In absentia: intervista ad Alessandro Canzian

di Roberto Lamantea

 

Un’intervista di Roberto Lamantea ad Alessandro Canzian sulla sua recente pubblicazione “In absentia” (Interlinea, 2024). Quest’intervista riprende e amplia, per gentile concessione di Giovanni Fierro, un dialogo precedentemente pubblicato su Fare Voci (gennaio 2025: https://farevoci.beniculturali.it/)

 

 

Roberto Lamantea: “In absentia” s’interroga su temi come Dio, la storia, la guerra, ed è inevitabile leggere il libro anche alla luce dei conflitti in corso, Ucraina e Gaza: non cronaca ma simboli. Lo sguardo sulla storia, sull’uomo, su Dio, è desolato: è così?

Alessandro Canzian: È sempre un po’ rischioso che chi ha scritto un’operetta in versi ne tenti la spiegazione. Perché in fondo è già tutto scritto lì, quanto di consapevole e di inconsapevole. Lo “strumento” poesia ha questo di affascinante: è aderente e intrecciato al nostro essere persone che, in quanto vive, sono obbligate a osservare il mondo. Ma lo strumento ha dei bordi non proprio così netti, anzi sono un po’ vaporosi un po’ sfilacciati. E in quei bordi ti rendi conto esserci altro. Un’intuizione? Un desiderio? Non lo so. Motivo per cui cerco di rispondere alla tua domanda avvisando subito di questo limite: l’autore è sempre un pessimo lettore di sé stesso (e quando invece non lo è, allora forse è un pessimo autore).

“In absentia” parla di guerra: si e no. Al terzo verso del primo testo accade la parola “bombardamenti”, e ti confesso io stesso mai avrei pensato di usarla. Ho litigato molto con quel termine perché noi, intendo noi italiani, non stiamo vivendo la guerra. La ascoltiamo dai media, dalle varie fonti, recepiamo quel che arriva nel suo essere sempre e comunque modulazione verso un effetto, un obiettivo specifico. Parla di Storia, questo è innegabile e forse con quest’abito mi sento un po’ più a mio agio. Che poi ci siano “pezzi” di conflitti attuali non lo posso negare: “La vita è sopravvalutata”, una chiusa, riprende fedelmente le parole di Vladimir Solovyov, giornalista russo, in televisione, a dicembre 2022. E così via dicendo, alcune sono segnalate in nota o da Martin Rueff, che ha curato la lettura critica, altre no.

Mi piace che usi il termine “simboli” nella tua domanda. Perché è un termine un po’ “romantico” per fissare dei concetti che nascono da ricorrenze, atroci ricorrenze. “Noi abbiamo fatto lo stesso / a Tripoli e Leningrado”, le parole di uno dei due soldati in “Sul fondo”, questo credo vogliano ammettere: la Storia continua a contorcersi su se stessa, gli uomini continuano ad essere sempre terribilmente identici nella propria violenza. Che non è violenza personale perché questa accadrebbe di rado, per sbaglio. È natura, perché ci accompagna e ci denota fin dall’inizio dei (nostri) tempi.

Quindi si, lo sguardo è desolato, sconfitto, sconfitto anche nella speranza. Che però, a una lettura postuma, mi pare resista ancora.

 

 

R.L.: «La storia accade / ma non se ne ha memoria»: mi vengono in mente versi famosi di Salvatore Quasimodo: «Sei ancora quello della pietra e della fionda / uomo del mio tempo». Il tema della guerra attraversa tutta la letteratura, dai miti antichi, Omero, sino alle voci della Shoah: qual è il posto della poesia in uno scenario che spesso sembra togliere ogni speranza?

 A.C.: Oggi, per noi italiani, nessuno. In altre parti del mondo la letteratura è resistenza civile, è scontro, noi facciamo le raccolte di poesie contro la guerra dove c’è posto per ogni voce, per ogni autocompiacimento. Vogliamo pensare che la poesia smuova gli animi? Che aiuti le “resistenze” e le “umanità”? Non qui da noi. Durante la seconda Guerra Mondiale sappiamo molti soldati portavano nello zaino “Le occasioni“ di Montale, pubblicato nel ’25 (e siamo ormai nel centenario, e in “Laboratori critici” stiamo preparando un “viaggio” dentro questo libro che io e il direttore responsabile Matteo Bianchi speriamo dirà molto). Oggi questo “trattenimento” non può più accadere perché noi, noi italiani, siamo anestetizzati. La consapevolezza, il saper guardare da più punti di vista, è diventata l’eccezionalità. La poesia è, appunto, uno “strumento” che si piega al suo utilizzatore.

La domanda successiva potrebbe essere: ma se lo “strumento” è diventato inutile, senza collocazione, perché piegato al suo utilizzatore, noi che siamo gli utilizzatori che utilità e collocazione abbiamo?

 

 

R.L: “In absentia” propone testi brevi di cinque/sei versi l’uno, composti tra il 2020 e il ‘24: qual è il tuo metodo di lavoro? I tuoi versi nascono di getto o lavori molto sulla scrittura, rileggendo fra tagli e riscritture?

