Le vite degli altri tra memoir e autofiction

di Muriel Pavoni

Negli ultimi anni abbiamo assistito al moltiplicarsi di pubblicazioni incentrate sulla figura di un genitore. Si tratta di romanzi, più spesso memoir, che raccontano un padre celebre con cui fare i conti (“La casa del mago” di Emanuele Trevi, “Le serenate del Ciclone” di Romana Petri, “Tu, sanguinosa infanzia” di Michele Mari, aggiungerei il film di Francesca Comencini “Il tempo che ci vuole”), altri invece si cimentano con la scomparsa di un genitore. La malinconia e il desiderio di scandagliare esperienze umane distanti seppur vicine, qualcosa che coincide col rammarico di non aver compreso, e il desiderio di ricucire alcune crepe, sono lo spirito comune di: “Invernale” di Dario Voltolini, “Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini, “Il nostro regno” di Linda Ferri.

 

 

 

 

 

 

 

 

Tra tutti “Il fuoco che ti porti dentro” è una trafittura a partire dall’incipit:
“Benché da molti sia considerata un bella donna, mia madre puzza”, e il seguito è anche peggio, mi ritrovo a pensare per buona parte del romanzo. Per qualche oscura ragione però decido di proseguire nella lettura e, a un certo punto, accade qualcosa che apre uno scenario su una lettura che si prospettava poco “digeribile” e mi ritrovo in una terra sconosciuta e affascinante.
“La detesto da sempre”, continua parlando dell’educazione a rovescio, fatta di disvalori, che gli ha impartito la madre. A questo punto la mia mente, che già sulle prime reclamava ossigeno, è approdata al saggio di Natalia Ginzburg “Le piccole virtù” che inizia più o meno così: “Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio ma la generosità, non la prudenza, ma il coraggio, non l’astuzia ma la schiettezza…”.
Risparmio, prudenza e astuzia sono insegnamenti virtuosi nell’educazione piccolo borghese, ma per Ginzburg il piccolo è il grande e viceversa, al contrario dell’accezione comune. Lei rovescia la prospettiva, inverte i valori, mentre Angela, la madre dell’autore, è del partito delle piccole, anziché le grandi, virtù, infatti l’autore si premura di farci notare che la concezione della vita della madre, proprio per questo motivo, gli ha sempre fatto schifo.
È nel tendere alla diffidenza verso il prossimo, al rancore, che Franchini identifica la madre, in un ritratto tutto declinato al negativo, al biasimo e inquadrato attraverso la lente del disprezzo. Ne risulta un’esperienza umana che poi, a un certo punto, trasforma il memoir in romanzo e la madre in personaggio vero e proprio. Vengono a galla aneddoti e una galleria di comprimari attorno a questa famiglia di tre donne nella Napoli post bellica, il padre muore in guerra e Angela resta con madre e sorella. C’è il signor e la signora Cimmino, la Luciana, la signora Verde, la sarta dell’ultimo piano, l’amica/nemica Rita Capece, il ricordo dell’esame di maturità, la zia Vittoria, e pian piano, malgrado il giudizio dell’autore non ci venga mai risparmiato, noi che leggiamo ci ritroviamo a guardare il personaggio della madre così naïve, disarmante e innocentemente feroce, con una certa dose di tenerezza, complice l’uso della lingua, il napoletano con quelle frasi in un dialetto ruvido e palpitante. Al centro c’è sempre lei: Angela, le cui gesta, come mangiare venticinque fichi d’india in una volta sola, risultano epiche nel loro essere macchiettistiche, nel suo essere sguaiata, inopportuna, esagerata, diventa un personaggio tenerissimo, qualcuno che non sai se odiare o amare. Una persona talmente vera nella sua innocenza che suscita più comprensione che biasimo. È proprio l’impresa di trasformare una figura materna detestata in meraviglioso personaggio letterario, tridimensionale e pieno di chiaroscuri, che la affranca e la consegna a una dimensione che ha il potere di portare il lettore dalla sua parte. Tutti noi siamo figlie o figli e in un mondo inconscio e indecifrabile (un sentimento che ciascuno di noi conosce ma non ha il coraggio di ammettere) proprio lì, nel definire la madre come una persona orribile ma nel raccontarla come semplicemente vera, si compie il miracolo dell’immedesimazione e della vicinanza. Esiste una dimensione che fa dell’esperienza dell’autore la nostra, lì avviene qualcosa di mostruoso e difficile da digerire, ma anche pieno di affetto e pietà umana. Perché i personaggi irrimediabilmente buoni sono insopportabili e così le madri, ma invece in un tempo remoto o vicinissimo ognuno di noi ha avuto pensieri indicibili sulla propria madre e saranno fantasmi che ci tormenteranno per sempre.
È da poco morta mia madre, pure lei ha attraversato un percorso simile ad Angela. Ho letto il romanzo quando mia madre era in un ospedale in attesa della morte, l’ho letto con dolore, perché andava a scavare nei miei sensi di colpa, poi qualcosa si è acceso e ha cambiato il mio approccio al personaggio, alla figura dell’autore (che in un primo momento ho trovato esagerato) e infine alla figura di mia madre, che sbiadiva sempre di più, ma affiorava nei ricordi. Non nego neppure che per certi versi mia madre (e con lei tante altre donne della sua generazione) avesse alcuni tratti simili ad Angela e aggiungo che, se da un lato questo libro mi ha spogliata del buonismo della circostanza, dall’altro mi ha riconciliato con il personaggio che è stata mia madre, perché le vite, anche quelle più distanti da noi, se riordinate in forma narrativa, acquistano una qualità nitida che ha a che fare con l’impossibilità di restituire dei nostri cari un’immagine purificata, ma complessa, come sono tutte le vite. Succede che i loro atteggiamenti, anche i più incomprensibili, diventano ragionevoli nel contesto storico e sociale, coerenti con l’educazione e con le esperienze di vita e improvvisamente nessuno è imperdonabile, siamo tutti il risultato di qualcosa che abbiamo governato solo in parte.

