Cosa significa essere umani?

di Susanna Mati

 

Guai a quella filosofia che crede di poter procedere ancora astrattamente, prigioniera degli inganni mimetici del suo linguaggio millenario, senza il confronto con le domande – le sue stesse domande – che proprio la scienza contemporanea rilancia con urgenza e riapre in modo abissale; ma guai anche viceversa, guai a quella scienza che “non pensa” (affermò un riprovato Heidegger), che disdegna una forma di discorso che, senza alcun ‘fatto’ a proprio sostegno, ha intuito un intero catalogo di idee e creato nel linguaggio le formule concettuali per esprimerle e, dunque, pensarle. Ciò è stato recentemente rimarcato in modo autorevole (e con una punta di tardivo autopentimento?) da alcuni noti filosofi, ma al contempo un’intera generazione di scienziati (nei suoi casi migliori) lancia sfide sperimentali inquietanti e reclama questa interazione intorno alla stessa cosa: la cosa, propriamente, del pensiero e della conoscenza.

L’esigenza di questo dialogo, di un andirivieni continuo che prevalga sulla vetusta barriera tra scienze dello spirito e scienze della natura, è alla base del libro di cui ci accingiamo a parlare. Anche se forse, su un piano generale, bisognerebbe senz’altro continuare a meditare, preliminarmente, la proposizione 6.52 del Tractatus wittgensteiniano: “Wir fühlen dass selbst, wenn alle möglichen wissenschaftlichen Fragen beantwortet sind, unsere Lebensprobleme noch gar nicht berührt sind”: “Sentiamo [notare il verbo!] che, quand’anche tutte le possibili domande scientifiche ricevessero risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero stati neanche sfiorati”. In ogni caso, è inevitabile che la scienza contemporanea vada a sbattere la testa contro le care millenarie domande filosofiche, alcune delle quali sono più o meno le stesse dei Presocratici o dello Zhuāngzǐ.
In uno dei libri più interessanti usciti nello scorso anno, Cosa significa essere umani? (R. Cortina, 2024), Vittorio Gallese, autorevole neuroscienziato, e Ugo Morelli, importante psicologo e studioso di scienze cognitive, compendiano limpidamente tesi e ragionamenti svolti anche in altre ricerche precedenti. Finalmente qualcuno che osa porsi una domanda ambiziosa!, però, appunto, una domanda, nella sua apertura; domanda che si pone nel particolare momento in cui l’umano tenta di ri-definirsi, differenziandosi dalle altre forme-di-vita e, oggi, anche da quelle che sembrano essere altre tipologie di intelligenza: oltre all’umana, quella degli altri animali, quella delle piante, quella artificiale (la lista non è esaustiva).
La medesima domanda del titolo del nostro libro erompe infatti, ad esempio, in studi sull’intelligenza artificiale, presentata come la “più fondamentale delle domande umanistiche, ‘cosa significa essere umani?’” (N. Cristianini, Machina Sapiens, Il Mulino 2024, p. 140). Nella pagina precedente l’autore aveva citato Turing, il quale, in un’intervista del 1951 alla BBC, affermò: “Sembra probabile che, una volta iniziato il metodo delle macchine pensanti, non ci vorrebbe molto per superare le nostre deboli capacità”. Ma “essere umani” è forse una forma di funzionalismo? Un essere umano è ovviamente diverso da una macchina di Turing, anche da una capace di superare il suo test; si può infatti superarlo senza essere intelligenti, cioè senza comprendere realmente il linguaggio. E se è vero che, al tempo dell’AI generativa e delle reti neurali di deep learning, abbiamo creato una macchina con cui si può apparentemente ‘parlare’, ovvero una macchina che gioca in modo soddisfacente il gioco dell’imitazione, essa pare non saper andare oltre – per adesso – l’imitation game, restando nient’altro che un pappagallo stocastico, cioè un sistema probabilistico privo di intelligenza, un mero manipolatore di simboli, il cui significato ignora. Di fatto, anche senza porre l’obiezione dello hard problem (quello della coscienza), non è possibile che una macchina pensi, se non riducendo gli stati mentali a comportamenti osservabili, il pensiero a un calcolo, il dialogo a prestazioni imitative.
Come hanno notato D. Dennett e altri, le macchine infatti non hanno (per ora) un corpo, e di conseguenza non sono in grado di interagire con il mondo reale: condizione necessaria per la comprensione del linguaggio, per il pensiero e per l’intelligenza; inoltre, non hanno interazioni percettive né motorie; manca l’interconnessione dell’entità con il proprio ambiente. Tradotto in altri termini: può forse darsi intelligenza senza esperienza estetica? La domanda è pertinente e riguarda da vicino i temi affrontati nel libro di Gallese e Morelli.

