L’ecobiografia dei luoghi. Un esercizio che abbraccia le crepe. Nota di lettura al libro Atlante Appennino di Elisa Veronesi, Piano B edizioni, 2024.

 

di Vincenzo Corraro

 

Il racconto dei luoghi diventa efficace solo se frammentario, disarmonico, sfrondato da ogni rigoglio e circoscritto ai simboli essenziali. C’è una linea sottile che unisce il paesaggio esteriore a quello interiore: su questa linea, su cui si intravede sé stessi, scorrono i frammenti dei luoghi che abbiamo abitato, rimane l’ascolto di un mondo che coincide con il sentimento di smarrimento che si percepisce avvertendo il valore del limite.

Elisa Veronesi nel suo Atlante Appennino. Un’ecobiografia (Piano B edizioni, 2024) esplora l’interazione uomo/ambiente da una prospettiva “dilatata”, mettendo in piedi un affresco dell’Appennino (o degli Appennini, come si diceva un tempo) che segue una rotta inedita, forse impalpabile ma sicuramente più vera, esplicata nella ricerca della “misura di un vivere che ci è sfuggito di mano” e ricomponendo distanze e sguardi sull’altrove attraverso l’intersezione di storie e la commistione di diversi registri narrativi.

Si parte dunque da un sentimento di perdita. Che si avverte nel delineare il primo movimento di questa decodifica dei luoghi, l’originarietà affettiva ed emozionale che lega l’autrice a un territorio che ha avvertito per molti anni lontano, “marginale”, esclusivamente legato ai ricordi e ai propri legami personali. Il nucleo della ricerca di Elisa Veronesi si alimenta proprio di questa pulsione; emerge ben chiaro nel sottotesto del suo narrare, fra l’altro sempre convincente e incisivo, mentre la scrittura, elastica, diventa una superficie che non conosce limiti.

Prima ancora che esperienza e fruizione estetica, il paesaggio deve funzionare come luogo elettivo del nostro essere al mondo, uno spazio di connessione che sia esso stesso mondo; occorre insomma che il brivido simbolico, strettamente collegato alla memoria dell’infanzia e alla percezione e poi al riconoscimento dei luoghi che abbiamo abitato, ri-diventi non solo un tentativo di restituirne la dimensione comunitaria, ma anche una narrazione che esprima la consapevolezza della nostra fragilità, definendo l’immaginario e insieme l’oikos educativo e funzionale di ciascuno di noi.

Non a caso, tra “osservazione e rimemorazione”, Veronesi parla dell’Appennino come luogo di rovine, dove “tutto è già andato perso”, ma che si rianima nel punto esatto dove paesaggio interiore e paesaggio esteriore si incontrano, si annusano e si riconoscono, e dove la geografia dei luoghi gode dell’apporto del nostro punto di vista (arricchito dai sedimenti successivi del ricordo) che diventa condizione necessaria per la decodifica e insieme incanto sommesso nel trattenere l’essenza del paesaggio – e dunque la nostra stessa provvisorietà.

Ovviamente, l’ecobiografia non è una scienza esatta; è una scienza anzitutto in movimento, contestativa, fuori sincrono; quasi una non scienza perché animata da un “sentimento di totale impotenza” che riconduce il piccolo e l’osservabile, le esperienze di storie marginali, i paesi fuori dal circuito turistico a cardini di una tessitura inedita e meravigliosa, dove ogni colore, ogni odore, ogni storia esemplare diventano il parallelo di questo camminamento, il serbatoio ideale per la ricomposizione di un processo vitale che ci aiuti ad affrontare il presente.

È una scienza di ricomposizione del ‘noi’ (mutuata dal filosofo Jean – Philippe Pierron), esercizio che abbraccia le crepe, l’inafferrabilità dei luoghi. Non è un caso che fra i riferimenti, anche letterari, di Veronesi ci sia lo scrittore appenninico Silvio d’Arzo, che in Casa d’Altri ha reso il senso del vacuo e la spigolosità di un mondo dove uomini, bestie e vegetali sono sullo stesso piano.

L’ecobiografia, infatti, – dice Veronesi –, nasce da un movimento ‘tellurico’, è un’indagine in diagonale, fuori dall’orlo (sbordare è uno dei verbi più usati in questo testo), e con le cose essa ha un approccio virgineo, privo di pregiudizio. Non antropocentrico. Esalta la comprensione-espressione di una materia che si disvela solo dinanzi ai nostri occhi curiosi: nel mezzo di queste informazioni altre, legate a posti che sono mutati antropologicamente e in cui le tracce di “passati molteplici e inconclusi” sono essenzialmente rovine che tendono a circoscrivere, secondo Alain Roger, “il grado zero dell’appartenenza da cui si modella un paesaggio”, noi possiamo tracciare i propositi di un cambiamento, ridefinire conoscenze e comportamenti. La memoria non rimane così solo un fatto autocelebrativo, mortuario, ma recupera un senso più alto, di considerazione e di costruzione di un’emergenza simbolica, “la faglia” – scrive magistralmente Elisa Veronesi – “nella quale ciascuno può guardare, perché la memoria delle rovine non appartiene a nessuno e appartiene a tutti, va molto oltre la piccola memoria personale, per farsi memoria del mondo.”

Atlante Appennino, libro di ricerca e ibrido, come genere, nel panorama letterario, restituisce uno spaccato poco conosciuto dell’Appennino settentrionale (dal confine francese sino ai passi tosco-emiliani), il respiro attorno a vie romite e poco antropizzate, di “dispersione e di disambientamento”, coniuga il lavoro più concettuale e di risonanza immateriale con un lavoro sul campo e di testimonianza che diventa, in fondo, la parte più viva del libro. È un libro che riconsidera il tempo in maniera completa, in una prospettiva diacronica che non ha un mero valore comparativo ma che serve per tenere in piedi non solo il perimetro del mito e le tracce del nostro passaggio, ma soprattutto il filo di un futuro che ridisegni il legame indissolubile tra uomo e ambiente.

 

Elisa Veronesi è nata e cresciuta nell’Appennino Reggiano. Da qualche anno vive in Francia, dove è dottoranda in italianistica all’Université Côte d’Azur. Ha progetti di ricerca in corso su letteratura e Antropocene e letteratura del paesaggio. Ha scritto e scrive racconti e articoli su «Ibridamenti», «Machina» (Derive e Approdi) e altre riviste online. Un suo racconto è pubblicato nella raccolta «Il libro di Metatron» (D Editore, 2025)

 

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