NEMAT Limite di situazioni, limiti di situazione

di Anna Maria Merico

 

Nemat: raccolta di sguardi su situazioni che cantano il limite

Nemat: circolo di pensieriparola che alludono a  limiti possibili di situazione

Forze non controllabili dal singolo prendono forma in asincronia di versi e pensieri: il terremoto dell’Aquila, l’atroce forza distruttiva del capitalismo come datore invisibile di lavoro (stupratore autorizzato di corpi condotti alla morte), lo stato e il sentire della linguamadre toccata nella sua radice d’essere, lingua prossima ad un inghiottitoio che diviene, anche, un rigurgito.

 

 

dragano pozzi di vuoto nel sasso nemat spazio

idra dentata che addentra

in sè tèrmita l’aperto

fagico cumulo d’ombra

che smania spossiede tutti i suoi nomi

a ritrarsi labbra in dentro incorporare senso

più-che-umano: accogli faglia superstiti i più giovani

tra i fantasmi[1]

 

Il limite tirato fuori da un abisso di nulla in cui la percezione è quella di non poter contrastare le forze che agiscono. Una silloge fatta di pesi e contrasti alloggiati nell’impotenza dell’azione e nello sguardo capace di muoversi come obiettivo di macchina fotografica, sguardo che registra.

Già dal titolo, Nemat, irrompe la necessità della spiritualità come ultimo, incessante baluardo capace di tenere le rovine dopo la deflagrazione. La dimensione umana di Nemat è quella di un archeologo intento ed attento allo scavo, alla ripulitura di reperti capaci di condurre alla nominazione della forma. Un archeologo attento alla lettura del frammento umano e non. Un archeologo che smuove l’asemico per condurlo a significante.

Doppio l’andare tra segno grafico e segno visivo, in entrambi la ricerca addenta spazi limite del dicibile.

Dialogo serrato con Bodini, nella sezione Basilisco, versi che ne curano memoria e analisi. Anche qui versi e tratto grafico perché l’ultima possibilità e forma reale di apertura, diviene lo stare dentro la registrazione dell’esistente attraverso il riconoscimento dell’opera letteraria capace di fare da guida nel crollo, nella e oltre la pietrificazione.

 

e la notte rinfuoca

propizia sui rami un’altra gelata

flagella

cadaveri in cura la nuova specie in catene

simula apparato il vuoto che dà

tanta materia o che s’inacqua

a smeriglio nel fosso

contro gli occhi il giorno

è un fumo che avvolge ogni reperto[2]

 

La parola si muove come pennino di sismografo, le dimensioni attraversate sono quelle della lettura della superficie e dello sprofondamento nel tellurico del caos che inonda e disfa forme. Basilisco, sguardo che pietrifica, uccide, lacera pelle. Il richiamo ad esseri striscianti infila la lettura in dimensioni da primordi che intrappolano un futuro presente fatto di inghiottitoi del senso e distopie striscianti.

 

 

Esplodono memorie primordiali da sottosuoli abitati come pozzi capaci di svelare habitat. Tornano significati di ancestrali riti legati al culto della vita. Il verso cerca l’antropologia per ancorarsi ad una possibile dimensione umana. Un senza contenuto attraversa le pagine di Nemat mostrando corpo svuotato, corpo ai limiti del decifrabile, corpo nullificato da forze esterne. Corposegno che percorre lo spazio dalla forma all’informe attraverso la proposizione di domande che sfilacciano ogni possibile risposta. Nemat apre tutti gli spazi dell’allusività restando nell’immobile scia della catastrofe che ha separato presenza e rappresentazione. Nemat è domanda su senso e ragione, su interpretazione e ipotesi.

 

 

Apre Nemat una riscrittura di Alcesti, prima soglia: un passaggio tra visibile e invisibile a segnare movimenti.

 

Rigagnoli e salnitri sui muri già bianchi

già perduti e si è, sclerificata ombra od elitra

diffamata alla gola e già lì

nel male dei bianchi, che a stringerli al petto e

splendida sera e giove assente, a rugarsi

bluastra colchide , bracciante con ali spente

nerastre che fa nero, di campi aridi

magnetici, che bisogna: atti alterazioni

di umido, credo, diluenti

ife, libagione di muffe così -atte-

al midollo [3]

 

Alcesti tirata fuori dalle midolla della terra, resta informe e muta. Un gioco di luce e sotterraneità lega radici d’alberi ed intenti grazie ad un pensiero visionario che lacera limiti di confine tra mondi umano-vegetale-animale-di parola. La geologia diviene luogo di osservazione del paesaggio immerso in cambiamenti che toccano anche la sostanza antropologica dei luoghi e delle sostanze conosciute e lì addimorate. Il canto muto verso la roccia stratificata, le radici come lavoro di accerchiamento dell’uomo. L’uomo ammutolito da mutamento evolutivo piovuto addosso attraverso forze non controllabili. Gli strati geologici, nella silloge-raccolta divengono strati dell’anima. Mutamenti non sempre naturali e non sempre voluti obbligano ad un gesto di svuotamento e di reductio, di perdita e di assestamento altro che avvicina i mondi del vivente e le geologie. Ne emerge un diverso pensare antropologicamente mutato: di esso non conosciamo ancora pienezza di grammatiche ma ne seguiamo andamenti, srotolando papiri a cui chiediamo ragioni nuove.

La poromeccanica, ultima sezione della silloge, spettografia che rileva lo stato. La poromeccanica è intrisa di morte, svaniscono corpi risucchiati da macchine e produzione industriale. Polveri, destini, catodi, stati febbrili, ferite, tubi, gl’invisibili colpevoli, sfattezza di cadute da impalcature, rancido. Un universo di dissolute molecole che s’impastano con i corpi sino a disfarne essenze, la macchina determina ritmi cancellando volere e umanità.

 

Osservo le scavatrici e le pale idrauliche prendere il posto del paesaggio, scavarlo dal di dentro, dilatare e contrarre le cavità sierose della Terra: come tarlo nel legno vivo, come il sogno di un cyborg dei boschi, come Alcesti, come larva, micorrize, come voce, come asbesto, lombrico rosso, come vuoto; come superstite. Come innesto.[4]

 

Autore intriso di passione per l’arte visuale utilizza entrambi i mezzi di comunicazione (parola e immagine) innestando l’una nell’altra rendendo conto di un movimento di pensiero olistico all’interno del testo scritto.

 

 

 

NOTE:

[1] Fabio Orecchini NEMAT, poesie ed. Industrie & Letterature 2004, Contractor pg 52

[2] ivi, pg 62

[3] ivi pg 24

[4] ivi pg 79

 

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