Soggettività, linguaggio, intelligenza, corpo, mimesi, estetica: cosa ci dice in proposito, dunque, questo libro? Prima di tutto, si spazzano via diversi idoli, che affliggono le discipline specialistiche in cui spiccano con autorevolezza gli autori stessi. Se, infatti, in molti laboratori e nelle conseguenti teorie il fondamento è ancora il soggetto solipsistico, qui ci si muove invece in opposizione al cognitivismo classico, per il quale “l’altro” costituisce da sempre un problema; per comprenderlo si sviluppano “teorie della mente”, che vanno però incontro a una molteplicità di ostacoli nel riconoscere e considerare l’alterità. Se oggi si continua a guardare al cervello come a una magnifica scatola di algoritmi, si reitera questa idea che la mente sia computazione. Il libro di Gallese e Morelli, al contrario, parte dal ribaltamento di queste prospettive; per effettuare il quale può essere d’aiuto la distinzione fenomenologica  Körper/Leib: il primo è il corpo materiale, meccanico, studiato dal neurofisiologo, il cui fine consisterebbe però nel capire in che modo si genera il Leib e il mondo dell’esperienza: poiché la mente non è solo nel cervello, bensì si genera nella relazione con il mondo. Infatti, scrivono gli autori, “siamo noi prima che io”, non siamo in primis unicità, identità e individualità, e tantomeno “un cervello”; senza ovviamente voler mettere in discussione la singolarità di ciascuno di noi, “il primum movens è la relazione”. La relazione esiste già dalla fase prenatale, in utero, e, in seguito, l’io stesso verrà a formarsi come esito di un gioco di relazioni. Insomma, senza l’altro non c’è vita, e l’in-dividuo, che già Nietzsche aveva focalizzato come, viceversa, un dividuum (Umano, troppo umano, I, 57), viene rimodulato in questo libro piuttosto come un “con-dividuo”, delineando quindi un nuovo paradigma bio-culturale. L’intersoggettività è la fonte dell’individuazione e il soggetto è frutto di relazioni: siamo corpo/mente/cervello in relazione, ci dicono gli autori.

Le domande che possono sorgere nella scienza in seguito a questo riconoscimento sono appunto quelle condivise con le discipline umanistiche, invece che quelle di una giostra scientifico-tecnologica autistica, che peraltro promette assai più di quanto possa mantenere. Questo nuovo paradigma che si sta affermando, quello bio-culturale, mira allo scardinamento delle barriere tra scienze dello spirito e scienze della natura, che convergono – con spirito vichiano – a condividere le stesse urgenze; se, infatti, la scienza si caratterizza per il metodo sperimentale, è però fondamentale tornare alle domande originarie che hanno suscitato quegli esperimenti. Il progresso tecnologico e la sua vincente applicazione tecnica, con tutte le sue benedette e maledette innovazioni, rischiano di perdere di vista la domanda: “chi siamo e dove vogliamo andare”. Questa complementarità delle discipline, già intuita da alcune grandi figure della scienza, come von Uexküll con il concetto di Umwelt, lo spazio-della-vita, è ben presente nella tradizione estetico-filosofica, da G. Vico ad Aby Warburg (sui quali torneremo).

