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20 Feb Cinema e archivi. In dialogo con Ilaria Pezone
a cura di Laura de Stefano
Inizio col chiederti quali cambiamenti pensi abbia subito il cinema d’archivio nell’ultimo ventennio, in particolare con l’avanzamento della tecnologia?
Parlare d’archivio è ambiguo, in quanto con archivio si intende un luogo fisico di conservazione e preservazione dei supporti ottici, elettronici o digitali di registrazione, ma anche una raccolta non necessariamente organizzata di materiali privati e personali a cui un regista può accedere per realizzare i propri film. Il Found footage film si basa su materiale d’archivio, così come il cinema privato utilizza materiale d’archivio privato, sovente amatoriale, riorganizzandolo espressivamente affinché possa essere fruito da eventuali spettatori. Ogni risposta, quindi, non può che essere parziale e relativa a quello che è il mio punto di vista osservativo rispetto al cinema di prossimità, ovvero un cinema che fa i conti con il privato e il personale. E in questo senso il cinema d’archivio è cambiato parecchio: se pensiamo che in Italia i confini del documentario, nell’accezione comune, sono stati rimodulati grazie a film come “Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi, nel 2002, proprio in virtù dell’utilizzo di film appartenenti all’archivio privato della regista, la situazione cinematografica odierna, italiana e non, non può che darci conferma del fatto che questo tipo di cinema sia entrato pienamente nelle modalità produttive consolidate del documentario. Sia chiaro: il cinema privato è in un certo senso sempre esistito, basti pensare al New American Cinema, alle opere di Stan Brakhage e di Jonas Mekas (tra i principali), colossali collezioni di film privati, il cui comune denominatore è un linguaggio poetico fresco, autentico, personale, mai asfittico o prevedibile; tuttavia esso è tornato in auge anche grazie alla diffusione di sistemi tecnologici sempre più raffinati di digitalizzazione dei supporti in pellicola, direttamente in archivi nazionali o regionali, ma anche sistemi semplificati e accessibili comodamente a casa propria, con esiti diversi sul piano tecnico, ma pur sempre utilizzabili e utilizzati.
Come pensi potrà essere il cinema d’archivio quando gli archivi saranno composti in gran parte da materiali girati con il cellulare? Quanto, del cinema d’archivio, dipende dall’atmosfera unica creata dai formati analogici?
Indubbiamente la grana della pellicola substandard è intrinsecamente affascinante per l’impatto estetico apparentemente poco curato; l’implicita deduzione – non sempre corretta, tra l’altro – che si tratti di qualcosa di improvvisato, e quindi autentico, può condurre a pensare che basti questo come ingrediente per fare cinema. Tuttavia si tratta di un travisamento, a mio avviso: l’estetizzazionenostalgica della pellicola, ma anche del VHS in tempi recenti, oppure anche dei semplici video in SD, è uno dei mali del cinema documentario contemporaneo. Non bisognerebbe mai adagiarsi sulla facile piacevolezza, sull’ammiccamento estetico del supporto, ma nemmeno sulla sciatteria delle immagini del quotidiano in quanto portatrici di una presunta ingenuità (anche questa è una forma di estetizzazione dell’imperfetto), perché ciò che ne deriva è un cinema privo di interesse linguistico, concettualmente piatto: un non-cinema. Se da un lato, quindi, è un bene che l’archivio riviva nel riuso artistico, soprattutto in virtù del fatto che ci possiamo confrontare con documenti inediti, dall’altro è vero che questa pratica, com’era prevedibile in quanto massivamente diffusa, abbia ormai assunto carattere manierista, ideologico e demagogico; e che a volte si tratti persino di una scelta produttiva di comodo per non accedere a costosi archivi Luce, per fare un esempio. In mancanza di un approccio metodico/concettuale/asettico, oppure fisico, materico, concreto e pulsante, fresco, viene meno la poesia da cui questa forma audiovisiva nasce e quindi l’interesse che può avere, nell’ambito della storia del cinema. Come sempre, è l’intima profondità del regista a fare la differenza, l’intento da cui nasce la personale propensione a confrontarsi con il materiale d’archivio.
Un’eventuale espansione estetica del cinema d’archivio, che includa materiali girati con il cellulare e camere tecnologicamente più avanzate, è possibile? Ritieni che coesisteranno nella stessa categoria riprese realizzate in Super 8 e in 4K, o, data la distanza estetica le due forme evolveranno separatamente? Inoltre, alcuni ritengono che i film d’archivio siano troppo legati al passato, senza riuscire a dialogare con il presente. Come rispondi a questa critica? C’è una forma di cinema d’archivio che riesce a guardare al futuro?
