In Dialogo con Carmen Gallo: Tecniche di nascondimento

a cura di Ivana Margarese e Francesca Grispello

Essere visti è uno dei più grandi e rari eventi della vita che ci fanno crescere e sentire al sicuro, essere scoperti meno. Talvolta nella società liquida, dell’apparenza e devota all’immagine c’è la necessità di chiudere gli occhi nella caverna e sottrarsi allo sguardo, per i più disparati bisogni. È stato pubblicato per “Biblioteca di letteratura inutile” di Italo Svevo editore Tecniche di nascondimento per adulti di Carmen Gallo, poeta e docente di Letteratura inglese alla Sapienza di Roma. Una prosa ironica e seria, colta senza essere cervellotica, che ci richiama al nostro pudore di sottrarci.

Non avevo voglia che mi guardassero tutto il giorno senza nemmeno vedemi

Ivana: Leggere Tecniche di nascondimento per adulti è stato come un lasciarsi cullare tra le onde. È un libro poetico, onirico e al contempo lucido e ironico, che consiglierei volentieri a tanti che conosco. Come è nato il progetto di scriverlo?

Grazie, grazie Ivana per gli aggettivi che scegli per il mio libro e in cui mi riconosco. In realtà, avevo in mente questo libro da molti anni. L’idea del nascondimento era stato il nucleo da cui ero partita per scrivere la sezione “Uscirne vivi” nel mio ultimo libro di poesia, Le fuggitive (Aragno 2020), ma poi la scrittura era finita da un’altra parte, aveva preso una piega più aneddotica, e il progetto del manuale, delle “tecniche”, è rimasto nascosto per un po’, finché non ho trovato lo stile giusto e l’equilibrio giusto tra l’elemento ludico e ironico, e quello più serio, relativo alla violenza che spesso si nasconde nelle nostre vite ordinarie.

C’è un capitolo dedicato al nemico. Mi interessa il suo confinare col fantasma. Scrivi: “Viene da molto lontano, ma somiglia a qualcosa che conosciamo bene, e nessuno può sapere se sarà benevolo o ostile, e se avrà intenzione di portarci via qualcosa, a parte il sonno – che non è poco”. Questo ingresso in una dimensione privata e antica che suscita un’esigenza di fuga e protezione da ciò che viene avvertito come violento. È importante, dici, non trasformarsi nel proprio nemico e non finire nemmeno col prendersi a morsi da soli. Potresti dirmi qualcosa su questo?

In questo libro è come se ci fossero due spinte contrarie: una impersonale, che affida al lettore le sue consapevolezze, in modo apparentemente lucido, accurato, studiato (le tecniche), e un’altra invece più personale e incontrollata, divergente (nell’uso delle foto e delle didascalie, per esempio), che fa emergere le difficoltà che hanno reso possibili alcune di quelle consapevolezze. L’idea del fantasma mi serviva a suggerire che non sempre i nemici sono reali, ma non per questo sono irreali le sensazioni di paura o minaccia che evocano. E poi, seguendo l’idea di perturbante di Freud, mi sono spesso ritrovata nell’idea che le cose che ci turbano di più hanno sempre in sé qualcosa che ci somiglia, che ci appare familiare: è proprio questa continuità tra alterità e familiarità a essere la più difficile da decifrare e quindi la più temibile. Di questo facciamo spesso esperienza durante l’infanzia. Quanto al non diventare il proprio nemico, è un consiglio fin troppo ovvio, ma anche su questo – come sul diritto al nascondimento – chiederei innanzitutto indulgenza. Ci sono momenti in cui è necessario passare anche attraverso il negativo di sé, come attraverso l’assenza di sé, e va bene purché non si dimentichi di uscirne fuori e di uscirne vivi. Prendersi a morsi da soli può essere un gesto con un doppio significato: va bene finché vogliamo provare a noi stessi di sentire ancora qualcosa, ma non può diventare un modo per punirci o per pensare di meritare anche i morsi dei nemici.