In questo quadro teorico, il libro intende dare un’interpretazione più realistica di quel fenomeno che chiamiamo mente, in modo tale che – affermano gli autori – non risulti soltanto la terza persona del verbo mentire. Corpo non mente, si intitola per l’appunto il cap. 7. Per allontanarsi dal dominio presunto della razionalità assoluta, infatti, non è certamente possibile trascurare il corpo; anzi, l’intera esposizione di questo libro è basata sul paradigma corporeo; quel corpo che per l’appunto è stato trascurato dal comportamentismo e soprattutto dal cognitivismo, che lo hanno concepito come nient’altro che un carrello su cui portare in giro una mente. Ma invece “noi siamo corpo, e nient’altro che corpo; e anche anima è una parola per qualcosa che è nel corpo”, sentenziava Nietzsche nello Zarathustra; oltre a concepire l’estetica come fisiologia applicata, a postulare una “grande ragione” del corpo, o a liquidare le inverificabili idiosincrasie metafisiche come “fraintendimenti del corpo”, il grande precursore Nietzsche vedeva anche la psiche come un’“organizzazione sociale di molte anime”.
Ciò ha qualcosa a che fare con i propositi di superamento, esposti in questo libro, dei grandi dualismi occidentali attraverso un paradigma corporeo basato sulla relazione: quella che, con una formula ormai attestata, si definisce embodied cognition, la razionalità incarnata. In questa formula si avverte ancora un’eco lontana del dualismo, tanto che sarebbe meglio, appunto, chiamarlo un “corpo pensante”, poiché, tra l’altro, il cervello è un organo corporeo come gli altri. Gli autori ne sono ben coscienti: la mente, infatti, nella prospettiva delineata, “è una mente incarnata, benché sarebbe più corretto parlare di mente corporea” (p. 190), si dice nel libro; “La verità è che la mente e il corpo sono due livelli di descrizione della medesima realtà” (ivi). Infatti, si afferma, “la psiche è corpo” (p. 76), e la conoscenza stessa è determinata dalle possibilità del corpo (Merleau-Ponty, citato a p. 88). “Psyche ist ausgedehnt – weiss nicht davon”: la psiche è estesa, ma non lo sa – così annotava Freud, alla fine della sua vita.
Connessa all’innegabile centralità del corpo, la caratteristica irrinunciabile del movimento (che distingue noi animali, almeno in parte, dalle piante); affermano gli autori che “l’origine della conoscenza è situata nella nostra capacità di azione e movimento”; di fatto, è il cervello motorio che regola la nostra capacità di apprendere e conoscere (p.12). Di conseguenza, dobbiamo comprendere il cervello motorio e il sistema sensorimotorio per comprendere azione, percezione e cognizione: non saremmo capaci di conoscere né di pensare senza il movimento. Il momento in cui abbiamo deciso di muoverci coincide con il momento in cui abbiamo cominciato a comunicare; il corpo è perciò alla base della conoscenza, una conoscenza incarnata, appunto – poiché solo così possiamo conoscere i fenomeni del mondo, muovendoci.
Tra le enormi tematiche affrontate nel libro, quella del linguaggio, inteso come emergenza evolutiva e come la più sofisticata tecnologia evoluta dalla nostra specie, ma anche come l’insieme delle competenze simboliche che sgorgano dalle potenzialità creatrici intrinseche alla specie umana. Anche se usare un solo fattore per spiegare le distinzioni specie specifiche degli umani può risultare una svista, dato che non sappiamo quasi nulla su come si sia evoluto il linguaggio: come vi siamo pervenuti, specialmente al linguaggio verbale articolato del sapiens? Nel libro lo si fa derivare ancora dal paradigma corporeo, esperienziale, relazionale, tipico del nostro sistema corpo/cervello/mente. Il linguaggio, dunque, come struttura ed emergenza evolutiva di carattere corporeo, appartenente a una comunità di parlanti.
Il paradigma applicato è biologico, ma non riduzionistico, poiché il necessario riduzionismo metodologico non dev’essere necessariamente anche un riduzionismo interpretativo: non è infatti possibile “ridurre la trascendenza delle proprietà emergenti spiegandola totalmente con le proprietà costitutive” (p. 41); esiste un’emergenza della complessità, così come l’apprendimento si spiega in quanto proprietà emergente di entità autonome in relazione (F. Varela, p. 101; si comincia a parlarne anche per l’AI: sarà a lungo una specificità dell’umano?) Comunque sia, anche nella considerazione del linguaggio, ci si muove, in questo libro, contro la semplice mentalità algoritmica: “il cognitivismo classico e gran parte della linguistica cognitiva hanno concepito l’unicità del linguaggio umano e la sua totale alterità rispetto a tutti i sistemi di comunicazione del mondo animale, puntando sulla ricorsività sintattica” di stampo chomskyano, che costituirebbe, secondo queste teorie, la facoltà linguistica in senso stretto. “Tuttavia questa prospettiva, oltre a soffrire dell’usuale solipsismo cognitivista, che mette tra parentesi la natura sociale del linguaggio, si espone a una verifica nel mondo animale” (p. 179); là dove in effetti scopriamo subito che una struttura sintattica similmente ricorsiva viene usata, ad esempio, da alcune specie di uccelli canori…