Vedo positivamente il fatto che l’archivio possa trasformarsi in qualcosa di diverso: gli autori (quelli veri, una minoranza) saranno costretti a inventarsi linguaggi nuovi, più autentici, più interessanti (destinati a essere subdolamente imitati). La nostalgia a tutti i costi è una piaga da combattere. Per tornare al New American Cinema, Jonas Mekas, ma anche un altro grande del cinema di prossimità, Michelangelo Buffa, hanno forse chiuso le porte al video per restare impassibilmente fedeli alla pellicola in formato substandard? Per chi non sa dove guardare posso suggerire che individuare un riferimento artistico può essere una guida importante, da cui emanciparsi per poi tracciare il proprio personale percorso. È così che il cinema, anche quello d’archivio, guarda al futuro: non con l’aggiornamento tecnologico a tutti i costi, ma nemmeno con l’auto-fustigazione nostalgica o l’abbruttimento intimista. La pellicola resta il sogno estetizzante a cui anela gran parte dei registi: se l’esigenza è fisica, tattile, allora il desiderio è lecito e il cinema che ne deriva interessante, attuale. Diversamente mi pare più un futile vezzo artistico: occorre sapersi confrontare anche con gli strumenti del presente, o almeno aver ben chiaro perché li si esclude.
Il fascino del cinema d’archivio, come lo immaginiamo oggi, è destinato a scomparire, lasciando il posto a una dimensione totalmente diversa?
Non credo che il cinema d’archivio come lo intendiamo oggi possa scomparire, tuttavia bisogna studiare le differenze tra i supporti, per sapere con che cosa ci stiamo interfacciando e, naturalmente, anche per conservarlo. Noto che c’è molta confusione, tra le nuove generazioni, nel parlare di supporti ottici e supporti video analogici, che spesso vengono confusi e trattati alla stessa maniera. Del resto i ricordi delle nuove generazioni sono in VHS, quando non in digitale SD: bisogna sapere che si tratta di meccanismi di registrazione (e conservazione) completamente diversi, pertanto non possono coesistere, almeno sul piano tecnico. Penso peraltro che la conservazione dei dati digitali sia un delirio a cui non so come sarà possibile rispondere, dal punto di vista archivistico. Ci sono dei testi intelligenti che si pongono l’immenso problema della conservazione del digitale, con cui bisognerebbe confrontarsi per sapere anche a che cosa andiamo incontro, su diversi piani, con la sovrapproduzione delle immagini. Ma questo è un discorso ampio che qui posso solo accennare.
I social stanno trasformando il modo in cui il pubblico fruisce dei materiali d’archivio. Qual è la tua opinione sull’approccio degli archivi verso piattaforme social come Instagram e la creazione di “profili archivio”, utilizzati esclusivamente come raccolta di foto e riprese? Più in generale, quale pensi che sia il rapporto tra archivi e social?
Credo di averti in parte già risposto prima, parlando di estetizzazione, di cui i social sono costellati. Esistono anche profili social e siti web utili perché permettono di conoscere un archivio a distanza, pubblicando degli estratti poi consultabili e utilizzabili (ad esempio l’Archivio Prelinger, o l’archivio Nasa). In questo senso i social possono talvolta semplificare le ricerche d’archivio. Bisognerebbe conoscere la provenienza di ogni materiale, anche perché, ahimè, non necessariamente un materiale d’archivio è utilizzabile. Le provenienze sono varie: dalla fondazione, alla cineteca, all’archivio indipendente, al sindacato, alle diocesi, ai fotografi di paese – vera memoria storica di un luogo – eccetera. Il tema è scottante perché non esiste un aggiornamento d’indicazione di legge specifica per chi voglia utilizzare materiale d’archivio non a scopo di lucro, in Italia, anche perché tutto può rientrare nel concetto di “materiale d’archivio”, anche i video su YouTube, il quale automaticamente diviene un archivio inesauribile di video a cui potenzialmente si può attingere: esistono film realizzati con materiale d’archivio proveniente da Youtube, senza aver chiesto l’autorizzazione agli autori delle clip (es. “Big in China: George and the vision machine” di Dominic Gagnon). Ci sono autori e archivisti italiani che si occupano con cognizione di causa di queste problematiche, tenendo anche interessanti corsi di formazione, come ad esempio Gaetan Crivaro, fondatore de “L’Ambulante” e dell’archivio Homeless Movies – Cinema senza famiglia. I detentori dei diritti sono comunque sempre gli autori: se possibile bisognerebbe contattarli, ma laddove non fosse possibile come ci si deve comportare? È un po’ la stessa cosa che bisognerebbe chiedersi quando si recuperano bobine in formato substandard alle bancarelle dei mercatini, senza conoscerne gli autori: siamo davvero autorizzati a utilizzare quei materiali? In America esiste il cosiddetto Fairy Use, a cui sarebbe utile potersi ispirare anche qui.
