27 Dic Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale
di Ivana Margarese
Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale di Michele Cometa è una indagine sulla relazione tra il fare-immagine del Paleolitico e la moderna cultura visuale e propone un’articolata riflessione sulle nostre maniere di vedere e rappresentare il mondo. Il titolo Paleoestetica fa riferimento a un’estetica intesa nell’accezione del suo fondatore Alexander Gottlieb Baumgarten, come scientia cognitions sensitivae, scienza della conoscenza sensibile. Dal momento che le cose sensibili sono componenti conoscitive, il fare immagine va messo in rapporto con le nostre capacità cognitive fondamentali.
Il saggio dunque è un invito a spogliarsi dei nostri pregiudizi visuali per rispondere, attraverso lo sguardo sulle origini della cultura visuale, ad alcune questioni radicali: Dove è un’immagine? Cosa è un’immagine? Come è un’immagine?
«Quando scorgiamo per la prima volta una di queste immagini sentiamo – scrive Cometa- che essa si rivolge a noi, come se fosse la prima volta e fosse la prima immagine che vediamo. Non è un caso appunto che si parli di ‘momenti di estasi’. Si tratta infatti di un’esperienza che ci trascina fuori da noi stessi, verso un passato immemoriale che però sappiamo essere il nostro passato».
Le immagini ci interpellano, stabiliscono un rapporto con noi. Mitchell nel suo Pictorial Turn ha chiaramente affermato che per comprendere il fare-immagine bisogna riconsiderare le nostre relazioni ancestrali con le immagini, non trascurando di studiare anche le dimensioni contestuali e materiali. Un approccio che, come ha mostrato Georges Didi-Huberman, permette di sottrarsi alla dittatura dell’immagine-tutto, dell’immagine esclusiva; una stessa immagine può mettersi infatti al servizio di più significati già nel momento in cui viene prodotta.
Per immagine non si intende dunque una rappresentazione basata sulla mimesi o sulla corrispondenza, ma un’interazione complessa tra più elementi, non ultimo il problema dello sguardo e dello spettatore e quello dei dispositivi della visione. La dimensione visuale tuttavia non può essere ristretta soltanto alla vista: sarebbe un errore fatale, credere che il fare-immagine paleolitico possa essere ridotto a un puro “fatto visivo”. Sono coinvolti altri sensi, in particolare tatto e udito. La ricezione delle immagini paleolitiche del resto era accompagnata dalla naturale sonorità delle caverne e le stesse incisioni erano più facilmente leggibili con le dita. La relazione con le superfici delle immagini parrebbe essere stata prima aptica e poi ottica, considerando che i primi segni realizzati dall’Homo sapiens sono impronte realizzate con le dita e con le mani.
A ciò non potevano che aggiungersi, allora come oggi, tutte le altre emozioni sensoriali che attivavano l’olfatto e la propriocezione corporea. L’esperienza estetica è multimodale e multisensoriale ed è un tentativo di trasformare l’ambiente e renderlo abitabile.
Riflessione questa che muove da un dialogo attento con le ricerche delle neuroscienze contemporanee che ci palesano come ciò che vediamo non sia una mera registrazione visuale che avviene nel nostro cervello di ciò che si presenta davanti ai nostri occhi, ma il risultato di una costruzione complessa, derivante dal contributo fondamentale del nostro corpo e dalle sue potenzialità motorie, dei nostri sensi e delle nostre emozioni, della nostra immaginazione, e dei nostri ricordi. Come ha sottolineato Vittorio Gallese, col quale Cometa collabora da anni a numerosi progetti di ricerca, bisognerebbe mettere al centro la relazione per arrivare alla soggettività individuale: «Se partiamo dalla relazione, dobbiamo partire dal corpo, quindi da un concetto performativo, pragmatico e agentivo dell’essere umano, che si individua e diviene sé stesso grazie alla relazione» .
Le immagini per circolare non soltanto devono incarnarsi in oggetti materiali ma devono anche inscriversi in una dimensione narrativa, devono far parte di una storia o forse meglio ancora di un intreccio di storie.
