Amefricana: corpo e politica di Lélia Gonzalez

di Giada Scuto

Nel suo libro Un femminismo decoloniale (Ombre corte, 2020) Françoise Vergès afferma che la storia delle lotte femministe sia piena di lacune e che l’impegno dei femminismi di politica decoloniale, oggi, stia anche nel rafforzare e sviluppare strumenti di trasmissione e conoscenza propri che facciano circolare narrazioni, figure storiche e movimenti che la storiografia ha canonicamente escluso. Questo processo, sostiene Vergès, passa soprattutto attraverso le traduzioni di testi femministi che vengono dal Sud globale. Ampliare il canone, o superarlo, può aprire la strada a percorsi di rilettura della Storia (anche quella dei femminismi) e alla costruzione di nuove narrazioni. 

Tra le tante, una figura poco conosciuta in Europa e soprattutto in Italia, dove solo recentemente sono stati tradotti dal portoghese brasiliano alcuni suoi scritti, è quella di Lélia Gonzalez. Afrodiscendente, accademica, politica, femminista scomoda, antesignana del concetto di intersezionalità, Lélia de Almeida Gonzalez è una tra le personalità più eclettiche del novecento brasiliano. La sua particolarità sta nell’aver abitato, nel corso della sua vita, spazi che vengono comunemente concepiti come separati e che spesso sono in conflitto fra loro.

L’urgenza tutta contemporanea della classificazione immediata non lascerebbe spazio alla complessità e all’importanza del percorso di ricostruzione (collettiva e di sé) che ha caratterizzato la vita di Gonzalez. L’esperienza, intesa come presenza del corpo nello spazio, è stata un valore fondamentale per la la sua produzione intellettuale tanto quanto la sua formazione accademica: le due cose, infatti, per una donna afrodiscendente che frequenta l’università di Rio de Janeiro negli anni cinquanta del Novecento sono inscindibili.

Nata nel 1935 a Belo Horizonte, figlia di un operaio nero e di una lavoratrice domestica di origine indigena, Gonzalez riesce ad entrare in università grazie a una serie di circostanze fortuite. Durante questi anni (in cui conseguirà una laurea in Storia e Geografia e una in Filosofia) e nei successivi in cui diventerà insegnante, subirà quello che lei stessa definirà un processo di “sbiancamento”, perpetrato da un sistema gerarchico e razzista che subdolamente porta i soggetti razzializzati ad allontanarsi dalle proprie origini sia dal punto di vista culturale sia da quello intellettuale. A seguito di alcuni momenti spartiacque nella sua vita, come la morte della madre, con la quale si erano create nel tempo distanze culturali insondabili, e il matrimonio con il professore spagnolo Luis Carlos Gonzalez, fortemente ostacolato dalla famiglia di lui che non accettava un’unione “interrazziale”, Lélia intraprende un percorso di decostruzione e riedificazione culturale e intellettuale di quel (che diventerà poi anche collettivo) che le dinamiche sociali e accademiche avevano oppresso. 

Grazie allo studio dell’antropologia e della psicanalisi, che la conducono a un avvicinamento spirituale al candomblé (la religione afrobrasiliana che lei stessa definisce un vero e proprio codice culturale, espressione del pensiero nero diasporico che la sua formazione occidentale l’aveva portata a giudicare primitivo) Gonzalez rivaluta l’importanza delle sue radici, e si concentra sullo studio delle manifestazioni culturali popolari brasiliane, tenendo il primo corso di Cultura Nera in Brasile alla Scuola di Arti Visive di Rio de Janeiro.

In questa seconda fase della sua vita Lélia Gonzalez rifletterà criticamente sui cambiamenti della sua immagine una volta preso coscienza dell’oppressione subita come donna nera all’interno dell’accademica: i capelli, prima nascosti sotto parrucche lisce torneranno ad essere portati fieramente scoperti come segno di grande valore culturale, lo stesso vale per gli abiti che indosserà. 

 Il corpo nella vita di Gonzalez non prescinderà mai dalla sua attività intellettuale. È proprio attraverso l’esperienza del suo corpo, diventato strumento analitico tanto quanto il sapere appreso durante gli studi, che Lélia produrrà le teorie culturali e femministe controegemoniche che oggi non esiteremmo a definire intersezionali e decoloniali. 

Negli anni Settanta Gonzalez, inizia a frequentare gli ambienti politici militanti, partecipando alla fondazione del Movimento Negro Unificado (MNU). Occupando questo spazio insieme ad altre donne e accorgendosi dell’esclusione delle questioni femminili dalle priorità del movimento, presto si riorganizzerà insieme a loro in collettivi femminili che faticano a definirsi femministi, in quanto costituiti da soggetti categoricamente esclusi, per questioni etniche, dai movimenti dichiaratamente femministi brasiliani.