C’è un elenco sui luoghi, le cose, le situazioni, le intenzioni con cui mimetizzarsi. È bellissimo. Avrei persino potuto aggiungere alcuni spazi e continuare come in un dialogo la lista. Scrivi a un certo punto che le poesie non vanno bene per nascondersi. Sapresti spiegare perché?

L’elenco può e deve essere continuato da ciascuno: l’idea del dialogo allargato a tutti i lettori è molto bella. Sconsiglio le poesie per nascondersi perché non mi piace l’idea spesso consolatoria che si ha oggi della poesia. Per me le poesie non dovrebbero mai essere dei luoghi di rifugio o consolazione. Se una consolazione o un sollievo c’è in poesia non è nel facile consenso sui buoni sentimenti o nell’esperienza banale in cui possiamo identificarci, ma piuttosto nella forma di conoscenza più profonda di sé e del mondo che le poesie offrono, e questa non è mai comoda o facile. Penso a poesie come Se ho scritto è per pensiero di Antonella Anedda o Che cos’è la solitudine di Mario Benedetti che rileggo spesso (e in cui finisco spesso per nascondermi comunque, anche se si sta scomodi, scomodi ma lucidi, vivi).

 

Nascondersi non è un gioco da bambini. Bisogna stare molto attenti a dove ci si nasconde, ma soprattutto a come ci si nasconde. Ci sono molti modi e ognuno trova il suo, oltre alle sue ragioni, che qui non hanno alcuna importanza. Non tutti i nascondimenti sono felici. Alcuni rischiano di essere definitivi e non è ciò che vogliamo.


Francesca
: Da bambine il gioco del nascondino ci offriva la possibilità di nasconderci, con una speranza ambivalente, tra l’essere trovate e no. Da adulti perché questo gioco toglie la speranza?
Ci pensavo proprio qualche giorno fa, quando un amico mi ha riportato una frase di Winnicott: Nascondersi è un piacere, ma è una tragedia non essere trovati. Confesso che mentre scrivevo il libro non ho mai pensato alla speranza di essere trovati, ma solo alla paura. Non so se questo è legato al nascondersi da adulti. Non credo si tratti del venir meno della speranza o della fiducia negli altri che verrebbero a cercarci (io quella non l’ho persa), però il libro è tutto spostato sul decidere di nascondersi e sul trovare i modi per restarci senza troppi effetti collaterali. Come se fosse necessario prima intraprendere un viaggio dentro sé stessi, nelle proprie paure. Che un amico venga ad accendere una luce nel buio dove tremiamo è una cosa bellissima, ma non sono sicura che ci tolga per sempre la paura del buio. Quella bisogna affrontarla da soli.


Leggendo il tuo libro ho sorriso nel meccanismo teatrale/mimetico nel quale mi sono riconosciuta: la nostra specie oltre ad essere goffa nella fuga, lo è molto anche nel nascondersi?
Siamo goffi in molte cose: io spero che nel libro si percepisca questa tenerezza incondizionata nei confronti di ciò che siamo e delle nostre imperfezioni. Come dico nel libro, non c’è da fischiare o da applaudire. Nessun giudizio. Facciamo ciò che possiamo e va bene così.

Il nascondimento, per mia deformazione, è come la verità filosofica che mentre si mostra, si rivela, cosa possiamo tenere dei nostri nascondimenti? Dobbiamo preoccuparci quando non sappiamo ridere più delle nostre tattiche?
Hai ragione: questo libro sul nascondimento è stato anche un modo di rivelare a me stessa con più chiarezza alcuni stati d’animo che avevo vissuto. Con più chiarezza ma soprattutto con più distanza: questa aiuta molto a ridere delle cose che ci hanno ferito o messo in difficoltà. Non sempre è facile ridere delle proprie tattiche, specie mentre le si usa non per gioco ma per necessità. A volte si impara con il tempo, così come si impara ad accettare di essere tra quelli che ogni tanto hanno bisogno di nascondersi. Forse riuscirne a ridere è un punto di arrivo per i più esperti, tutti gli altri a volte ridono e a volte no e anche in questo caso va bene così.

