
27 Feb Mary Midgley: focus su comunità mista
di Corrado Fizzarotti
Non è difficile trovare occasioni per interrogarsi sul nostro rapporto con il mondo animale. Basta sedersi all’aperto, in un parco cittadino, circondati dal quotidiano fluire di una “comunità mista”: persone, cani al guinzaglio, uccelli che si posano sui rami, insetti invisibili che abitano il prato. Da un simile piccolo punto d’osservazione, si possono sentire la presenza di altri esseri viventi, l’intreccio di relazioni, la rete di legami sottili che formano il tessuto di quel che chiamiamo “ambiente”. Proprio questa è l’immagine che la filosofa Mary Midgley propone quando parla di ‘mixed community’, comunità mista: un mondo morale popolato non solo da umani, ma da una pluralità di creature degne di attenzione. Un invito a pensare la “comunità” non più come un club esclusivo, ma come una rete di interdipendenze. Midgley concepisce la natura umana come un intreccio complesso di elementi biologici e culturali. Pur riconoscendo che l’uomo fa parte del regno animale, lei enfatizza comunque le classiche capacità distintive (come il linguaggio articolato e le strutture sociali complesse) che ci separano dagli altri esseri viventi. Questa separazione, tuttavia, non è da intendersi come una svalutazione delle altre specie: è solo una differenziazione che ci invita a comprendere la nostra relazione con la natura, a viverla con responsabilità e rispetto.
In “Beast and Man” (1978), Midgley osserva come l’uomo si sia tradizionalmente allontanato dagli animali attribuendo loro vizi e difetti che in realtà appartengono alla natura umana. Questo meccanismo di proiezione, secondo lei, ha spesso distorto la percezione degli animali, rappresentandoli come meri riflessi delle nostre paure e desideri. Superare tali distorsioni ci aiuterebbe a vedere gli animali per ciò che sono e a riconsiderare con maggiore autenticità la nostra stessa natura.
Nel pensiero della filosofa inglese, il problema dello “specismo” — ossia la tendenza a trattare gli interessi delle creature non umane come meno importanti o meno degne di considerazione solo perché appartenenti a specie diverse dalla nostra—non è una questione secondaria. Parlarne non è un capriccio moralista di chi ama gli animali da compagnia, né un’opzione radicale per pochi attivisti. È piuttosto una questione che tocca le radici stesse della nostra visione del mondo. Come possiamo definirci esseri morali se costruiamo il nostro benessere ignorando, sfruttando o maltrattando altre forme di vita? Come possiamo aspirare a una società giusta se i nostri principi di equità e rispetto rimangono confinati entro i confini della specie umana, trascurando la sofferenza di chi, pur non essendo nostro simile, abita e condivide la medesima casa comune?
Midgley non era certo naïf: conosceva le tensioni, le difficoltà e le ambiguità implicate nel riconoscere ai non umani un posto significativo nella nostra sfera morale. Sapeva bene che noi, come animali umani, abbiamo bisogni complessi, una storia evolutiva che ci ha portato a tessere rapporti di predazione, domesticazione, protezione. Non suggeriva semplicemente di equiparare ogni forma di vita sullo stesso piano, ma di riconoscere che tali rapporti non possono essere ridotti a semplici gerarchie di dominio. La sua critica al riduzionismo e all’arroganza umana vale anche qui: non si tratta di negare differenze biologiche o culturali, ma di mettere in dubbio la pretesa che tali differenze si traducano necessariamente in scale di valore morale, in suprematismi etici che danno agli umani il diritto incontestato di disporre delle altre vite.
In questi termini, la posizione di Midgley non si limita a rifiutare il cosiddetto “specismo”. Essa traccia piuttosto i contorni di un “antispecismo” più sfumato, in grado di dialogare con la realtà della condizione umana. Non un antispecismo teorico, fatto di soli slogan e rivendicazioni astratte, ma un percorso morale che invita a maturare una sensibilità più vasta, a capire che le comunità non sono entità monolitiche. Una comunità non è costituita unicamente da individui della nostra specie; e anche quando crediamo di interagire solo con persone, siamo immersi in un contesto ecologico e simbolico molto più ampio. Le nostre azioni, le nostre scelte alimentari, le nostre priorità economiche, perfino le nostre opere d’arte, si intrecciano con la vita di altri esseri. Riconoscere questa “comunità mista” può aprirci a una comprensione più profonda e responsabile del nostro agire.
Nella contemporaneità, l’urgenza di questa riflessione appare evidente. Le crisi ambientali, dal riscaldamento globale alla distruzione degli habitat, dalla pesca eccessiva alla deforestazione, testimoniano la portata del nostro intervento sul pianeta. Nel riconsiderare i rapporti tra le specie, Midgley ci incoraggia a non nasconderci dietro l’alibi della neutralità scientifica o della tradizione consolidata, ma a riconoscere che le nostre scelte hanno conseguenze etiche.
