Riti di passaggio: oltrepassare la ferita, la soglia tra visibile e invisibile. Riflessioni a margine di Estranei (All of us strangers -2023) di Andrew Haigh

di Gianna Cannì, Damiano Miraglia Raineri, Gabriele Terranova

 

“Il maggiore esploratore su questa terra 

non fa viaggi più lunghi di colui che scende 

in fondo al proprio cuore e si china 

sugli abissi dove il volto di Dio 

si specchia tra le stelle”  

Julien Green 

Le ferite sono spesso feritoie attraverso le quali entra una luce o dilaga il buio. Nel bel film di Andrew Haigh Estranei – tratto liberamente dall’omonimo romanzo di Taichi Yamada e remake del film di Obayashi ispirato a questo -, Adam (Andrew Scott), uno sceneggiatore di mezza età impegnato in un progetto che riguarda i propri genitori, morti tragicamente in un incidente stradale quando lui aveva appena 12 anni, si trova in una fase di stallo, incapace di procedere nella scrittura (e nella vita). La pagina bianca, che riflette come uno specchio la sua implacabile solitudine, si trasforma gradualmente nel corso del film in un luogo liminale, tra realtà visibile e invisibile, dove è possibile incontrare i genitori morti e parlare con loro come tra coetanei, circostanza che il tempo ordinario nega a tutti.

L’incontro avviene nella casa d’infanzia, che è tra l’altro la casa d’infanzia del regista, e lo spettatore – che apprenderà soltanto in un secondo momento della morte dei genitori – è spiazzato proprio dall’aspetto dei due, che mostrano qualche anno in meno di Adam. A questo punto si apre lo spazio e il tempo di un dialogo con i fantasmi del passato allo scopo di riconoscersi nell’identità attuale e di sciogliere i nodi di un rapporto d’amore sospeso. Rispetto agli originali giapponesi, il film di Haigh introduce una nuova tematica: Adam è omosessuale e così il recupero di una comunicazione con i genitori che non l’hanno visto crescere e diventare chi è acquista un significato ancora più profondo, proprio perché si tratta del tentativo di “essere visto e riconosciuto”, di colmare una sorta di frattura biografica che va oltre un generico “fare i conti con il passato”: ha a che fare con la vergogna, con il senso di colpa, con la consapevolezza di rappresentare comunque una “delusione” delle aspettative familiari.

Questa dimensione – nella casa del passato con i fantasmi dei genitori – scorre parallela all’altra, alla vita solitaria di Adam che abita in uno stabile londinese praticamente deserto. Anche in questo spazio ha luogo un incontro, per certi versi iniziatico: una sera il giovane Harry (Paul Mescal), unico altro inquilino del palazzone vuoto, bussa alla sua porta. Harry compare alla porta di Adam per dargli l’opportunità di sperimentare un’altra forma di amore. In quel suo vivere in anestesia, Adam – costituzionalmente estraneo – aveva infatti rifiutato la conoscenza intima di un’altra persona, perché avrebbe voluto dire mettere in discussione tutto l’impianto di certezze su cui si era sempre retta la sua sopravvivenza. Adam respinge inizialmente Harry anche per questo motivo e, forse, perché Harry gli ha chiesto aiuto per sfuggire ai vampiri alla sua porta. Adam è riuscito negli anni ad addomesticare rigidamente i propri vampiri. Farsi carico di quelli di Harry è pericoloso, lo costringerebbe ad avere a che fare con ciò che lui ha scelto di non affrontare: la “materia viva” di sé. 

Superata questa prima ritrosia, però, Adam permette ad Harry di ripulire l’ingorgo che aveva ostruito il flusso della sua “materia viva” attraverso un rapporto che si rivela curativo perché scolpito da gesti e attenzioni di cui Adam aveva bisogno per sormontare il muro emotivo che si era costruito intorno. Harry è accudente, presente, protettivo e questo consente ad Adam di sentirsi sicuro abbastanza per esplorare l’ignoto. Solo nel momento in cui scopriamo – alla fine del film – che Harry è morto la sera stessa in cui aveva bussato alla porta di Adam, capiamo che quel loro rapporto si è avviato “oltre la soglia”, quando il contatto stabilito con i genitori morti ha consentito ad Adam di amare e vedere chi non c’è più. La morte sembra essere la formula magica di accesso all’intimità e alla cura. 