Cos’è il linguaggio, quindi? Nel libro si rammentano più volte, e giustamente, le sue radici corporee (ad es. p. 13); queste sono ben note a Vico, citato a p. 183 per l’importanza da lui attribuita alla corporeità e alla dimensione sensorimotoria nella produzione linguistica. Giambattista Vico, il padre e fondatore dell’estetica moderna (come riconobbe Croce), cioè dell’estetica in quanto materia, o ambito conoscitivo, o modo di porsi che indaga e percepisce quelle “connessioni tra corpo, immaginazione, finzione e comportamento simbolico” di cui si accenna nel libro a p. 193. Anche non volendo giungere all’ipotesi estremamente romantica di Novalis, secondo cui “la lingua è Delfi”, già in Vico il linguaggio nasce come una metafisica poetica; esso, infatti, “dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata” (Scienza nuova, I, “Metafisica poetica”, I, 1). I primi uomini – racconta Vico – nel loro “erramento ferino” per la gran selva antica della terra, non furono per nulla scaltri e dotti sapienti, bensì “stupidi, insensati ed orribili bestioni”, di debolissimo raziocinio e “tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie” (ivi) – i quali però, proprio in virtù di queste loro caratteristiche, rappresentarono quei poeti-teologi che crearono la prima forma di sapienza, quella poetica. Essa, perciò, nacque “da ignoranza di cagioni, la qual fu loro madre di maraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano” (ivi). Provare angosciosa meraviglia, thauma, “con animo perturbato e commosso” (Scienza nuova, “Princìpi”, LIII) li condusse a creare finzioni di senso grazie ai loro sensi corporei: “per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia, e, perch’era corpolentissima, il facevano con una maravigliosa sublimità, tal e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi che fingendo le si criavano, onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco suona che «criatori»” (Scienza nuova, I, “Metafisica poetica”, 1). Queste finzioni poetiche di senso, che loro stessi “si finsero e si credettero”, fantasticando i loro dèi, li fecero credere alle loro stesse immaginazioni: “fingunt simul creduntque”, in un’originaria coappartenenza tra finzione immaginativa e realtà creativa. Fu questa l’origine del mythos, quella logica poetica o capacità simbolica che si esprimeva creando “universali fantastici” (Scienza nuova, II, “Della logica poetica”, 1) .

Finzioni di senso estetiche, dunque, creazioni simboliche. Ma, a guardar bene, il libro di Gallese e Morelli ci illustra un’intera galassia estetica: come se dalla scienza provenisse un appello rivolto all’estetica (alla filosofia), per un dialogo sempre più intrecciato, a partire dal riconoscimento del suo paradosso fondativo: quello della finzione vera (per tornare, di nuovo, a Vico). Ora, un altro concetto fondativo dell’estetica è quello di mimesis. Siamo corpo-cervello-mente in relazione, si afferma in questo libro; ma siamo anche “sistemi viventi adattativi”, per educare i quali non si dovrebbe soltanto insegnare (tramite un processo unidirezionale di trasmissione del sapere), bensì stabilire una relazione, centrata sull’apprendimento, il cui regolatore dovrebbe essere la dimensione emozionale, affettiva. Siamo, anche sotto questo aspetto, una specie imitativa, nella quale l’imitazione inizia fin dalla fase neonatale: “noi siamo la vera specie mimetica” (p. 34), in cui i meccanismi di rispecchiamento vengono poi modulati da fattori culturali intersoggettivi.

In questo quadro, la scoperta dei neuroni specchio “fornisce il correlato neurofisiologico che permette di descrivere la relazione al livello microscopico dei neuroni” (p. 33). È questa “simulazione incarnata” “che permette di riusare parte dei circuiti cerebrali che sottendono la nostra esperienza del mondo per attribuire esperienze simili all’altro” (p. 159); la simulazione incarnata permette di sentire con l’altro: infatti, gli stessi neuroni che si attivano quando proviamo dolore, si attivano anche quando osserviamo il dolore dell’altro – e se è indubbiamente vero che noi non abbiamo accesso diretto all’esperienza dell’altro, è anche vero che tramite un costitutivo meccanismo di risonanza possiamo “sentire-dentro” con l’altro (einfühlen) tramite la comprensione empatica. Non scompare certamente la distinzione io/altro, non si annulla l’individuazione nell’alterità, ma nonostante ciò siamo comunque esseri comunicanti: possiamo attribuire all’altro esperienze del mondo simili alle nostre, ‘sapere’ cosa sente, avere un accesso parziale alla sua esperienza – una capacità probabilmente antichissima filogeneticamente, forse la più antica modalità di relazione. Empatia non significa dunque essere comprensivi, buoni, altruistici ecc., bensì è la stessa cosa dell’Einfühlen, del sentire-dentro l’altro: essere con-dividui mantenendo l’alterità e la differenza.