Le domande centrali di questa questione sono ben familiari a chiunque si sia mai occupato di questi temi: È giusto considerare la sofferenza animale come un mero effetto collaterale? È accettabile vedere la natura come un magazzino di risorse da spremere, ignorando il valore intrinseco di altri esseri senzienti?
Sotto questo profilo, la proposta di Midgley diventa un invito a ripensare i fondamenti dell’etica. Questa riconcettualizzazione non significa soltanto aggiungere un nuovo capitolo ai manuali di filosofia morale, rimette in discussione il nostro modo di “sentire” il mondo. Come scrittrice e pensatrice, Midgley sapeva che i cambiamenti culturali profondi non nascono da una dimostrazione logica, ma dall’interazione tra ragione e immaginazione, tra conoscenza e sensibilità. Come quando un artista riesce a mostrarci un paesaggio familiare da una prospettiva inedita, svelandone la fragile bellezza. O come quando la letteratura, inaspettatamente, ci fa empatizzare con creature che non parlano la nostra lingua, e tuttavia trasmettono un senso di vulnerabilità e dignità.
Pensiamo ad alcune opere contemporanee: il cinema documentario di autori che immergono lo spettatore nella vita degli animali selvatici, o la letteratura che dà voce a storie di confine tra umano e non umano, come certe narrazioni di J. M. Coetzee, in cui il destino degli animali diventa, metaforicamente, il destino di tutti gli oppressi. L’arte, in questo senso, può essere un terreno di incontro tra filosofia e sensibilità etica, un luogo in cui scoprire che la “comunità mista” non è una nozione astratta, ma una realtà già presente nei nostri giardini, nelle nostre case, nelle città in cui viviamo. Forse la differenza sta nel fatto che spesso non la vediamo, o la vediamo ma la interpretiamo con gli occhiali dell’abitudine.
Il tentativo antispecista, così come emerge da queste riflessioni, non è dunque una fuga in avanti, un voler rendere ogni esistenza esattamente uguale all’altra. Piuttosto, è un invito a riconoscere che i criteri con cui assegniamo valori e diritti non sono inevitabili, che le barriere tra chi merita considerazione morale e chi no non sono scolpite nella pietra. È un gesto di apertura mentale, in linea con la visione più ampia di Midgley, la quale insisteva sul fatto che la filosofia non dovesse ridursi a una disputa tra specialisti, ma diventare uno strumento di comprensione condivisa, una sorta di specchio in cui guardare le nostre responsabilità e i nostri legami.
In una società frammentata e in rapida trasformazione, riscoprire questa dimensione può essere vitale. Non si tratta di affermare una visione idillica in cui l’uomo vive in perfetta armonia con la natura: sappiamo che il conflitto e il cambiamento sono parte della vita. Ma c’è una grande differenza tra conflitto inevitabile e sfruttamento sistematico, tra tensione creativa e abitudine all’indifferenza.
Il pensiero di Midgley, se lo riportiamo ai nostri tempi, ci interroga: come vogliamo abitare questo pianeta? Vogliamo continuare a vivere come padroni di casa indifferenti agli ospiti (o ai coinquilini) non umani, oppure accettare la complessità di una casa comune abitata da molte presenze, tutte meritevoli almeno di una considerazione morale minima? È possibile passare dall’idea di una società umana “a cerchio chiuso” a una comunità mista, capace di ospitare differenze radicali senza necessariamente tradurle in gerarchie rigide e distruttive?
In queste domande non c’è una risposta facile, e sarebbe ingenuo pretendere di trovarla in poche righe. Ma Midgley ci ha offerto un metodo: un approccio filosofico che non perde di vista la ricchezza dell’esperienza umana e il valore delle altre forme di vita, un’attenzione sincera alle nostre narrazioni, ai nostri miti, alle cornici culturali che plasmano la nostra idea di “natura” e “civiltà”. È lì che possiamo cominciare a riformulare le nostre categorie, a riconoscere la dimensione animale dell’uomo e l’umanità della natura, a scorgere continuità e differenze senza trasformarle sempre in gerarchie.
Si torna all’immagine del parco, a quella “comunità mista” di cui si può fare esperienza senza quasi accorgersene. Gli uccelli tra gli alberi, i cani che osservano curiosi i passanti, le minuscole creature invisibili tra i fili d’erba. Un mosaico vivo, complesso, pulsante, in cui ogni tassello, per quanto diverso, contribuisce a creare un quadro più ampio e significativo. È questa l’immagine di cui avremmo bisogno per affrontare i dilemmi morali del presente: un’immagine di co-appartenenza, di sostegno reciproco, di antichi legami da riscoprire, di nuove idee da far germogliare. È in questa disposizione d’animo, in questa apertura paziente e riflessiva, che il pensiero di Midgley trova una delle sue più preziose eredità.

Quest’articolo fa parte della serie “Il quarto regno”.
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