GESUALDO BUFALINO – L’ISOLITUDINE DEI RITI DI PASSAGGIO

di Marco D’Alterio

 

Il dolore dei poeti non è mai inutile”

Gesualdo Bufalino .

 

 


Ci sono libri come Diceria dell’untore che entrano a pieno diritto nella leggenda. Non hanno dimensione, spazio, tempo. L’autore è, in questo caso, un gigante della letteratura del ‘900: Gesualdo Bufalino (Comiso 1920 – Vittoria 1996). Ma il libro avrebbe potuto essere stato scritto in qualsiasi epoca storica con le opportune differenze linguistiche, senza tuttavia perderne le peculiarità. Un testo antico e moderno, distante e colloquiale, alla portata di tutti e di pochi, o di nessuno.

Sbucato dal nulla dal cassetto di un grande erudito di sessant’anni che aveva iniziato a scriverlo da giovane nell’immediato dopoguerra frutto di un’esperienza personale, passato per molteplici riscritture e revisioni aveva, di fatto, assorbito la sua esistenza per poi vederlo pubblicato e accolto dal pubblico solo nel 1981 (anno in cui vinse il prestigioso premio Campiello) grazie a una scommessa dell’editore Sellerio (noto scopritore di talenti letterari) e all’interesse dell’intellettuale dell’epoca Leonardo Sciascia, che negli anni, divenne suo intimo amico.

Il libro si presta a molteplici spunti di riflessione esistenziali e analizza diversi aspetti. In primo luogo  i cosiddetti riti di passaggio, quelli che segnano la trasformazione o la maturazione degli uomini. Lo stesso testo, grazie a uno stile di scrittura originale, raffinato, barocco, rinnova quella che era la tradizione letteraria italiana e rappresenta un rito di passaggio da un modo di fare letteratura a un altro. Siamo nell’estate del ‘46. Un reduce di guerra ricoverato in sanatorio per tubercolosi affronta l’affannoso passaggio dalla malattia alla guarigione e lo farà con i naturali tumulti della sua giovane età, il rapporto con gli altri ammalati (altri reduci), l’amore per Marta.

Il tema chiave è la scoperta della morte vista come una seconda pubertà più sorprendente della prima. La malattia, in questo caso, colta nel suo duplice aspetto di “Stigma” e dunque segno di un’infamia, e di “Stemma” intesa come corona, medaglia, privilegio. Leonardo Sciascia a proposito di Diceria dell’untore sostiene che il tema della morte, spesso evocato da autori siciliani, qui diviene oggetto di suprema contemplazione. È essenza stessa del pensiero e trova spazio nell’idea dello scrivere come morire, del vivere morendo e coincide con la volontà di cogliere il farsi morte di un uomo. Il protagonista, dunque, si ritroverà adulto passando per una giovinezza fatta di un “Apprendistato di morte”: un altro rito di passaggio analizzato nel romanzo che lo vedrà guarito nel finale pur sentendo di aver tradito il patto con la morte.    

 

Per Bufalino la scelta dell’isolitudine non è soltanto una forma di riservatezza dettata dalla sua indole. Lo scrittore di Comiso, una volta ottenuto il meritato successo, rilascerà scritti e interviste di grande spessore e si mostrerà non solo uomo di estrema cultura e raffinatezza linguistica, ma anche ironico, brillante, istrionico, espansivo insomma. Piuttosto, la sua, è una vera e propria scelta poetica: la scrittura come memoria, nel pieno diritto di preservarla, conservarla e custodirla come una reliquia.
Bufalino, come da sua espressa ammissione, avrebbe preferito rimanere nell’anonimato e il suo “Diario ininterrotto” sarebbe dovuto concludersi con una pubblicazione postuma. La pubblicazione mortifica e sminuisce quello che rappresenta il vero senso di essere scrittore di cui egli ne incarna i canoni. Lo scrittore puro, dedito allo studio, all’approfondimento, alla ricerca quasi ossessiva di una perfezione in scrittura e di una bellezza irraggiungibile se vogliamo, eppure con l’impressione di averla colta. Uno scrittore fuori dagli schemi, del tutto avulso da quello che si potrebbe pensare di uno scrittore moderno nell’epoca dell’immagine, che non puntava alla pubblicazione, al successo, al mettersi in mostra.
Un altro libro fondamentale dello scrittore di Comiso è L’uomo invaso, raccolta di racconti basati sul tema del recupero del passato attraverso la memoria che coinvolge personaggi mitologici, reali, oppure fittizi. In particolare nel racconto: “Il ritorno di Euridice”, viene nuovamente rappresentato il rito di passaggio dalla vita alla morte, questa volta modulato in chiave moderna e dando voce alla giovane sposa di Orfeo. Euridice, appunto. La quale, una volta fallito il tentativo di tornare dagli inferi sulla terra, attende stanca che la barca di Caronte la riporti definitivamente nel regno dei morti e, nel mentre si aggrappa al ricordo, arriva a una lucida e desolante conclusione.

Orfeo non avrebbe commesso un errore a voltarsi prima del previsto a un passo dalla luce del sole perdendo per sempre la sua amata, ma sarebbe stata una sua deliberata scelta. Nel racconto di Bufalino viene descritta una donna dalle caratteristiche moderne. Il rapporto di coppia con Orfeo non era così idilliaco come si poteva pensare. Lei lo definiva “Poeta” nell’intimità come per dire di un buono a nulla, ma era solo una provocazione per reclamare attenzioni amorevoli, mentre lui la trascurava per la passione per la poesia andando in giro non curandosi dell’affetto dovuto, delle occorrenti provviste, così che Euridice, a un certo punto, fa una sorta di bilancio concludendo che di Orfeo si era innamorata in ritardo e di controvoglia come rapita (con un rapimento assai simile al morire). Euridice, dunque, mette in dubbio di essere stata a misura corrisposta in amore e la manifesta gelosia di Orfeo risulta essere di forma, ma non veritiera. Tutta al più che lei si trascura andando in giro con chiome secche e, malgrado in un primo momento respingesse Aristeo, nel tempo, la sua negligenza, era diventata più blanda come accogliente. Orfeo, di contro, si lasciava crescere i capelli sul collo per darsi le arie in compagnia di belle donne da trastullare con la sua musica.

Una frase nel finale chiarisce ogni dubbio: “Quale Erinni (personificazioni della vendetta e della furia), quale ape funesta gli aveva punto la mente perché si era irriflessivamente voltato?” E poi ancora Orfeo che esclama troppo in anticipo: “Che farò senza Euridice?”. Ella capisce che si trattava piuttosto di una recita da esibire al batti mani della folla, in particolare a quel paesaggio infernale di anime, per poterla declamare in poesia e comprende, suo malgrado, di essere stata solo uno strumento nelle sue mani utile alla gloria personale, usata per il suo unico e grande amore.
La poesia di Orfeo infatti, attraverso quel dolore, avrebbe potuto generare contenuti e toni malinconici inimitabili.
Una prosa, dunque, che potrebbe riferirsi al giorno d’oggi e che non possiede l’atmosfera del mito.

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