Militando in uno spazio politico popolare Gonzalez si riavvicina alle classi sociali da cui si era allontanata durante gli anni universitari, ristabilendo con le donne nere di estrazione popolare un legame grazie al quale condurrà anni di lotta collettiva e prenderà coscienza, dell’intersezione delle oppressioni di genere, razza e classe, teorizzate da Kimberlé Crenshaw molti anni più tardi.

Parallelamente all’attivismo politico nei collettivi, Lélia Gonzalez contribuirà anche alla nascita del Partido dos Trabalhadores, e farà parte dal 1984 al 1989 del Conselho Nacional dos Direitos (CNDM) da Mulher, accettando un compromesso che si impegnerà a denunciare sempre, ed entrando in uno spazio femminista ufficiale ancora prevalentemente bianco e permeato in gran parte da ideologie razziste. Militando dall’interno Gonzalez si occupa delle questioni che riguardano specificatamente le donne nere e vivendo sul suo corpo, e causa del suo corpo, l’esperienza della marginalizzazione in diversi ambiti (sia dentro il MNU, in quanto donna, sia dentro CNDM, in quanto nera) teorizzerà i presupposti per un femminismo afro-latino-americano, che oggi definiremmo intersezionale.

 

Durante la militanza non si arresta la formazione intellettuale, e neanche i viaggi che la porteranno a partecipare a dibattiti internazionali in tutta l’America Latina, in Europa e negli Stati Uniti, dove tra le altre incontrerà Angela Davis. 

 

 

Grazie all’approfondimento delle teorie di Frantz Fanon e di Albert Memmi, Lélia Gonzalez costruisce una contronarrativa dei miti fondativi brasiliani, denunciando la colonialità della storiografia mediante la categoria politico-culturale dell’amefricanidade. Si tratta di un concetto decoloniale, un’epistemologia alternativa al discorso eurocentrico che si ostina a far prevalere la latinità su tutte le componenti etniche che hanno contribuito alla formazione del Brasile e delle Americhe in generale, tra cui prevale invece quella africana.

Servendosi della categoria dell’amefricanidade Gonzalez imposta una rilettura degli aspetti culturali fondativi del Brasile a partire dalla questione linguistica, coniando il termine pretoguês (da preto che significa nero e português, portoghese) con cui rimarca il valore epistemico della lingua, analizzando i numerosissimi elementi di africanizzazione presenti nel portoghese parlato in Brasile, influenzato per secoli soprattutto dalle mãe pretas (madri nere), donne schiavizzate che facevano da balie ai figli dei padroni, trasmettendo loro influenze linguistiche africane. Attraverso la lente dell’amefricanità Gonzalez analizza criticamente i miti fondativi nazionali basati sulle teorie della miscigenação (un concetto problematico già dal punto di vista linguistico: il verbo miscigenar fa riferimento all’incrocio di soggetti di razze differenti, solitamente utilizzato per riferirsi al bestiame) smantellati e sostituiti da una denuncia contro gli stupri sistematici subiti dalle donne schiavizzate.  

L’attivismo di Lélia Gonzalez si è svolto soprattutto fuori dall’accademia, in ambiti in cui prevaleva l’oralità, motivo per cui le sue produzioni scritte su temi strettamente politici sono poche e spesso si tratta di trascrizioni di discorsi tenuti durante comizi o conferenze. Da poco alcuni suoi interventi sono stati tradotti in una sezione dedicata all’interno del volume Voci amefricane (Capovolte, 2024) e un approfondimento sull’amefricanità appare anche in Pensare con Abya Yala (EditPress, 2024).

Alex Ratts e Flavia Rios, studiosi che hanno curato l’unica biografia di Lélia Gonzalez pubblicata in Brasile (dal titolo Lélia Gonzalez, edita da Selo Negro nel 2014), l’hanno definita mulher fora do lugar. Una donna fuori posto, il cui percorso di vita segna la traiettoria di una geografia diasporica capace di passare dagli ambienti popolari a quelli accademici, dai collettivi militanti ai partiti nazionali creando così, da un margine insolito e insieme al suo corpo sempre politico e sempre fuori posto, spazi che fossero legittimi per tutte: quei luoghi radicali di possibilità di cui parla bell hooks.

 

Immagine di copertina: https://www.linkedin.com/pulse/conhe%C3%A7a-l%C3%A9lia-gonzalez-betalearning/

Foto 2: https://elastica.abril.com.br/especiais/lelia-gonzalez-filosofa-negra-representatividade

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