30 Nov Piccola cara…Simone Weil e le lettere alle allieve.
a cura di Ivana Margarese
“Un primo elemento consiste nel riconoscere in Simone Weil un esempio raro di identificazione di scrittura e esperienza. Lo scrivere come necessità, la vita come applicazione immediata del pensiero” – così scriveva Alessandro Dal Lago nel saggio L’etica della debolezza. Simone Weil e il nichilismo.
In questa identificazione di scrittura e esperienza l’insegnamento di Simone Weil nei licei femminili, in cinque diverse città francesi nel periodo che va dall’ottobre 1931 al gennaio del 1938 – intervallato da due congedi, il primo occupato in buona parte dal lavoro in fabbrica, il secondo dovuto alle sue condizioni di salute – diventa anch’esso materia preziosa per comprendere il suo pensiero.
Piccola cara… Lettere alle allieve, a cura di Maria Concetta Sala, è un testo che raccoglie le lettere di Simone Weil alle ex allieve e ci avvicina alla dimensione pedagogica weiliana, laddove l’insegnamento è apprendimento reciproco, percorso condiviso nello sviluppo di ciò che si è. Lo stile della corrispondenza è confidenziale e al contempo attento a mantenere distanza per non suscitare eccessiva influenza o cieca ammirazione nei propri riguardi. Ne emerge un tratto personale sollecito verso molteplici temi: il valore della gioia, l’amore, l’istruzione, le vicende politiche.
Nelle lettere alle ex studentesse torna più volte il riferimento al sentimento della gioia. Per la filosofa dei Quaderni la gioia non è altro che il sentimento della realtà; al contrario la tristezza altro non è che l’indebolimento o la scomparsa di questo sentimento ( Weil 1951 a:117).
Nelle lettere, dove talvolta si giustifica per non avere risposto immediatamente poiché le piace scrivere solo quando può farlo con gioia, afferma che “un animo è forte in proporzione alla sua capacità di gioire” e che il tormentarsi non è che segno di egoismo e debolezza d’animo, un non saper godere della vita rimanendo attaccati a se stessi: “nient’altro che la gioia, quando è pura, è adeguata a renderci puri e saggi”.
In una lettera del 1940 si fa riferimento alla possibilità di gioire partecipando semplicemente alla bellezza di un cielo stellato:
Il cielo notturno, con le stelle, e per pochi giorni al mese con la luna piena, è una patria che niente può strappare a alcun essere umano – niente, tranne, ahimè, quattro mura di pietra e un chiavistello. Ma per fortuna la pietra è assai scarsa giacché, di fatto, in tutti i paesi, in qualsiasi situazione, moltitudini di esseri umani continuano a avere la possibilità di vedere le stelle. Molti non ne traggono alcuna gioia, è vero. Ma quand’anche su tutto il globo terrestre non vi fosse che un solo essere umano a guardare le stelle e ad amarle, questo basterebbe a rendere la vita una cosa grande e bella.
Il brano fa venire in mente certi contenuti di Venise sauvée, una tragedia di stampo classico che la pensatrice iniziò a scrivere proprio nel 1940 e che lasciò incompiuta morendo tre anni dopo. Nonostante molte scene siano rimaste allo stato di appunti, senza essere scritte per intero, Venise sauvée appare come un lavoro completo: il disegno è preciso, la struttura e i dialoghi sono ben definiti. Cristina Campo apre la sua prefazione alla tragedia, scrivendo che Venezia salva nasce “dalla prima preoccupazione di Simone Weil: la crocefissione della vita umana fra il sogno, stato violento in cui precipita l’imperio della forza, e l’attenzione pura”.
Jaffier, il protagonista, catturato dalla bellezza di Venezia, rinuncia al potere di cui avrebbe goduto a seguito della congiura organizzata per dare Venezia in mano al re di Spagna, il quale era allora – nel 1618 – signore di buona parte dell’Italia.
Jaffier, capo della congiura, vede Venezia e la salva facendosi interprete di quella forma di attenzione che per Simone Weil è il solo antidoto al crollo morale, politico e culturale del Novecento. La sua forza sta nel privarsi di ogni potere: è nato capo; altero, molta fierezza, impetuoso, ma insieme giusto e persino tenero. È l’eroe perfetto, manda all’aria la congiura che l’avrebbe acclamato primo fra i potenti, rinuncia all’incanto del sogno. Attenzione è per la pensatrice francese la capacità di fare il vuoto in se stessi, accettando di diminuirsi.: “Spogliarsi della regalità immaginaria del mondo, per ridursi al punto che si occupa nello spazio e nel tempo. Solitudine assoluta. Allora si possiede la verità del mondo”(Q. II, p. 131).
Nelle lettere sono contenute note sparse sull’attenzione, pratica che richiede un ritrarsi che, solo, può condurre a quel grado di trasparenza e purezza che permette alla realtà di mostrarsi per quello che è.
Nella corrispondenza con le allieve si trova anche anche una lunga riflessione sul sentimento dell’amore che per Weil deve basarsi sia sull’attenzione sia sulla consapevolezza che l’essere amato, al di là delle occasioni di godimento o di sofferenza per chi ama, esiste di per sé. Il bisogno di un altro essere umano rischia di far sconfinare in una vita sognata e poco reale, venendo meno alla propria stessa vita: “quel che conta è non mancare la propria stessa vita”.
Ebbene, per questo, è necessario disciplinarsi nella visione di Simone Weil e apprendere a non legarsi ad alcuno, a fare a meno persino degli amici, considerando una grazia tutto ciò che la sorte porta con sé. Questo soltanto è autentico esercizio di libertà. Mantenere la propria vita nel regno della pura fantasia, senza pensiero e azione, equivale invece a morire senza essere veramente vissuti. Weil invita le allieve a dare minor peso all’ emotività e a compiere il movimento inverso all’egotismo, a ritrarsi da se stesse. Come sottolinea la curatrice, Maria Concetta Sala, l’insegnamento è una pratica che consiste nel trasformare i significati e passare da una lettura all’altra del mondo alla ricerca del senso della propria stessa vita.
Scrive Fiori a proposito della sensibilità e risolutezza di Weil e del suo amore per la verità:
“Simone Weil non può essere oggetto di studio: troppo viva, troppo eternamente giovane e violenta per questo. Impossibile lo scomporla in analisi, relegarla in classificazioni, confinarla in raffronti. È una forza catalizzatrice, una risorsa, una corrente d’energia, che a un certo punto può attraversare la nostra vita, e costringerci a certi interrogativi essenziali, il primo fra i quali è questo: «Che senso ha la mia vita?». Si può tentare allora di rispondere, oppure eludere la domanda. Si può andare in cerca dei suoi libri […], leggerli, rileggerli, combatterli, accettarne la terribile esigenza, oppure rifiutarli quando la parola spirituale si fa troppo intensa. E, da un tale incontro, non si esce indenni” (G. Fiori, Simone Weil. Una donna assoluta, Milano, La Tartaruga, 1991, p. 7).
No Comments