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19 Feb Vivere alle Calende greche. Gesualdo Bufalino scrittore e professore
di Gianna Cannì – in dialogo con Rita Cincimino Falcone
Calende greche di Gesualdo Bufalino si presenta già dal titolo come un’autobiografia immaginaria, come il racconto di giorni possibili ma che probabilmente non sono mai stati vissuti. E’ anche un’opera scritta in omaggio a “un progetto di perenne incompiutezza”, soggetta insomma a rifacimenti e aggiunte continue. Sicuramente intessuta più di favole che di ricordi, o meglio di ricordi che, nel momento in cui vengono scritti, si trasformano in favole. Inizialmente Gesualdo Bufalino aveva destinato questo romanzo del 1992 a pochi amici, confidando nella loro discrezione: il suo desiderio era quello di congedarsi – dopo il tardivo esordio avvenuto nel 1981 all’età di 61 anni – dalla società letteraria in punta di piedi, con un romanzo che valesse da bilancio della propria vita. La letteratura gli avrebbe peraltro dato, come sempre, la possibilità di barare, inserendo pagine destinate ad altri contesti, invenzioni, criptocitazioni, ironie private (in particolare i capitoli Passatempi alla Rocca (1946) e Canzona a burla (1953) ricopiano pagine intere, rispettivamente da Diceria dell’untore e Argo il cieco).
La narrazione procede per exempla, come nelle stampe popolari in cui si rappresentano le varie età dell’uomo, con una struttura dunque aperta ad integrazioni future. Bufalino gioca con i pronomi, utilizzando la terza persona per gli anni dell’infanzia, in cui la coscienza è minima; la prima per le età future e il compassionevole “tu” per la vecchiaia, con affetto, solidarietà ma forse anche distanziamento.
Il romanzo si apre con la descrizione della tana felice dell’utero materno, dalla quale “un altissimo scroscio di cataratte” lo fa emergere al mondo, per iniziare a vivere e morire, “gnomo miserabile e piangente”. Tre sono le esperienze fondamentali della vita nel mondo: la malattia, la scelta dell’isolamento e l’altra, opposta e casuale, dell’esibizione letteraria. A ciascuna corrisponde una figura.
La prima si può sintetizzare con un suo celebre verso: Io magro Cristo ragazzo, in pigiama prestato (il titolo del componimento è Agli amici in armi) e si riferisce all’esperienza della malattia: nell’autunno del 1944, Bufalino si ammala di tisi e viene ricoverato nell’ospedale di Scandiano. Tornato a casa – dopo una degenza presso un sanatorio palermitano – ha la sensazione di non essere accolto dagli amici di un tempo, di essere divenuto in un certo senso a loro estraneo, rappresentando uno “sgarro nella pubblica letizia”, un “profeta malaugurante della sorte di ognuno”. Sopravvivere alla malattia comporta il riabituarsi alla vita, decidere cosa fare di quegli anni “manipolati” e “sconciati” dalla guerra e dalla tisi. L’apprendistato della morte, questo sublime e spaventoso noviziato, e l’insperato “esonero” da essa lo chiameranno all’obbligo di rendere “testimonianza, se non delazione d’una retorica e d’una pietà”. Intanto nel sanatorio scrive la tesi e nel marzo del ‘47 si laurea a Palermo; due anni dopo, consegue l’abilitazione all’insegnamento e inizia così una tranquilla vita di professore di provincia, nella prigione felice di Comiso, lontano dalle città dove si consumava una letteratura impegnata e militante, in mite diserzione, in viziosa claustrofobia tra “felicità minori”. E’ proprio su questa vita da insegnante che cala un velo di reticenza.
