Intervista a Giorgio Ghiotti autore di “Casa che eri”

Di Muriel Pavoni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Casa che eri è un romanzo che delinea una generazione di quarantenni immaturi e bloccati. Aldo Lanari e i suoi amici sono oppressi dal peso di dover diventare adulti, faticano ad abbandonare il nido – o meglio la gabbia – e coltivano il desiderio di restare fossilizzati in un’eterna giovinezza.
Si sgombri il campo, non si tratta di un romanzo a tesi, piuttosto questo spaccato emerge con disinvoltura, non con l’oggettività dell’istantanea o dell’indagine sociale, bensì con la forza e la profondità della poesia che dà voce ai silenzi e ai tanti rancori.
La trama è piuttosto ellittica, tante sono le omissioni, i non detti, i buchi, gli accadimenti che restano fuori fuoco; proprio come quando, nella vita, capita di perdere pezzi, non capire, precipitare, non contare il tempo.
Aldo Lanari, la voce narrante, è un quarantenne che vorrebbe lasciare il lavoro di redattore per scrivere soltanto romanzi, per i quali in passato ha riscosso un certo successo, ma che non gli avrebbero consentito di campare. Ha fatto il primo passo di adulto acquistando casa a Trastevere. Ha un rapporto simbiotico con Luisa. I due si sono conosciuti a trent’anni sulla spiaggia di Rimini. La loro amicizia è una sorta di relazione di coppia, tanto che in un primo momento si può fraintendere un legame sentimentale e non amicale. In questa sorta di idillio s’insinua l’imponderabile, l’ospite inatteso, nella figura di Alessio Patriarca, che è quasi una proiezione, una presenza demoniaca. Per buona parte della narrazione questo personaggio resta una presenza remota, un pericolo che insidia l’equilibrio perfetto di Aldo e Luisa, ma quando apparirà sarà molto meno minaccioso e molto più mediocre di qualsiasi proiezione.
Il fulcro attorno al quale muovono i fatti è un rapporto a due scombussolato dall’inserimento di un terzo elemento che ne determina la deflagrazione, non tanto per l’impatto inevitabile, quanto per l’incapacità dei personaggi di evolvere, di adeguarsi ai cambiamenti, di compiere riti di passaggio e trasformazione. Quella di cui si parla è un’amicizia infantile, di quelle esclusive e falsamente indissolubili che sembrano solide e invece crollano al primo alito di vento, sorde e insensate tanto tramontare in un dramma futile come quello dell’episodio della festa di compleanno di Aldo, che prende la parte centrale del romanzo e ne è il punto di svolta. La più grande paura di Aldo (e di tutti quanti), è quella dell’abbandono, che fino al punto in cui esplode è malcelata dietro una sorta di distacco ironico, ma quando deflagra svela la sua insensatezza. Resta il rancore, la gelosia e l’impossibilità di ricostruirsi. Solo i bambini credono ai “per sempre”, gli adulti sanno che possono esistere molti inizi, molti modi diversi di ripensarsi, ma Aldo non è un adulto. Assieme alla voce narrante tutti gli altri personaggi sono inquadrati nell’arco temporale che va dal periodo dell’università fino al presente, che li vede quarantenni alle prese con un tardivo rito di passaggio, col tormento di essere figli ma dover essere adulti. Michael ha studiato all’accademia e costruisce gabbie vuote che dovrebbero essere opere d’arte, ma questa ambizione viene sempre taciuta, trova anche degli acquirenti talvolta, Vittorio è il suo compagno adorante. Caterina ha studiato al conservatorio, ma quando smette di cantare nessuno è stupito, ha una figlia, il cui padre resta ignoto al lettore, che vive con molta apprensione.
Nessuno si consce se non in relazione all’altro, perciò quando questo si ritrae si resta smarriti e incapaci di reagire, in una condizione che non è desiderabile ma solamente familiare.

La figura di Alessio Patriarca viene evocata per buona parte del romanzo fino a prendere forma. Come lettrice, pure io, per diverse pagine l’ho temuto… poi mi ha fatto tenerezza. Che cosa rappresenta questo personaggio?

Alessio Patriarca rappresenta per i protagonisti del romanzo, soprattutto per Aldo e Luisa, quello che Wittgenstein chiama l’Ospite: “aspetti l’atteso, ma è l’Ospite che arriva”. È la cellula impazzita all’interno di un organismo in equilibrio, l’amicizia tra i due protagonisti. Ma è soprattutto l’imprevisto che irrompe nelle loro vite, e, irrompendo, svela a ognuno la nudità dell’esistenza, così fragile, così difficile da indirizzare su percorsi obbligati.

E così Aldo prima odia Alessio poi lo compatisce, quasi come se spostarsi finalmente significasse inquadrare diversamente le cose, ma quanto è difficile farlo?

La difficoltà non sta nell’inquadrare diversamente le cose – anzi, può persino essere un sollievo –, ma nello scendere a patti con la possibilità del fallimento. Che non è poi gran cosa; è un continuo ricalibrare, riprendere le misure, calcolare le distanze tra le nostre terre promesse e il punto in cui ci troviamo. Non è difficile, perché è la vita stessa che cambiando ci impone una nuova regìa, però può certamente essere doloroso – c’è, a questo proposito, una bellissima poesia breve di Vivian Lamarque, la trascrivo qui: “Quest’operazione / che la costringete sempre a fare / «ridimensionare» / non è come stringere un vestito / non è indolore / si taglia la pelle del cuore.”

