
19 Mar Pietro Piraino e il gruppo scultoreo di Casteldaccia
di Giuseppe Canale
Il recente restauro di due gruppi scultorei dell’artista Pietro Piraino avvenuto a Casteldaccia, all’interno della “chiesetta” dedicata a Maria SS. del Rosario, mi pone davanti, ancora una volta, in un contesto assente-in-memoria, la possibilità di portare fuori dalla polvere accumulata nel tempo questa figura, una delle poche fra l’altro, di cui lo stesso paese dovrebbe (e utilizzo il dovrebbe non a caso) quantomeno provare a ricordarsene.
Prima di arrivare ai (s)oggetti restaurati credo sia opportuno contestualizzare il soggetto creatore e, cioè, lo stesso Piraino. Provo a sintetizzarne, pur avvertendone il senso di responsabilità, oltre che di limitatezza, i tratti biografici più rilevanti e significativi.
Pietro Piraino nasce a Casteldaccia, nel Palermitano, il 2 maggio del 1882 da Giuseppe Piraino Bucalo e Maria Tomasello. Fin dalla sua giovinezza si concede la libertà di ritrarre col carbone, sulle pareti imbiancate a calce, santi, guerrieri e forme di quanti si trovavano a passare davanti al (suo) luogo di lavoro, il Molino Pastificio Piraino-Bucalo fondato proprio dal padre. Cresciuto lavorando, sviluppò un carattere deciso che, in momenti difficili come quelli che vivrà in futuro, gli permise di non arrendersi e perseguire ciò per cui era predestinato: l’arte.
Nel 1894, a soli sedici anni, nonostante il rapporto particolare con lo studio, entra di buon diritto all’Accademia di belle arti di Palermo dove, sotto la guida di Vincenzo Ragusa (1841-1927), si confermerà fino al 1899 perfezionandosi nel disegno e nell’arte plastica; pratiche, entrambe, il cui Piraino si rivelava straordinariamente versatile. Fondamentale anche la figura del maestro Benedetto Civilletti (1845-1899) che lo portò a maturare un’arte e un modo di rappresentare che, pur fondandosi sui riferimenti classici, greci e latini, lo spinse verso quei caratteri veristi a cui lo stesso Civilletti, anche se non in maniera integrale, aderisce e condivide.
Subito dopo aver conseguito il diploma, con l’entusiasmo dei suoi ventuno anni – e consapevole delle proprie capacità – decide di trasferirsi a Roma. Qui inizia subito a frequentare l’Accademia libera di belle arti di via San Giuseppe con il desiderio e l’ambizione, divenuto presto realtà, di introdursi nell’ambiente artistico romano.
Ed è proprio grazie all’aggiudicazione di due opere, infatti, rispettivamente il busto del patriota e colonnello garibaldino Giacinto Bruzzesi (1822-1900) e quello del sacerdote e astronomo Ignazio Calandrelli (1792-1866), che entrerà ufficialmente a far parte del circolo artistico romano.
Qualche anno dopo si trasferirà in via Sardegna dove, per ragioni economiche, e nonostante il successo, sarà “costretto” a condividere gli spazi con una famiglia che si rivelerà ispiratrice di alcune opere future, cui vale la pena ricordarne una in particolare, dal titolo Amorevole aiuto, premiata nel 1906 al Salon di Parigi.
Nel 1909, alla mostra internazionale donatelliana di Napoli, partecipando con un busto in marmo dal titolo Santuzza, conseguirà il diploma di medaglia d’oro di primo grado. Un importante riconoscimento per lo stile e i tratti scultorei di impronta casanovista straordinariamente distintivi.
Nel 1914 troverà riparo nella celebrata via Margutta, conosciuta anche come la “cittadella degli artisti”, dove vi rimarrà per un lungo periodo. Qui continuerà a creare, vedendosi protagonista in uno scambio dialettico, oltre che artistico, con diverse altre personalità italiane e non presenti in zona.
Dal 1904 al 1914, avendo vinto diversi concorsi pubblici nazionali e internazionali, si confermerà ulteriormente nel campo della scultura monumentale, religiosa-funeraria e commemorativa.