A Comiso diventa un guardiano delle rovine (Calende greche contiene un’interessante classificazione di macerie biografiche da custodire) – come il protagonista dell’omonimo racconto contenuto ne L’uomo invaso – sensibile alle “lusinghe dello sfacelo”, estraneo al mondo tanto da liquidarlo con uno sbrigativo “non lo pratico, non lo intendo”, desideroso soltanto di tornare con urgenza alla lussuria e al lusso di essere soli, alla pietosa frode della scrittura: “domani o dopo domani riuscirò, su una pagina vergine, con una stilografica nuova, non so ancora se a lavarmi il cuore o a truccarlo, se a certificarmi o a inventarmi”. La letteratura gli si presenta intanto come quel gioco di felicità, quella “fiera delle meraviglie” che spinge il magro Cristo ragazzo davanti allo specchio a cavarsi la corona di spine e provarsene una d’alloro, sposando pena e artificio: in un suo aforisma in realtà Bufalino gioca con l’immagine opposta, con quella cioè di chi si toglie la corona d’alloro e se ne prova una di spine. La sfumatura è chiaramente diversa ma nella sua vicenda biografica, così com’è ricostruita in Calende greche, pare proprio sia avvenuto il contrario e la corona d’alloro potrebbe corrispondere al momento in cui la vocazione letteraria di lettore diventa anche esibizione di sé come scrittore. Il Cristo con la corona d’alloro è dunque la terza figura che lo rappresenta.
Alla lunga carriera di insegnante, Calende greche riserva pochissime pagine. C’è un capitolo – Canzona a burla (1953) – dedicato a una estate modicana da supplente (è la vicenda narrata anche nel romanzo Argo il cieco), ma la scuola resta sullo sfondo: è una storia di amori felicemente non corrisposti (“Vuoi mettere la pace, la sufficienza beata di chi cova da lontano e in segreto i suoi solitari fervori”), di velleitari progetti di periplo della Sicilia e di granite bianche. Un capitolo dedicato interamente alla scuola è Carcere d’invenzione (1967): durante una giornata di sciopero, il professore si nasconde in biblioteca a correggere compiti; i colleghi dopo essersi dichiarati in agitazione spariscono, l’edificio si spopola. La biblioteca ha un grammofono con la sua munizione di dischi, e la musica orficamente lo ammansisce mentre corregge i componimenti dei suoi ventidue sciagurati. Il luogo, sempre poco frequentato, diventa trono e tana per gli intervalli e le vacanze impreviste; si sistema in poltrona, con un’assicella di compensato sulle gambe su cui stendere i fogli. “E’ l’unico modo che conosco di sbrigare l’incombenza, in modo diverso non saprei. Meno che mai nella mia stanza della pensione, con tanti campanelli rompiscatole e, insidiose nell’aria, le tentazioni dell’accidia e dell’inquietudine…”. Il tema musicale della sonata in re maggiore sparge “miele sull’agrume di ben altro tema che discorre, o dovrebbe, delle Operette morali” e il professore, umido di “sonora beatitudine”, assolve la modesta prova. La vicenda poi continua con la scoperta di essere rimasto chiuso dentro l’edificio scolastico, tutto sommato felice dell’inaspettata segregazione.
Ho chiesto a Rita Cincimino Falcone, allieva di Bufalino presso l’istituto magistrale “Giuseppe Mazzini” di Vittoria, – citata nel capitolo Consuntivo (1988) di Calende greche (“Ancora: insieme con Rita e Nicola, Fabia e Rosanna, tornando in auto da Donnafugata…”) – di raccontare l’insegnante Gesualdo Bufalino, che lei chiama a volte Dino e a volte “il professore”.
R.C.F.: Del professore eravamo tutte innamorate, della sua signorilità, della sua intelligenza ed eleganza. Era un affabulatore che incantava, un pifferaio… Si trovava così ad essere piacevolmente perseguitato da tutte le sue studentesse, tanto da conquistarsi una immeritata fama di dongiovanni. Le ore di italiano erano divaganti, divertenti: assistevamo ad un vero spettacolo della parola, dell’immaginazione. Ci innamoravamo così di lui, della letteratura e della profonda cultura di cui erano impregnate le sue lezioni.
G.C.: E’ molto interessante questa continuità completa tra Bufalino scrittore/lettore e Bufalino insegnante. Oggi c’è molto sospetto verso l’insegnante carismatico, si teme che metta al centro se stesso e non lo studente.
R.C.F.: Sì, quelle lezioni sembrava che le facesse per se stesso, forse non gli interessava neanche accertarsi del fatto che capissimo le sue parole, che seguissimo i suoi voli. Era un’esibizione, era teatro. Però capitava a volte di incrociare il suo sguardo, a volte ti sorrideva. E ti sentivi vista. Capivi di avere il privilegio di essere parte di quella fantasmagoria. Le interrogazioni erano delle conversazioni, libere, leggere, piene di spirito.