Il problema è la solitudine e come arginarla. Ogni personaggio cerca di parare i colpi della solitudine. Ma il problema è anche l’inadeguatezza. Quale delle due cose pesa di più?

Non si può dire. Esistono talmente tanti motivi per i quali potersi sentire inadeguati. E almeno due tipi di solitudini: quella che cerchi, una solitudine necessaria, che serve per esempio alla scrittura per nascere, e quella che non è il caso di avere, e arriva inaspettata come una violenza. Nella controra, soprattutto, diceva Amelia Rosselli. Quando arriva, ti fa sentire che è la vita stessa a essere inadeguata, derubata di un senso. Non sempre si trovano antidoti abbastanza forti da contrastare quel vuoto.


Le case e le loro descrizioni hanno un peso specifico importante: la casa acquistata, la casa di Alessio Patriarca, quella di Patrizia, le case dei tempi dell’università, la casa intesa come famiglia (amici), la casa dei colombi… e la casa a cui è dedicato il titolo, cosa volevi sottolineare?

Io non amo le case museo, vissute intendo come un museo già mentre le si abita. Per me la casa è lo spazio del transito, una voliera dalle porte spalancate. Accoglie il volo, ma solo a patto che la si attraversi senza finire prostrati in uno stato di cattività. Le case dovrebbero essere porti di mare, come in certi film di Ozpetek. E poi, le case hanno dei sentimenti. Hanno il sentimento che prestiamo loro ogni giorno, muovendoci tra le stanze. La stessa è, per Aldo, una casa, l’immagine più gioiosa dell’abitare, e quando tradirà la ragazza incendiata di passione ardente sulla spiaggia di Rimini con la versione più banale di sé, anche le mura della casa di Aldo inizieranno a suggerire una natura minacciosa, avvilente. Intitolai un mio libro di poesie di alcuni anni fa La città che ti abita. Ecco, credo che Casa che eri faccia il paio con quel titolo, e confermi la mia idea degli spazi narranti; in barba a qualunque grammatica, ‘abitare’ è un verbo sentimentale e, come tutti i sentimenti, anche transitivo (o così mi piace pensare).

Questo è un romanzo felicemente novecentesco, che presenta una situazione contemporanea vista attraverso una lente del passato, come a ribadire che in fondo certe inquietudini permangono. C’è pure un omaggio finale a scrittrici e scrittori la cui opera è principalmente collocata nel secolo scorso, come è entrata questa scrittura nel romanzo?

Quando ho iniziato a lavorare a Casa che eri avevo in mente di scrivere un romanzo breve un po’ novecentesco. Venendo dalla poesia, la forma breve (il racconto, il romanzo breve) l’ho sempre sentita più consona alla mia scrittura. Anche da lettore, amo follemente la precisione linguistica, il precipitato di vite articolato in un numero di pagine ridotto, in grado di essere letto quasi tutto d’un fiato. Posso fare degli esempi: “La suora giovane” di Arpino, “Gli occhiali d’oro” di Bassani, “Prima e dopo” di De Cespedes, “Valentino” di Ginzburg, “L’ospite” di Romano e così via… Ambizioni spavalde, forse troppo grandi, ma ho rincorso l’idea di una esattezza della letteratura (stilistica, formale) che, mi sembra, il novecento ha percorso in maniera formidabile. Poi, nella scrittura e in certe soluzioni formali – alcuni attacchi di capitoli, immagini sparse qua e là tra le pagine, qualche frase persino – mi sono venuti in soccorso i libri di scrittori d’oggi che ho molto amato, e che cito in una nota finale. Senza addentrarmi eccessivamente nelle motivazioni che mi hanno fatto tenere cari alcuni romanzi al posto di altri, dico in breve che di “Il primo cielo” di Mario Fortunato amo il giustapporsi delle immagini e delle scene che, con tocco quasi impressionistico, mandano avanti la lettura; de “La grande sera” di Pontiggia l’incredibile capacità di sorvegliare lo stile, e di creare frasi perfette, ingranaggi di senso incredibili; di “Dolorose considerazioni del cuore” di Sandra Petrignani amo il tono confessionale che si rovescia, con sorpresa, in una trama dentro la quale cadono felicemente tutti i personaggi (una storia, per così dire, intima e collettiva insieme); di “L’estate di Le Touquet” di Rosetta Loy ammiro come sempre la lieve densità dello stile, e poi amo il lavoro della protagonista (la restauratrice), che ha definito anche il profilo della mia Luisa; leggere “Ammazzare il tempo” di Lidia Ravera è una lezione di intelligenza e di ritmo; e dell'”Ultima estate” in città di Gianfranco Calligarich ho amato tutto, tutto, tutto. Via dei Glicini è il mio omaggio a quel romanzo straordinario, un concentrato di giovinezza, frustrazione, nostalgia e futuro. A questi scrittori vorrei dire grazie.

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