A.C.: Il primo “gesto” credo sia comune a tutti: scrivere di getto. Che poi questo “gesto” sia una fermentazione di altro, e di un tempo più o meno lungo, direi è il minimo indispensabile. Successivamente, almeno per me, accade la lettura, la rilettura, la composizione di quella che può essere un’opera, i tagli, le ricomposizioni, i tentativi e i ripensamenti. Giusto per dare un dato che sia più veritiero di quel che possono essere le mie parole, nella cartella dedicata nel mio pc al momento esistono 191 versioni di “In absentia” dal 3 maggio 2022 alla data di consegna all’Editore. Considerando che mancano i due anni precedenti (ho cambiato pc) e che non di rado ho sovrascritto i file, cioè non li ho salvati con una data diversa perché le modifiche non mi parevano così sostanziali (punteggiatura, una diversa versificazione, un testo aggiunto), posso azzardare almeno il doppio di versioni rispetto a quelle che sono rimaste.

Di fondamentale importanza resta però il confronto “per strada” con alcuni amici. Tra questi Matteo Bianchi, che ti ho già citato, e Roberto Cescon. Confronto che serve a oltrepassare il sé e a rendere la poesia un po’ più “collettiva”.

 

 

R.L.: “Samuele Editore” è una delle più importanti sigle dell’editoria di poesia oggi in Italia, per le collane e per la collaborazione con Pordenonelegge. In Italia moltissimi scrivono versi, agli editori arrivano centinaia di proposte di pubblicazione, molti sono i premi, molti i festival, ma sul mercato librario la poesia è una nicchia: come spieghi questa contraddizione?

 A.C.: Intanto ti ringrazio per questo elogio che ancora adesso, dopo 15 anni di attività, sento immeritato. Si fa quel che si può e che si riesce, non di rado nonostante gli autori stessi.

Alcuni giorni fa, riflettendo con la redazione sui prossimi numeri di “Laboratori critici”, abbiamo incrociato una discussione di Loredana Lipperini poi divenuta articolo su Lipperatura (https://www.lipperatura.it/publish-or-perish-lo-stato-delle-cose-delleditoria-da-un-bel-pezzo/). La questione è che ormai tutto è diventato nicchia e si è disperso in un sacco di rivoli fatui. Perché? Qui si potrebbe dire tutto e niente, partendo dalla trasformazione dell’Editoria in Industria Editoriale e arrivando alla scolarizzazione sempre peggiore che abbiamo vissuto negli ultimi 40 anni.

Però tu dici una cosa importante che purtroppo è una consapevolezza sempre più dilagante: premi, festival, proposte come piovesse. Vendite sempre poche se non pochissime.

La questione è che ormai il libro è diventato inutile. Prima era tutto il focus, la cosa importante. Poi è diventato un biglietto da visita. Adesso il libro (e qui il discorso della competizione che fa Lipperini e che purtroppo vedo spesso, pur nella sua assoluta futilità) non serve nemmeno più se non come una qualche strana forma di feticcio, di spilletta o se vuoi di “tassa da pagare” per il resto. Oggi l’autore basta a sé stesso negli incontri, nei festival, nei premi e via dicendo.

Però è bello che chiami questo effetto “contraddizione” perché denota una qualche resistenza del libro, che è resistenza delle opere. Che, ricordo, devono vivere a prescindere dall’autore.

Non si scrive per diventare protagonisti ma per costruire un poco il mondo, senza mai diventarne il soggetto.

 

 

R.L.: Dal tuo osservatorio di autore ed editore: ci sono secondo te delle tendenze dominanti nella poesia italiana di oggi, in particolare tra i giovani autori?

A.C.: Questa è una domanda difficile e non mi sento in grado di rispondere. Il motivo è presto detto: sono un Editore in primis, e soprattutto, e leggo veramente tantissimi manoscritti. E alcuni li chiedo, li progetto, come nel caso di libri che si immaginano prima vestiti su questo o su quell’autore che, a sua volta, poi deciderà se il progetto gli sta bene. Ma è un vero e proprio osservatorio? Non credo. Sul punto di vista autoriale poi, ammettiamolo, si legge sempre più quel che piace che quel che serve, il che rende decisamente monco il panorama. Altra cosa è Laboratori Poesia (www.laboratoripoesia.it), che appunto si chiama “Osservatorio Poetico”, ma la domanda resta: è valido? È esaustivo? Anche in questo caso temo di no. La spiegazione è presto detta: si leggono e si recensiscono per lo più libri di gente “visibile”, o comunque nell’orizzonte visibile soprattutto sui Social (il che è molto limitante purtroppo). Oppure accade di dare attenzione ai libri dell’Editore di turno che, per qualche mese o anno, ha visibilità per tutta una serie di motivi. L’Editoria ha molte di queste ondate che sostanzialmente vivono di dinamiche un po’ tutte uguali. Ma non è questo il luogo adatto per parlarne.