G.C.: Il rapporto con gli insegnanti era certamente meno informale in confronto a oggi, c’era un maggior rispetto dei ruoli, dell’autorevolezza, delle regole. Lo hai mai fatto arrabbiare? Sei mai stata rimproverata da Bufalino?
R.C.F.: Una volta sì, l’ho deluso. Avevamo una insegnante di pedagogia incompetente dalla quale nulla o poco avevamo appreso. Credo avesse chiesto lei al professore di assegnarci un tema di pedagogia, in vista dell’esame di stato. Nessuno osò dirgli che non eravamo in grado di svolgere la traccia: consegnai così il foglio in bianco, seguita a ruota dai miei compagni. Il professore trasalì, ricordo che gettò i nostri fogli sul pavimento dicendo “Non merito questo!”. Chiamò anche il preside in classe per riferirgli in nostra presenza l’accaduto. Rimanemmo zitti. Allora si chiuse in un silenzio risentito. Mi chiese di andargli a prendere il libro in sala insegnanti e quel giorno spiegò D’annunzio, che tra l’altro era un poeta nel quale ritrovava il suo stile (ma questo me lo confessò quando non ero più sua allieva). Io ero mortificatissima per averlo offeso. Sentivo di dovermi scusare. Trascorsi alcuni lunghi giorni, un mattino, prima dell’inizio delle lezioni, io e alcune mie compagne trovammo il coraggio di un gesto riparatore. Lo chiamammo in classe e lui – che aveva già capito e che era impaziente di ritornare alla consueta, gioviale atmosfera – arrivò timido e sorridente. Io mi scusai piangendo e lui mi diede una leggera pacca sulla testa con un libro.
G.C.: Siete rimasti in contatto dopo il tuo diploma?
R.C.F.: Per un po’ sì, poi a un certo punto ci siamo persi di vista. Quando è uscito Diceria dell’untore sono corsa a comprarlo e l’ho letto in due giorni. Non ero sorpresa che avesse scritto un libro così bello. Immaginavamo tutti che scrivesse, si capiva già da come parlava. L’ho chiamato al telefono, mi ha mandato una copia del romanzo con dedica e poi tutte le recensioni che via via uscivano. Da quel momento abbiamo ripreso a vederci tutte le estati, quando tornavo in Sicilia per le vacanze.
G.C.: Ci hai condiviso una bellissima foto. È estate, siete in Sicilia…
R.C.F.:La foto ritrae il professore e me in uno dei tanti divertenti “momenti didattici”, come li chiamava lui, trascorsi a Donnafugata. Era l’estate del 1993.
G.C.: Cosa ti ha insegnato Gesualdo Bufalino, oltre all’amore per la letteratura?
R.C.F.: Dino era un maestro di leggerezza, era un fanciullo mai cresciuto. Con le parole creava e trasformava tutto: mentiva gratuitamente, senza scopo. Aveva l’attitudine a mistificare, non era in grado di riportare un fatto così come era avvenuto nella realtà. Le sue parole ricreavano la realtà, inventavano una nuova verità.
A sentire Rita, mi torna all’improvviso in mente Sciascia che, nell’introduzione alla versione inglese di Diceria dell’untore, racconta l’aneddoto di un grande giornalista che intervistò un famoso generale cinese, il quale gli fornì un enorme numero di informazioni accurate, razionali, verosimili, lasciandolo poi di sasso quando, alla fine dell’intervista, guardando il taccuino zeppo di appunti, congedò il giornalista dicendogli: “Le do un consiglio: non creda mai a un cinese”. Sciascia propone questo apologo come chiave di lettura per tutta l’opera di Bufalino. E allora penso a quanto sia velleitario provare a ricercare le tracce dell’uomo nell’opera dello scrittore, a quanto sia ingenuo credere alle sue menzogne (l’attitudine naturale, senza scopo che Rita gli attribuisce). Eppure è impossibile sottrarsi alla “schermaglia amorosa” che Bufalino ingaggia con i suoi lettori, è impossibile non credere alla letteratura, al suo modo specifico e magico di attingere alla verità dell’esistenza attraverso la mistificazione e il gioco.
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