Aby Warburg, citato a p. 126, lesse il libro delle emozioni negli animali di Darwin (e altra simile letteratura sul versante estetico e non biologico), e sottolineò la dimensione affettiva, emozionale del comportamento animale e umano attraverso il riconoscimento di tipi detti Pathosformeln, le ormai celeberrime formule di pathos; ovvero quegli schemi gestuali creati nell’antichità classica, in seguito a una forte impressione, poi riutilizzati nel Rinascimento per la loro capacità di restituire l’emotività e il trasporto passionale. Emerge qui con esemplare chiarezza il legame tra empatia ed esperienza estetica, e non solo tramite la nozione ottocentesca di Einfühlung, bensì proprio strutturalmente: poiché dietro ogni pensiero, e ogni immagine, c’è un’emozione – anche qualora quei codici affettivi materni che rappresentano le emozioni (con il loro contorno di accoglienza, vulnerabilità, ascolto, affettività) risultino forclusi culturalmente (così a p. 118).
Le finzioni di senso estetiche coinvolgono vari strati della nostra azione, percezione e cognizione, nelle quali pare che “il confine tra ciò che chiamiamo reale e il mondo immaginario e immaginato sia molto meno netto di quanto si potrebbe pensare” (p. 195). Infatti, proseguono gli autori, “vedere e immaginare di vedere, agire e immaginare di agire, esperire un’emozione e immaginarsela sono processi che si fondano sull’attivazione di circuiti cerebrali in parte identici” (p. 196). Nella finzione, dunque, si rivela la nostra “naturale propensione mimetica”. Sfioriamo qui appena la grande questione della mimesis, ovviamente fondativa di ogni paradigma estetico, sia in senso storico che in senso teoretico. Ma se l’esperienza estetica in senso stretto costituisce uno dei vertici dell’essere umani, in quanto creatori di immagini e narratori di storie, è sul piano simbolico che si manifesta il nostro essere “in eccesso rispetto al piano dell’essere” (p. 211) – è la nostra stessa Sinngebung, la donazione di senso, ad avere modalità estetiche.
L’esperienza estetica, insomma, è cruciale e paradigmatica; e se la parola aisthesis compare solo a p. 217 del libro, là dove si indica una conoscenza tramite l’intuizione sensibile, a p. 228 si nota come “fingo, immaginare, fingere, coincida con poieo, con la nostra capacità creativa”; perciò “fare finta è una pratica di verità che si afferma costruendo una cornice intorno alla finzione” (ivi).
L’esperienza estetica è un elemento caratterizzante dell’umano, anzi uno dei suoi momenti culminanti – un suo “salto quantico”, ci dicono gli autori (p. 199 del libro); il ‘come se’, la simulazione, le capacità mimetiche, la finzione che ci permette di non coincidere mai con noi stessi (una delle sbalorditive capacità dell’umano), o tramite la quale immaginiamo mondi inesistenti. Noi siamo creatori di immagini e narratori di storie, in cui sospendiamo la presa del reale, liberando nuove energie e visioni; per questa ragione l’homo sapiens è un “animale che non coincide mai con se stesso” (pp. 69-70), asimmetrico rispetto a sé, e anche capace di porsi costantemente in una trascendenza finzionale rispetto al ‘reale’.
Dopo aver dunque rilevato e variato alcune delle infinite questioni incapsulate in questo ricchissimo libro, sembra opportuno concludere con le parole della poesia. Il cervello è forse l’oggetto più complesso dell’universo, un oggetto vertiginoso: “moltiplicando i miliardi di neuroni che compongono il nostro cervello per le migliaia di contatti sinaptici che ognuno di essi intrattiene, si ottengono numeri pari a quelli delle stelle della nostra galassia” (p. 39); forse sarà tramite l’azione di quest’organo magico che l’essere umano riuscirà a trascendere anche le proprie propensioni distruttive e autodistruttive, poiché “the Brain – is wider than the Sky -“, “il Cervello – è più ampio del Cielo -” (Emily Dickinson, nella traduzione di Amelia Rosselli).

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