Non lasciare che la vita ti divori

di Cristi Marci

 

Di fronte al mio ennesimo rifiuto papà sbatte il pugno sulla tavola, facendo tremare i bicchieri di cristallo finemente verniciati e il servizio di piatti in porcellana, ricevuti da sua cognata quando sposò mia madre.

Alice ci risiamo cù sta camurrìa del cibo?”, mi ripete, mentre seduta su una pungente e scomoda sedia barocca annuso le nuvole di vapore del cibo che, a senso loro, dovrei inghiottire.

Stavolta è il turno di un petto di pollo panato che emana un aroma vomitevole. È ricoperto da spezie di seconda mano, raccattate da quella cosa inutile, rì me matre, alla Lidl.

Con lei è diventato tutto un “perché non fai questo”, “dovresti essere così” e infine, la mia preferita “potresti fare di più Alice”. Oltre alla fissa per la cucina mamma ha sempre cercato di ampiccicarmi una cura eccessiva per tutto ciò che è estetico e appariscente, ergendosi a esempio da seguire. Perfino oggi mi ha costretta a indossare un abitino di velluto bianco, dentro il quale navigo, passarmi sulle labbra uno dei suoi rossetti da buttana, e infine a impreziosirmi il collo con una delle sue collane più belle.

“Voglio che la indossi il giorno del tuo matrimonio, mi raccomando”, mi ha ammonito, chiudendo il portagioie prima di recarci a tavola.

Papà invece è sempre stato quello più assente. Parcheggiato di fronte al televisore e con la canottiera macchiata di sugo, le ha sempre ricordato: “cà tra fimmini si parra nà lingua sola”. Lingua che lui si è sempre rifiutato di capire, figuriamoci ora che mi porto addosso uno scheletro al posto del corpo, a furia di smaltire la loro cocciutaggine.

“Alice, tesoro, per l’amor di Dio. Vuoi mangiare?! Così non puoi continuare”, implora mamma, puntandomi una posata contro. A me viene solo da ridere, ma come direbbe l’uomo esausto, seduto a capotavola e senza neanche un filo di capelli in testa: “c’è solo ì chianciri”. Che piangano pure, dovevano pensarci prima. Prima di agghindarmi come un alberello da sfoggiare, di fronte amici e parenti, durante la sera di Natale.

“Non potete fare assolutamente nulla”, rispondo con diabolica soddisfazione, fissando ancora il piatto.

Per tutta risposta papà afferra la forchetta nei cui denti è incastrata una fetta di pollo e con fare minaccioso mi avverte: “Che se un finiscio cù stù tetatrino ci pensa iddu”.

“Giusè, pì cortesia”, interviene sua moglie con un tremito nella voce.

Fuori dalla finestra entra una luce calda, che non ha bisogno di niente, nemmeno di tutte queste schifezze. Penso che c’è e mi basta, che esiste a prescindere dal nutrimento. Ma soprattutto, più di ogni altra cosa, è libera dalla morsa delle costrizioni. Giunge negli spazi più soffocanti della casa, come anche questo, dal cui prendo congedo, quasi senza accorgermene. Lascio intonso il piatto ancora fumante e le posate ben disposte sulla tovaglia bianca.

Tutta questa purezza artificiale non mi appartiene. Così salgo di sopra, nella mia stanza, lasciando per le scale gli insulti che mio padre prima mastica e poi sputa.

Il corrimano di legno mi ha sempre affascinata: riflette le direzioni che prendono le nostre vite. e Mentre ci passo sopra l’indice e il medio, desidero soltanto un abbraccio e niente di più. Le pareti della mia camera da letto sono state l’unica cosa che ho scelto liberamente. Sono color lillà, come anche il piumone del letto e le tendine della finestra, dove la luce si infrange e si riverbera senza sosta. Scosto la sedia della scrivania dove è posato il diario terapeutico. Il logo della clinica campeggia in ogni pagina, ma non riesce a nascondere le parole che ogni giorno fioriscono dalla pelle e dal corpo. Una me la sono perfino scritta sul braccio e dice: “non lasciare che la vita ti divori”.

Da giù sento mia madre sparecchiare la tavola e mio padre accendere il televisore, sconfitto. Chiudo il diario, non ho voglia di scrivere oggi. Così mi piazzo di fronte al mio acerrimo nemico e mi tolgo questa merda bianca che dovrebbe farmi apparire diversa. Lui, lo specchio, mi restituisce una geometria di ossa dove strati di grasso soffocano il mio respiro. Sì, respiro ancora nonostante i miei quaranta chili e sono l’unica arma per tenere a distanza quegli stronzi di sotto.

Respiro ed espiro, come mi hanno insegnato gli esperti. L’anoressia mi avvolge in un abbraccio che mi fa sentire al sicuro e gli ordini degli altri svaniscono senza neanche sfiorarmi. Sto scomparendo: lo sento e lo vedo. Ma dentro la pancia sento afferrarmi da qualcosa che vorrebbe trascinarmi dove non voglio. Devo eliminarlo, ma ci vuole ancora del tempo.

 

Non so quanto mi resta, ma prima o poi diventerò come la luce: pronta a illuminare gli spazi dove, al momento, non posso arrivare.

 

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