Un riconoscimento singolare che non posso certamente non citare è quello che lo vedrà, nel 1916, entrare a far parte dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon di Roma. Un pregio che gli permise di farsi conoscere ancor di più all’estero, nel mondo, perfino in America del Sud!
La sua abilità espressiva, d’altronde, che scaturiva dalla naturale e personale predisposizione al disegno, dava alle sue raffigurazioni una forza e una somiglianza effettiva – quasi sempre d’impronta verista – rispetto ai modelli a cui si ispirava. Ciò lo renderà apprezzato e apprezzabile anche da chi nel campo artistico non nutriva particolari abilità di “riconoscimento” o lettura stilisticamente intesa.
Le vicende esistenziali dello scultore, dopo il 1935, nonostante alcuni eventi significativi, non offrono particolari variazioni da essere segnalate se non rispetto alla sua vita sociale che, in apparenza senza scosse, si dilatava – eccessivamente agitata – verso conquiste che assorbivano tutti i mezzi disponibili. Era il periodo prossimo alla Seconda guerra mondiale e la difficoltà oggettiva con cui lo stesso uomo-artista “doveva fare i conti” si fece evidente nel suo stato d’animo che lo chiuse, forse giustamente, in un periodo di profonda angoscia e malinconia.
È nel 1945 che, grazie al “libera tutti”, concretizzatosi tale anche grazie all’armistizio dell’8 settembre del ‘43, poté finalmente fare ritorno al suo paese natìo. Qui, immerso totalmente nella vita familiare, continuerà a realizzare diverse opere, tra cui, le oggi restaurate sculture dedicate alla Madonna del Rosario e alla Crocifissione.
Era infatti il 1947 quando don Rocco Russo, arciprete allora in carica, gli affida la realizzazione di due opere destinate alla parrocchia. Così scrive:
«[…] gli davo la commissione, colla collaborazione fattiva del comitato del Crocifisso, di eseguire il gruppo statuario della Madonna del Rosario e quello del «Calvario» intorno all’esistente antico Crocifisso, che si ammirano oggi nella Chiesetta del Rosario da me allora officiata» (R. Russo, Casteldaccia nella storia della Sicilia, Edizioni Arti Grafiche «Battaglia», Palermo 1961, p. 283).
Questa è una delle poche fonti scritte che allo stato attuale possediamo per poter quantomeno affermare quel contesto di senso rispetto all’esistere delle sculture stesse e, cioè, del perché ci sono. Una fonte utile questa, ma certamente non esclusiva e fondamentale, che ci fa comprendere però quanto – oltre ad una personale adesione spirituale del Piraino, il quale contributo diventa espressione di una sua definitiva conversione – ci sia (stato) il concretizzarsi di una necessità, evidentemente comunitaria, di realizzare opere che si ponessero in continuità con la pratica popolare propria di Casteldaccia che, fin dalla fondazione della parrocchia, si manifestava principalmente, ma non solo, nei confronti della Madonna del Rosario e del Cristo Crocifisso.
Il Piraino, per concludere cronologicamente la breve biografia, morirà improvvisamente a Roma, dopo una serata trascorsa al cinema con i suoi amati nipoti, la sera del 30 settembre 1950. La sua tomba è custodita, così come quella di molti altri personaggi illustri che hanno contribuito positivamente alla storia e alla cultura in generale, al Verano, Cimitero Monumentale in zona Tiburtino.
2In particolar modo, in merito ai due gruppi scultorei, desidero esprimere alcune considerazioni di significato:
La Madonna del Rosario, costituita principalmente da tre elementi in gesso, si presenta come un’opera separata ma non separabile che riflette l’immagine tipica della Madonna di Pompei a cui lo stesso Piraino si ispira per realizzarla. Troviamo, infatti, oltre alla Madre col bambino Gesù, posta naturalmente al centro, i due santi domenicani Domenico di Guzmán e Caterina da Siena che si pongono ai lati della Madonna e speculari osservano il centro. Un centro fisico, spaziale, che si fa, proprio per la presenza stessa di Gesù, un centro teologico o quasi, potremmo dire, escatologico, di rivelazione. Tristemente “ripulita” negli anni – con pennellate nevrotiche di ducatone bianco – vive oggi, grazie anche al restauro, di una sua semplicità di tratti disarmante che pone l’occhio di chi osserva in una condizione di schiettezza rispetto all’opera in sé. Un’immagine classica, quella della Madonna del Rosario, che riflette la cifra fondativa, ormai andata perduta, dell’esperienza di fede, oserei definirla primitiva, propria di Casteldaccia.