La cultura giapponese è intrisa di storie di fantasmi e mostri di ogni sorta che ritornano per vendicarsi sui vivi. In questo senso è molto più facile immaginare un’interpretazione letterale della figura dei genitori di Hideo (è il nome del protagonista del romanzo) e della sua amante. Lo spettatore occidentale è invece naturalmente portato a pensare che l’incontro con i genitori morti e la relazione amorosa con il fantasma di Harry abbiano luogo nella mente di Adam, siano il prodotto diretto della sua solitudine: voci nella sua testa, ricordi. Nella nostra cultura iper psicologizzata, c’è il vezzo di interpretare tutto in chiave patologica, per cui ogni riferimento al passato si connota come trauma che deve essere ricucito perché smetta di avere ripercussioni nella vita presente. La letteratura occidentale, però, è storicamente una letteratura di allegoria, una letteratura fatta di storie che parlano di altre storie. In questo senso i fantasmi di Adam, che poi sono anche i fantasmi di Andrew Haigh, visti gli elementi autobiografici presenti nel film, sono dei fantasmi reali nella storia che raccontano però qualcosa fuori dalla storia. Questa chiave di lettura apre anche una possibilità di interpretazione più profonda, meno meccanica, perché permette, come la lettura psicanalitica, di utilizzare la metafora per raccontare un vissuto autobiografico, ma anche per  rappresentare ruoli, archetipi, esperienze universali.

Un passaggio indispensabile che consente l’ingresso nella condizione di adulti è l’emancipazione dal nucleo familiare, che può assumere la prospettiva di una fuga necessaria o di una ricollocazione al centro o al margine di esso. I due protagonisti hanno una percezione diversa della loro posizione all’interno della famiglia. Harry si colloca al margine, Adam accarezza una fantasia di vicinanza al nucleo: dormire nel letto tra i genitori, stare insieme tutti intorno all’albero di Natale, nel chiuso del calore della casa dell’infanzia.

Eve Sedgwick Kosofsky scriveva che l’invisibilità è il privilegio delle persone etero. A una persona che si distacca dalla norma è richiesto di nascondersi, ma allo stesso tempo l’indentificazione con un tratto “fuori dalla norma” significa renderla visibile e, di conseguenza, renderla controllabile. Harry si è posto ai margini della famiglia perché ha fatto coming out e facendo coming out è uscito dal privilegio dell’invisibilità, non è più parte della folla. Adam questo passaggio, che in qualche modo è preliminare al distacco dal nucleo familiare di origine per formarne uno nuovo, non l’ha mai potuto vivere. Era troppo piccolo, troppo immaturo per poter affrontare la questione e quindi è rimasto in qualche modo incastrato nel lettone dei genitori, anche letteralmente: dormiva proprio sul loro letto la notte dell’incidente. Adam si percepisce al centro della famiglia perché si guarda con gli occhi di figlio adolescente che non ha potuto vivere quelle fasi inevitabili di crescita che spostano la propria posizione dentro l’“atomo familiare”.

Lo spettatore assiste nel corso del film alla metamorfosi dicotomica di Adam: lo vede regredire fisicamente (il volto di Andrew Scott, in alcune scene,  diventa incredibilmente il volto di un bambino) e crescere emotivamente all’interno di una relazione adulta. Chi conosce quanto sia difficile allineare cronologicamente mente, emotività e corpo non può che sentirsi scoperto e senza difese guardando questo film queer, che ci pacifica rispetto a quello che siamo senza tuttavia riconciliarci con noi stessi: è la magia di una pellicola che si chiude sul potere dell’amore (le ultime scene scorrono sulle note di The Power of Love di Frankie Goes to Hollywood) mentre il letto fuori dal tempo in cui si abbracciano Adam e (il fantasma di) Harry si allontana in un campo lunghissimo fino a diventare il corpo luminoso di una stella.

 

I fotogrammi dal film sono tratti dal web.

 

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