Dimensione, quella narrativa, peraltro a cui l’autore ha dedicato un ampio saggio dal titolo Perché le storie continuano a vivere. La letteratura necessaria nel quale viene messo l’accento su come rubricare sotto il profilo dell’inutile o del superfluo il fare-storie – così come il fare-immagini o fare-suoni – sia stata una malintesa interpretazione della kantiana Interesselosigkeit ( disinteresse).
Per la moderna archeologia cognitiva l’ emancipazione dal significato unico è condizione necessaria dell’interpretazione dell’immagine che piuttosto che essere un elemento stabile, è un processo, un’azione che non esprime un significato ma lo produce, un movimento embodied, estensione incarnata (embodied ed embedded) della mente umana in un determinato contesto ecologico.
Questi riferimenti favoriscono un accostamento le immagini paleolitiche e il cinema. Le grotte e la sale cinematografiche sono infatti spazi intermedi tra il mondo psichico e il mondo reale. Affinità che può essere meglio intuita se si fa riferimento alla nozione di oggetto transizionale di Winnicott, ovvero a un oggetto inanimato che viene investito della qualità della vita dal bambino. L’oggetto transizionale è una cosa creata da lui e al contempo fornita dall’ambiente. Come con le pitture paleolitiche, il processo interiore compenetra gli oggetti dell’ambiente e dà loro la vita, li trasforma. L’ arte rupestre, scrive Cometa facendo riferimento a Ira Konisberg, è la celebrazione dell’emergere della vita dal mondo inanimato.
A conclusione del suo saggio Cometa si sofferma sulla rappresentazione degli ibridi e sul principio della consustanzialità/ contiguità degli esseri viventi che viene attestato dalle numerosi esseri compositi nelle produzioni di immagini primitive regalandoci delle pagine ricche di spunti e accostamenti di pensiero. In accordo con Marc Groenen, studioso di preistoria, si potrebbe dire che le figurazioni paleolitiche siano presentificazioni non rappresentazioni. I cacciatori indigeni sanno che per cacciare un animale devono quasi diventare l’animale stesso, imparare a muoversi come lui, ad ascoltare come lui, a sentire il terreno sotto i piedi o il vento sul viso, come fossero lui. Solo allora è possibile anticipare sufficientemente le sue mosse per abbatterlo. Ma questo non è limitato ai cacciatori. In qualsiasi campo di studio, bisogna avere un’idea degli esseri studiati e sintonizzare la propria sensibilità con la loro. Si tratta di diventare percepire gli esseri viventi e prendersi cura di loro. Saggezza e attenzione alle relazioni, non conoscenza, sono condizioni per portare avanti le nostre vite insieme.
Per il pensiero mitico, una chimera o un centauro sono figure nate per trasgredire le frontiere, per pensare altrimenti, per affermare il polimorfismo della natura. Come con chiarezza dice Ira Konisberg si tratta di figure di transizione. La capacità di connessione e di riconnessione, che possiamo avvicinare a quelle di riuso, adattamento e conceptual blending, svela competenze cognitive che ci permettono di adattare la realtà alla mente umana mescolando idee diverse appartenenti a spazi cognitivi differenti.
Mi vengono in mente le parole di Tim Ingold in un’intervista fatta nel 2020 per Voci dall’isola: «La vita è creativa; è produzione in corso di novità. Invece di andare dall’inizio alla fine, la vita digerisce continuamente le sue estremità e le espelle in nuovi inizi. È, in questo senso, equivalente alla nascita continua del mondo e di noi stessi come esseri all’interno di esso. Ma la produzione di novità è abbastanza diversa dalla originalità. Quest’ultima viene dal trasformare la creatività della vita, dalla sua capacità di produrre in maniera innovativa. Oggi la chiamiamo creatività. Ma la creatività dell’innovazione non risiede nel progresso. Si trova, piuttosto, guardando indietro, confrontando le idee e i prodotti più recenti con ciò che era accaduto prima».
Ecco che guardare indietro permette l’accesso a potenzialità di metamorfosi.
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