“Ultraleggere”, Giada Brocato, Giulio Perrone Editore, collana Affiori

 

 

 

 

 

Di Muriel Pavoni

Un romanzo dalla struttura articolata, giocata su diversi punti di vista e sull’attenzione al processo della scrittura in sé. Storie che s’intrecciano e scivolano leggere le une verso le altre, si sfiorano più che incontrarsi, poi con leggerezza s’allontanano.
Ultraleggere è un romanzo che parla di quattro donne, della famiglia (intesa in senso ampio), dei rapporti e di come galleggiano su equilibri precari, dell’essere madre e moglie, di una passione come la scrittura, che è un modo di stare al mondo, ma soprattutto parla di come trovare il proprio spazio. L’ambientazione narrativa, più che un luogo fisico, infatti è lo spazio intimo dei personaggi, è quello il loro vero campo di battaglia. Inoltre si parla anche di come costruirsi e ricostruirsi ogni giorno, dopo ogni perdita, dopo ogni strappo, e di come certe radici profonde e sono lì a difenderci dal deflagrare.

Da dove viene l’idea del romanzo? E come mai questo titolo?
“Ultraleggere” nasce da una folgorazione inattesa, incontrollabile, necessaria. Forse per questa ragione presenta tratti lirici o si imbatte in situazioni che coinvolgono i cinque sensi.
Ricordo che scrivevo dentro una bolla, io dentro e gli altri fuori. Ancora fatico a lasciare questa storia, pur avendo altri manoscritti soltanto da revisionare. Non so quanto c’entri con la domanda, ma non riuscivo a scrivere con metodo, orari, a seguire scalette, rispettare tabelle di marcia. Ragion per cui fermavo tutto sul cellulare, lì dove mi trovavo: le pagine nascevano lentamente o in quantità, in base a un tempo che io chiamo rubato alla quotidianità, al lavoro, alla famiglia, cioè quello a mia disposizione nelle attese, dietro al passaggio a livello, nelle sale d’aspetto, a tarda sera, quello senza scrivania, senza divano, tirata sempre dallo stesso filo invisibile e dal forte coinvolgimento emotivo dei primi appunti, se vogliamo brutti, impuri, ridondanti. Ciò non significa che “Ultraleggere” sia venuto fuori, interamente e per com’è adesso, senza alcuna progettualità. Mi riferisco, infatti, al suo nucleo più autentico, al mormorio profondo, alle connessioni, alle frasi che sgorgavano senza intenzione, stupendomi per la loro essenza vitale.
A ciò aggiungo che scrivere mi fa stare bene, rende credibile qualsiasi cambiamento e asseconda il mio desiderio di recupero rispetto alla realtà, specie se costringente.
Il titolo è l’unico possibile. Forse non avrei accettato di pubblicare questa storia con un altro titolo deciso da altri, magari solo per esercitare maggiore presa sui lettori.
È andata così: una domenica mattina io, mio marito e mio figlio ancora ragazzino ci trovavamo in un campo di volo per ultraleggeri in occasione di un evento. A un tratto, guardando verso l’azzurro intenso, ho provato quasi invidia per quelle traiettorie di linee libere e seducenti, cioè l’esatto contrario dei gomitoli che ci portiamo dentro. Non c’è altro, ricordo solo la forza di questo pensiero e la voglia di scrivere subito seguendo questo impulso. Il resto, le nostre anime che si rincorrono, i richiami, le assonanze, sono arrivati col tempo. Sempre col tempo “Ultraleggère” da qualcuno è stato letto “Ultralèggere”, e ci sta.

Questa insomma è la storia di Vera, Antonia, Lara, Nadia, di un marito, un figlio, una scrittrice, ma anche dei suoi lettori, ed è soprattutto un romanzo dove le identità a volte si confondo e dove a un certo punto tutto si ricompone, un po’ come se perdersi fosse necessario per ritrovarsi, perché hai concepito questa struttura?
La struttura non è stata decisa a priori, piuttosto si è resa necessaria in una fase avanzata di revisione del romanzo, credo per gestire il disordine emotivo, le varie voci, per me tutte irrinunciabili, la fluidità dei sentimenti, spesso contraddittori, e ciò che del romanzo andava condiviso dopo tanti tagli e diverse rivisitazioni. A volte era complicato pure tallonare me stessa, tenere il passo di ricordi e anticipazioni: da qui la decisione di accompagnare il lettore durante voli liberi e acrobazie.
Senza averlo deciso, alla fine mi sono pure imbattuta in una sorta di spazio teatrale, dove le figure del romanzo agivano come personaggi e comparse di una rappresentazione. Questo spazio mi è piaciuto e ci sono rimasta.