Gli home movies possono essere paragonati agli attuali montaggi di video personali caricati su piattaforme come Tiktok e Instagram?
Io penso ci sia una sostanziale differenza tra un home movie, inteso proprio come film di famiglia, e i montaggi di video personali caricati sulle piattaforme social. Questa differenza consiste nell’identificazione di un target: l’home movie nasce come pratica intima, quasi diaristica, un confronto dialogante tra sé e sé sul proprio esistere, sul proprio essere. È una domanda che ci si pone. Anche qualora il film preveda uno spettatore (ma allora non parliamo più di home movie, bensì di cinema privato), quest’ultimo viene messo in mezzo a una faccenda privata ed esistenziale, dettata da un’autentica necessità in grado di comunicare sensazioni o attivare percezioni e memorie al di là del vissuto personale dell’autore. Diverso è il caso del montaggio di video destinati ai social, siano essi digitali o in pellicola, non fa differenza: il social è sempre e comunque ostentazione di sé, non pone interrogativi, ma mira a costruire un personaggio a cui credere, spettatori e autori inclusi. La stessa differenza che intercorre tra autoritratto e selfie, per intenderci. Non ci si spoglia mai veramente perché pubblicare su un social è una prassi, il cui significato è voler avere gli occhi addosso e risultare accettabili, anche se ci si pone in maniera controcorrente. Difficilmente quindi può diventare qualcosa di interessante, in questo senso, a meno che non si parta dal presupposto che è “altro” e non si voglia analizzare questo altro: ma allora stiamo facendo cinema privato su materiale d’archivio (il montaggio pubblicato sui social è il materiale d’archivio; il film rivela ciò che vi è nascosto, captandone e restituendone la tensione interna). D’altro canto, capita di doversi imbattere in proiezioni di home movies in versione digitale, ovvero memorie audiovisive generate in video, che non contemplano un pubblico, né tantomeno coltivano uno sguardo autoriale, pur riorganizzate in montaggio: un aldilà del cinema assai poco entusiasmante.
Nel tuo libro “Il cinema di prossimità: privato, amatoriale, sperimentale e d’artista” (Falsopiano, 2018), parlando della definizione del cinema di prossimità, scrivi: “un insieme di film che non ha obbligatoriamente finalità narrativa né precisa intenzione di essere sottoposto a un pubblico”. Pensi che ancora oggi esistano film che non vengono realizzati per un pubblico, anche se amatoriali?
Rifacendomi alla risposta precedente: sì, credo possano esistere, anche se siamo portati a pensarci sempre più al centro di un potenziale pubblico, in epoca social. L’idea del social non è però da demonizzare a prescindere, perché credo sia naturale voler condividere il proprio vissuto, le proprie esperienze, per dare senso al nostro esistere. Il problema è la latente psicopatologia che ne deriva e che influisce sulla nostra personalità e sul nostro rapporto con gli altri.
Non credo che registrare qualcosa senza pensare a un pubblico, per pura e semplice volontà di ricordare, sia una pratica molto diffusa, in quanto è da tempo venuto meno il rito di proiezione famigliare, ad esempio, e spesso, iperconnessicome siamo nell’infosfera globale, i ricordi digitali non vengono mai rivisti, se non è l’algoritmo a suggerirceli… e del resto anche la famiglia può considerarsi un pubblico a cui inviare i propri “ricordi contraffatti”, specie nel contesto di famiglie disgregate in cui viviamo. Tuttavia io credo che questo dipenda dalla sensibilità del singolo individuo: possiamo parlare di tendenze sociali, ma esistono sempre eccezioni in grado di confermare la regola.
Guardando al futuro, che cosa immagini per il futuro del cinema di prossimità?
Per quanto riguarda il cinema di prossimità mi pare di vedere già il futuro nel presente: spero guarisca dal tic archivistico manierista e il termine torni a definire una pratica fresca, genuina, linguisticamente e concettualmente interessante e innovativa. Che sia davvero prossima al mondo, alla vita, una necessità esistenziale senza regole o modalità consolidate, accomodatesi sui (tanti) limiti della compiacente critica cinematografica.
Biografie
Laura de Stefano, classe 1999, è una montatrice e collabora con produzioni indipendenti e non, nell’ambito della post-produzione cinematografica. Ha studiato cinema alle Accademie di Belle Arti di Brera e Roma, dove è laureanda in Teorie e Tecniche dell’Audiovisivo, con un progetto di tesi che affronta il complesso e attuale discorso relativo al futuro del cinema d’archivio. Ha intrapreso il suo percorso di ricerca intervistando Agostino Ferrente, regista di Selfie (2019) e Ilaria Pezone, ideatrice della rassegna itinerante Sirene wAVe Movie (di cui segnaliamo attualmente aperta la call per la settima edizione: https://www.
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