La Crocifissione – alla cui base, proprio al limite del terreno su cui poggiano i diversi personaggi, troviamo scritta la destinazione dell’opera stessa, ovvero, la Congregazione del Crocifisso cui presidente era allora un certo Ribaudo Bartolo – è invece costituita da diversi elementi in gesso policromo che partecipano, quasi a condividerne il dolore, ad uno degli eventi della storia del Cristianesimo per eccellenza. Una crocifissione non solitaria che pone lo stesso soggetto Crocifisso – che è tra l’altro quasi coevo alla costruzione della “chiesetta” (1600 ca.) e non quindi realizzato personalmente dal Piraino – in relazione agli altri soggetti presenti. Una composizione plastica particolare rispetto all’opera precedente che, in uno spazio ridotto, riesce a sprofondare e uscire fuori allo stesso tempo creando quella armonia contestuale che permette agli stessi personaggi di comunicare non solo fra loro con il Cristo che sta soffrendo ma, fra loro – il Cristo, che rimane comunque nucleo essenziale – e chi osserva. Un invito, dunque, a chi guarda dall’esterno passivamente, a farsi carico della stessa passio Christi. Un’opera, questa, che nonostante la drammaticità dell’evento che gli è propria, cerca comunque di porre/ porsi una intenzione forse educativa, e certamente pro-positiva, che guardi a quel tempo opportuno – al kairós diremmo – a cui tutti noi siamo chiamati a partecipare, scorgendo in esso quella relazione di amore profonda che intercorre tra noi e il Dio creatore che si rivela persino nel momento martiriale della Croce. Certo è, infine, che il Piraino non può e non deve essere definito, proprio in questa direzione ermeneutica, come artista dia/bolicus, che crea ed esprime “separazione” ma, inversamente, credo sia necessario coglierlo nel suo essere sym/bolicus. Il suo fare e far-si arte, infatti, “riunisce” in forma sincronica il contesto della sua cultura in senso pieno, che si relaziona con la semplicità dell’esperire di fede, all’opera e all’esperienza di vita stessa che lo ispira e conduce.
Ed è in questo orizzonte interpretativo, che è il mio, che il restauro – così come afferma uno dei più autorevoli storici dell’arte del Novecento, nonché specialista nella teoria di restauro, Cesare Brandi – «costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro» (A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, Electa, Milano 1988). Con questa affermazione il Brandi intende infatti necessario, non solo un’adeguata e preliminare indagine critica, filologica e scientifica in grado di fornire la documentazione necessaria per non alterare il valore estetico e storico dell’opera d’arte ma, persino, la questione della sua comunicabilità e, aggiungo, del suo farsi concretamente oggetto significativo e significante da trasmettere alle generazioni future. In altre parole – che è poi una delle questioni (urgenti, tra l’altro) che mi sono posto prima di scrivere questo testo – è necessario oltre al recupero autentico dell’opera, che rimane pur sempre un recupero conservativo, è fondamentale chiedersi come questo recupero si possa sviluppare, evolvere, in un recupero “totale”, ben fatto, non solo dell’opera in sé, fondamentale certamente, ma anche della storia del soggetto produttore di arte quale è stato Pietro Piraino.
Grazie a Francesca Tomasello e Raffaello Piraino, entrambi nipoti dello scultore, perché senza il loro esserci non avrei avuto la possibilità di conoscere alcuni particolari che, spero prossimamente, prendano forma ulteriore. Grazie a Giusi Manzella per le fotografie pre-restauro e a Giada Clemente per la fotografia del Crocifisso già restaurato.
Abbate Caterina
Posted at 15:58h, 22 MarzoUn nome eccellente che si aggiunge agli illustri Uomini che hanno popolato la terra dei miei avi.
Grazie