L’inizio ci porta subito nel metaromanzo, ovvero la scrittrice che ha appena pubblicato il romanzo – quello che leggeremo – alle prese con la prima presentazione, l’autrice è Vera, che di mestiere è ghost writer. Per la protagonista la scrittura è un modo misurare la propria idoneità, un mettere alla prova di continuo il suo senso di inadeguatezza. Il ruolo della scrittura sembra suggerire che le cose esistono solo attraverso il processo della scrittura, è attraverso questo processo che si costruisce il principio di realtà. Ho l’impressione che sia scrittura la vera protagonista; qual è la funzione della scrittura nel romanzo?
La scrittura, per quanto possa sembrare e a tratti essere veramente protagonista, alla fine non può sfuggire al suo ruolo di strumento, certamente privilegiato, per raccontare sé stessi e gli altri. Scrivere è un incontro, in primo luogo con la propria scrittura, le proprie capacità, i propri limiti, e poi con i lettori. Se la conversazione diventa noiosa, chiudo tutto e faccio altro. Ciò si traduce in giornate di lavoro intenso e giornate in cui scrivo poche righe o nulla. Tante volte rinnego ciò che scrivo, lo lascio perdere per un po’ e poi lo riprendo, talvolta sollecitata da amiche lettrici. Insomma, dentro me avverto sempre la presenza di una corda mai pizzicata o mal pizzicata: si può sempre andare più a fondo e si può sempre sfoltire. Per me la scrittura non riposa mai.
Nel romanzo molto spesso traspare la sofferenza di chi scrive nel complesso panorama contemporaneo, la solitudine di chi non è accompagnato nel cammino dal concepimento del romanzo alla sua pubblicazione, alle presentazioni e quant’altro. A tal proposito, mi vedo aggrappata a una zattera di fortuna: prima o poi raggiungerò un isolotto deserto, dove difficilmente sarò avvistata dalle grandi navi di passaggio, così dovrò affidare le pagine del mio romanzo a una bottiglia panciuta che andrà sola per mare.
Fuori dalla metafora, questa è la triste situazione di chi non è distribuito nelle librerie e fatica molto per un minimo di visibilità.
Dopo “Ultraleggere” ho avuto conferma che certa cultura è innanzitutto molto snob.
Le case editrici, mi rincresce dirlo, dovrebbero credere nei romanzi che pubblicano, invece per fare cassa puntano sulla quantità. Oppure sul sicuro, pubblicando tanti romanzi di scrittori noti in cui è evidente l’esaurimento di qualsivoglia vena creativa. In alternativa, ci sono i piccoli editori con le note problematiche che li riguardano. Aggiungo che le tante scuole di scrittura creativa e gli innumerevoli concorsi letterari sono un nuovo e raffinato fenomeno di accattonaggio. Magari non sempre.
Agli esordienti viene negato un diritto fondamentale, cioè il giudizio critico: vali, non vali, sei sulla buona strada, ma ancora non ci siamo. Invece no, questi servizi sono specchietti per le allodole a pagamento. Per il resto, è una giungla, in cui tutti accettano tutto, tanto c’è la scappatoia dei sei mesi oltre i quali è “no”.
Questo meccanismo perverso, oltre a creare ingorghi e ad appesantire un’impalcatura di per sé vetusta e scricchiolante, scoraggia e penalizza chi non vanta conoscenze nel settore. A questo punto sento puntati su di me chissà quanti indici accusatori, e vabbè.
Per questi (e altri) motivi ho centellinato gli invii.

Su tutti i rapporti è l’amicizia a vincere. Con le amiche, in particolare una di queste, c’è un rapporto simbiotico, ma tutte quante potrebbero essere altrettante sfaccettature dello stesso personaggio. Se nei rapporti di coppia ci sono spesso premesse non mantenute e delusioni, quello che si è condiviso in amicizia resta radicato e non scolorisce nel tempo. Il romanzo sembra raccontare una generazione che ha rivisto i rapporti di coppia in favore di altri legami che oggi sembrano prioritari, come l’amicizia, è così?
È prioritario tutto ciò che ci rende felici e ci fa stare bene. Se questo non succede bisogna tagliare, allontanarsi con determinazione dalle persone tossiche o negative. L’amicizia, come l’amore, non sempre è la carta vincente, ma io continuo a crederci con tutta me stessa. Certo capita che l’idea dell’amicizia non regga ai crash test della vita reale. Inoltre, la gestione dei rapporti, soprattutto quelli fra donne intelligenti abituate al controllo sugli altri, è ancora più difficile.
Certe volte l’importanza di ciò che si è costruito perde significato e ci si incarta tra fraintendimenti e piccole sviste, oppure, pensando di fare bene, si fa troppo uso delle parole. Qualche volta è più salutare tacere, ascoltare, aspettare.