Cos’è quindi un vero osservatorio? Le antologie? Direi di no, dato che sono state abusate e maltrattate non di rado con la formula “alcuni autori noti e molti autori sconosciuti”. I Premi? Qui non serve nemmeno dare spiegazioni. Partirei piuttosto da chi può ipoteticamente essere in grado di “osservare” il presente, di “tradurre” un oggi ormai di fatto “intraducibile”. Penso al critico in quanto tale (non agli improvvisati critici da palcoscenico, sia chiaro) che investe e rischia nella sua scelta. Mai esaustiva o definitiva, ma che ha in sé i semi dell’interpretazione della realtà: quando ha dei punti fissi, delle regole chiare. Sto pensando all’operazione di Tommaso Di Dio con il Saggiatore, elogiata e criticata ma di certo molto chiara e onesta, e in quanto tale utile. Ma anche la Policastro edita da Mimesis, il Giovannetti edito da Carocci o la Pugno anche lei edita dal Saggiatore (abbiamo dedicato il num. 4 di novembre 2023 di “Laboratori critici” a questo tema).

Quello che posso dire, giusto per abbozzare una risposta alla tua domanda senza evitarla proprio del tutto, è che c’è un po’ la tendenza al dire a tutti i costi qualcosa dando per assodata la forma. Che può anche starci. Oggi, con la cultura praticamente a portata di mano, è ben difficile scrivere una poesia “brutta” a livello formale. Ma l’eccessiva attenzione al contenuto credo sia un po’ come il costruire su un terreno franoso, prima o poi viene giù. Accadono comunque libri molto belli, sia chiaro, e ne dico tre fra tutti: L’isola dei topi di Bertoni per Einaudi, Dove sono gli anni di Villalta per Garzanti, Paradiso di Stefano Dal Bianco sempre per Garzanti.

 

 

R.L.: Il computer, lo smartphone, i social hanno cambiato il modo di scrivere e leggere poesia? Sono utili per la diffusione della poesia? Personalmente vedo in Facebook uno strumento formidabile di informazione, conoscenza e confronto anche per un settore di nicchia come la poesia: che cosa ne pensi?

 A.C.: Non sono molto d’accordo con te. Si il “mondo” a portata di mano fa comodo, e potenzialmente potrebbe essere molto utile, ma da quel che vediamo è un grande spreco. Avere più informazioni non vuol dire, ormai è chiaro, sapere di più, così come avere più libertà non significa essere liberi. Intendo, ovviamente, la libertà di parola.

I Social sono figli del tempo, e creatori a loro volta del tempo che li vede figli. Perché nei Social non siamo noi ma “narrazioni di noi”. Nei Social diventi poeta senza aver mai scritto un testo o un libro decente (e ti invitano anche all’Università a tenere lezioni di poesia!). Ma tale narrazione non viene praticamente mai supportata da una realtà dei fatti, bensì da un’ammassarsi di commenti e like.

Insomma hai ragione su quel che “potrebbero essere” i Social, non credo su quel che “effettivamente sono”.

 

R,L.: Tu scrivi a penna o su una tastiera o entrambi?

A.C.: Direi entrambi, ma solo per una mera questione di abitudine o di occasione al momento. Importante, invece, la stampa del testo e la correzione a penna. Direi imprescindibile. Il testo deve avere una sua concretezza, una sua quasi matericità sul foglio. E il segno di taglio della penna è il gesto di composizione necessario, reale. Non solo realistico come lo è a video.

 

R.L: Che cosa pensi del fenomeno poetry slam, letteralmente “colpo di poesia”?

A.C.: Qui temo di deluderti perché non ho alcuna idea in merito. È stato un momento che ha fatto “chiasso” più che scalpore come una novità-non-novità (si pensi alla poesia sonora di Spatola negli anni ’70). Alcuni di “quei” poeti, taluni anche molto bravi, hanno poi deciso di passare a una pagina scritta forse un po’ inconciliabile con lo “slam”. Nessuno, mi pare, sia in realtà sopravvissuto a quella stagione di attenzione e promesse. O almeno non più degli autori diciamo più “canonici”.

Non voglio assolutamente dire che il “poetry slam” sia stato una moda, sarebbe riduttivo e ingiusto, certo è innegabile sia stato un momento di rilancio che poi si è un po’ esaurito. Ma è solo una mia opinione.

 

 

R.L.: Per salutarci, qualche verso da “In absentia” (Interlinea, 2024) che io stesso ho scelto.

  

La ragazzina a lato dei binari

con le calze smagliate e le

unghie scolorite domani

risolverà tutti i problemi

bevendo ammoniaca.

*

Lasciata la ragazza un cane

con l’orrore negli occhi e il sangue

si avvicina alla ciocca di capelli

in bocca. Pensa

quanta paura deve avere di noi.

*

Io non credo possa finire

nell’attimo in cui lo uccidi.

Siamo borracce noi stessi

da cui qualcun altro beve.

*

L’uomo è lupo all’uomo

e iena e rana e cavallo

come quel cane che corre

senza zampe nel fossato.

*

Hanno spianato per chilometri

qualunque cosa viva

alberi compresi.

Conta quanti loro morti

valgono uno dei nostri.

*

Ubriaco la maggior parte del tempo

ho interrogato Dio

nello scarafaggio spezzato.

Lui ha confessato d’essere

solo un buio, uno sbaglio.

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