanza perché il dolore canta meglio della gioia. Una femmina pazza si strapperebbe i capelli per il tradimento. Ma io di cosa dovrei lagnarmi se non di essere stata troppo amata?
Orfeo conosce la sua Euridice e sa che lei non vedeva l’ora di tornare nell’ombra, dove tutto è sconfinato e fluttuante. Non sono nata per la luce, ma per l’ombra.
E dunque di essersi voltato apposta l’ho perdonato. È la faccenda delle sirene e degli Argonauti che continua a non andarmi giù.
immagine di copertina: Orfeo ed Euridice dagli Inferi, di Jean-Baptiste Camille Corot (1861)
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