Antonia è l’amica di sempre, Lara l’amica complicata, piena di fascino e oscura, Nadia, la più sfuocata e marginale, tutte abbiamo un’amica così, Vera che solo nella scrittura si sente a casa, a un certo punto se lo chiede, da cosa nasce la confidenza? Cosa le lega, cosa ha fatto sì che le loro vite restassero unite pure nella distanza?
La distanza rinsalda i legami intellettuali e alimenta l’immaginazione, invece i rapporti di amicizia senza lo scambio quotidiano mancano di misura, un po’ come avviene nell’amicizia virtuale: molti slanci, molti pensieri, molte parole, molto nutrimento, ma ti giri a destra e a sinistra e sei sola. E tutto avviene in modo rassicurante, senza doversi mai scontrare con i propri limiti. In ciò c’è una forte componente irrazionale, nel senso che un’amicizia così ha molto poco senso e non ci migliora.
La confidenza, invece, è un’altra cosa: non c’è fatica, non c’è imbarazzo né bisogno di riempire i silenzi, e soprattutto non necessita di filtri o di abbondanza. Si può essere quello che si è, semplicemente.
In “Ultraleggere” penso di essere riuscita a individuare le differenze fra le diverse tipologie di amicizia, anche in relazione alle diverse fasi della vita di una donna.

Tanto non muore, dice la protagonista riferita all’amica malata, le voglio un bene così immenso che non può morire. E verso il finale, osservando il corpo malato dell’amica, fa una preghierina, di quelle infantili a Gesù, perché il suo corpo torni come prima. Quando entra in scena la malattia la protagonista disarmata si rifugia in un pensiero infantile, quale cambiamento porta questa presa di coscienza nella vita della protagonista?
Secondo me, la malattia non è presa di coscienza di nulla di necessario. Ammalandosi si sanno esattamente le stesse cose di prima, nel senso ampio di ciò che conta veramente nella vita, ad esempio gli affetti e le priorità. Non c’è mai bisogno di ammalarsi: la malattia non insegna, più che altro mortifica le persone che colpisce, a prescindere dalla speranza di ognuno di riuscire a sopravvivere a un evento del genere. La malattia è soltanto la cartina di tornasole della nostra impotenza, e oggigiorno è ancora più inaccettabile, perché è sempre più all’improvviso e quando ci sentiamo al massimo, e perché blocca la vita senza essere morte.
La preghiera, intesa nella modalità più consona al nostro spirito, anche quella istintiva rivolti al mare, a una stella o a una nuvola che ci ricorda qualcuno che non c’è più, è salvifica come tutti i rifugi. A farci inginocchiare dentro una chiesa non è tanto la fede quanto la paura. E la malattia è paura.

Lo stile è quello di una voce narrante che parte da dentro, prende il passo dagli impercettibili movimenti dell’anima, e guarda il dettaglio, i cambiamenti, le cose piccole dentro e fuori; ma le voci narranti sono due, una delle quali attraversa tutto il romanzo, l’altra, più enigmatica, ci abbandona quasi subito lasciandoci pieni di domande, come mai questa scelta?
Lo stile non è frutto di una scelta consapevole. Anch’io devo ancora decifrare e comprendere le motivazioni profonde che mi hanno condotta verso “Ultraleggere”.
Per questo tutte le voci restano lì dove le ho lasciate, a trarmi in salvo o a mollarmi in un mare di dubbi, anche se probabilmente, fra le due o più voci, ho privilegiato quella più indulgente e più dolce, che penso sia la mia.
Del resto le domande, specie quelle esistenziali, sono telefoni che squillano a vita, quindi per riflettere e fare esperienza c’è sempre tempo.

Un romanzo che mi è venuto in mente è “Nessuno torna indietro” di Alba De Cespedes, non che ci siano assonanze con “Ultraleggere”, ma per via dell’atmosfera generale… c’è un romanzo o alcuni romanzi ai quali hai guardato per concepire questo testo?
No, confesso di essere abbastanza ignorante rispetto alla mole di libri esistenti. La mia esperienza dice che una storia autentica non può nascere sotto il cavolo piantato da un’altra persona. Le somiglianze fra romanzi di autrici e autori diversi hanno a che fare col sentire come patrimonio dell’umanità. Dolo a parte.

 

 

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