 

 

 

 

 

 

 

 

Verso la fine del 2024 è uscito “Il nostro regno” di Linda Ferri, che sembra fare da contrappeso a “Il fuoco che ti porti dentro”.
Il romanzo della Ferri parte dal punto di vista opposto: “mamma, da quando sei andata via non esisto più, ho smesso anche di scrivere…”.
Potrebbe sembrare, leggendo l’incipit, di essere dinanzi alla risposta indulgente a Franchini. Ma invece questo è un romanzo di indagine sulla memoria che allarga l’inquadratura, alla maniera di Lalla Romano, alla storia della famiglia della voce narrante e alla vita della protagonista stessa.
“Il nostro regno” invece di essere un libro ripiegato sul dolore, parla di migrazioni, spostamenti e di quello che ne consegue. Il sentimento comune a tutti i personaggi è la condizione dell’esule, che riguarda sia la famiglia della madre sia la voce narrante per i continui spostamenti della famiglia. In particolare si parla dell’essere da qualche parte e provare malinconia per il luogo in cui non si è, e di quella nostalgia che ciascuno di noi si porta dentro, dal primo momento del distacco dai propri genitori. “Il nostro regno”, lontano dall’essere un resoconto doloroso sul distacco, è un romanzo dal respiro ampio che racconta un rapporto esclusivo e unico tra madre e figlia, ma in senso più ampio allarga la prospettiva a come quel rapporto sia esperienza comune. Gli atti mancati sono il punto centrale di una relazione molto esclusiva e molto profonda, però arricchiti da luci e ombre che il tempo passato ha trasfigurato. La relazione con la madre, un rapporto profondo e tempestoso, crea nella voce narrante una sorta di insofferenza continua, ma senza giudizio sulla madre, piuttosto creando un continuo gioco di specchi. Il libro parla di un grande amore e una grande proiezione, perché la madre vorrebbe per la figlia quello che non ha potuto avere, e le aspettative sono alte, e la figlia ne sente il peso. Il libro stesso è una ricerca da parte dell’autrice sulla figura materna che non c’è da molti anni e, da questa prospettiva, si avvicina al romanzo di Franchini, perché in entrambi indagare questo rapporto serve per capire il resto della propria vita, diventa una chiave di lettura delle vite in generale, perché la famiglia rappresenta la palestra per le relazioni future.
Può essere che in quest’ultima ipotesi risiedano le speranze degli autori che si cimentano con questo genere, mi chiedo se ci sia una ragione del loro coincidere in questo periodo storico, ma facendo esercizio di memoria richiamo decine di altre autrici e autori: da Kafka a Thomas Bernhard, da Natalia Ginzburg a James Ellroy, da Richard Ford a Miriam Toews, da Annie Ernaux a Romain Gary, da Emmanuel Carrère a Eshkol Nevo e l’elenco potrebbe proseguire. Penso che scrivere sia guardare le cose come se le vedessimo per la prima volta e, a quel punto, iniziare a scavare dentro e fuori. Probabilmente a forza di scavare è impossibile non incrociare la relazione più problematica: quella coi nostri genitori. Secondo la regola di Flannery O’Connor bisogna scrivere solo di ciò che si conosce, ma per farlo è necessario trovare una storia di dimensioni mitiche, che appartenga a tutti. Perciò al di là della polemica tra fiction e autofiction mi sento di perdonare questi autori caduti nella trappola di una letteratura un po’ troppo ombelicale dal momento che, in qualche modo, hanno saputo sfiorare il mito, ciononostante non saranno mai imperdonabili secondo l’idea di Cristina Campo, restano comunque autori perdonabilissimi.

No Comments

Post A Comment