Claudio Caligari: un talento soffocato

di Marco D’Alterio

“Quando i personaggi rimangono incastrati in un tempo che non il nostro e non è nemmeno delle opere d’arte che li hanno preceduti, il romanzo si crea da sé.” Giordano Meacci (scrittore e sceneggiatore di film, tra gli altri di “Non essere cattivo” 2015).

L’opera di Claudio Caligari nel cinema offre un importante spunto di riflessione. Non essere oggetto del consumismo, ma puntare sull’originalità ed essere socialmente e culturalmente “Impegnati” come Pasolini (uno dei suoi autori di riferimento) è una scelta molto più dispendiosa rispetto a quella di affidarsi alla quantità di opere di genere. Caligari, nato in Piemonte, è il classico caso di autore misterioso poiché ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato e questo non solo per i pochi film all’attivo (soltanto tre), ma per una scelta di fare cinema del tutto personale, intimista, nonché per i bassi budget e un seguito di critica non sufficientemente all’altezza.

Dopo essersi trasferito a Roma si avvicina al cinema come documentarista e affronta, con la lente di ingrandimento da antropologo, quello che sarà il tema chiave della sua carriera: la dipendenza dalla droga diffusa tra i giovani. Nel 1983 esce il suo primo film: “Amore tossico”, dove narra, per l’appunto, le vicende di un gruppo di giovani sbandati alle prese con la dipendenza dall’eroina nelle cosiddette borgate romane (Centocelle e la periferia di Ostia). L’ossessiva ricerca di una dose, li porterà a compiere furti e atti violenti in un contesto collaborativo (si spaccia ovunque, finanche nelle case popolari) e omertoso.

Caligari analizza il tema con occhio estremamente cinico raccontando la realtà senza fantasia e immaginazione. In alcuni contesti la realtà è brutale e malgrado la tenerezza degli scorci amorosi tra i protagonisti Cesare e Michela, la crudeltà, oltre che il dramma, prende il sopravvento.

Il film fece scalpore poiché furono utilizzati attori conosciuti dal regista in una struttura sanitaria con un passato di tossicodipendenza. La scelta del gergo delle borgate e quello cosiddetto “Droghese” rende il film ancor più realistico. Il termine romanesco “Scrausa”, ad esempio, per indicare roba di bassa qualità, veniva già usato da una strega romana del ‘500. Lo stesso, è da considerarsi la prima accezione moderna del termine.

Nel 1998 esce il suo secondo film tratto dal libro “Le notti dell’arancia meccanica” di Dino Sacchettoni. Il film ha come protagonista un giovane borgataro: Remo Guerra (Valerio Mastrandrea), che di giorno è poliziotto e di notte è il capo di una banda che compie rapine nelle ville dei ricchi. Il film è piuttosto duro, non mancano scene di violenza, ma risulta veritiero raccontando uno spaccato di vita dell’estrema periferia romana a cavallo fra due decenni.

Caligari rimane ancora ai margini. Il successo dei suoi film si avrà solo dopo anni e, in particolare, con l’ultimo della sua trilogia: “Non essere cattivo” che uscirà nelle sale nel 2015 quando, purtroppo, il regista è già scomparso da qualche mese a seguito a una malattia e poco dopo aver provveduto al montaggio del film. Qui, Caligari, si avvale di una produzione all’altezza, grazie anche alla catena di conoscenze di Valerio Mastrandrea, attore da lui lanciato con il precedente film.

Alla sceneggiatura collaborano storici della lingua italiana (Francesca Serafini e Giordano Meacci), gli attori protagonisti sono di primo livello anche se agli esordi (Luca Marinelli e Alessandro Borghi).

Siamo negli anni ‘90, il passaggio dall’eroina alle droghe sintetiche (pasticche) e alla cocaina traccia il solco a un’epoca e segna la maturazione dei personaggi.

Se in “Amore tossico” le vittime erano come assopiti, in parte melodrammatici: “Pasoliniani”, per l’appunto. Ora sono più gasati e violenti. Il film, questa volta, offre una trama più ricca ed esaustiva. Con l’ausilio di inquadrature più strette come esige un modo di fare cinema moderno, si snocciola il racconto dell’amicizia tra Cesare e Vittorio, entrambi alle prese con una vita di dipendenze e di espedienti nella periferia di Ostia. Tema centrale è la voglia di recuperare l’altro, di non abbandonarlo. In questo senso l’altro non rappresenta solo l’amico, ma è inteso come qualsiasi cittadino da recuperare affinché scappi dalla parte malsana e gli sia data la possibilità di riscattarsi socialmente. Questa volta però il dramma familiare è più presente. La piccola Debora, nipote di Cesare, muore a causa dell’AIDS contratta dalla madre anch’ella deceduta. Nel finale si scoprirà che uno dei protagonisti stava per diventare padre.

“Non essere cattivo” rimane in sala per molte settimane, riscuote un buon successo. È apprezzato dalla critica e ottiene molti premi. Nella parabola personale del regista, rimane il rammarico di non aver potuto raccogliere le soddisfazioni che meritava e al cinema italiano di avere, di fatto,  soffocato un talento. A proposito del suo ultimo film, lo stesso Caligari lo definirà: “Una storia degli anni ‘90. Quando finisce il mondo pasoliniano”.

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