Paura, visione e parola: quanto questi termini si animano a vicenda?
Paura e visione hanno una connessione profonda: la paura genera visioni dei pericoli, delle minacce, ma anche dei modi in cui abbiamo superato in passato le difficoltà. Anche le parole hanno un potere incredibile di creare visioni, immagini parallele alla realtà e questo potere possiamo subirlo o usarlo a nostro vantaggio. A me piace pensare a questo libro anche come a un piccolo rito o gioco (ma sono quasi la stessa cosa) di liberazione dalle paure attraverso le invenzioni del linguaggio, soprattutto attraverso la risorsa (anche politicamente) più importante di tutte: l’immaginazione.


Molto accade nella vita della mente, questa disegna mappe, geografie spaziali in cui muoversi ed evadere? Scrivere è per te edificazione o avventura?
Tra edificazione e avventura, forse più avventura, ma nel senso dell’immersione. Per me la scrittura è una discesa in spazi profondi e spesso ignoti in cui cerco parole, o forse più precisamente uno stile che mi permetta di dire delle cose. Non sempre trovo ciò che stavo cercando, anzi, più spesso mi sorprendo di ciò che scopro. Questo libro mi ha sorpreso molte volte mentre lo scrivevo, specie quando ho trovato la chiave più comica. Hi scoperto, per esempio, che si può ridere molto scandagliando il fondale. L’immersione mi consegnava molti ricordi, anche infantili, ma nella discesa e nella risalita sono sopraggiunti stati d’animo, immagini e riflessioni piuttosto imprevedibili che si alimentavano da sé.

Hai scritto libri di poesia come “Paura degli occhi”, “Le fuggitive” ed ora questo volume: cosa hanno in comune? In che tipo di evoluzione ti riconosci?
Più che un’evoluzione, ci sono temi che mi accompagnano da anni – la paura, la fuga, il doppio, la violenza subdola delle relazioni interpersonali, la ricerca di un’uscita dalla claustrofobia dell’io, ecc. Molti di questi temi tornano di libro in libro, ma ogni volta provo a esplorarne aspetti diversi, a interrogarli da prospettive nuove per me. A differenza dei libri precedenti, per esempio, ho deciso di assumere una postura ‘nascosta’, quella del manuale che freddamente elenca i pro e i contro, e allo stesso tempo di lasciare tracce autobiografiche stranianti attraverso le foto e soprattutto la sezione finale, Essere altro. Mi piaceva questo contrasto, tra un tono distaccato ironico che si rivela poi sempre più intimo e personale. Paradossalmente, questo è il testo in cui mi espongo di più.


Insegni Letteratura Inglese alla Sapienza di Roma, hai pubblicato traduzioni e saggi: come la letteratura è entrata nella tua vita e cosa smuove?
Da adolescente leggevo moltissima letteratura, e non ho mai smesso (anche se adesso sono nell’età in cui mi piace molto rileggere). Non avevo mai pensato che avrei scritto, e infatti ho cominciato tardi, negli anni dell’università e solo perché spinta da altri. Insegnare letteratura è forse la cosa più bella che vivo nella mia quotidianità. Vedere e sentire come certi testi possono smuovere cose profonde in studenti e studentesse mi restituisce ogni volta l’immagine precisa del potere della letteratura di cambiare la nostra vita.

Un luogo ideale
Una casa piena di amici
Un luogo reale
Il centro storico di Napoli

Un verso
Chi è il terzo che ti cammina sempre accanto? (T.S. Eliot)

Un autore
Shakespeare

Un’autrice
George Eliot

Una città
Londra

Un pasto
Pizza fritta

Un odore
Disinfettante

Un sogno
Trovare casa a Napoli

Un colore
Carta da zucchero

Un libro
I fratelli Tanner di Walser

Un augurio
La fine dei bombardamenti a Gaza

Un ricordo
In bici di notte a Parigi

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