La ragazza che incontrò se stessa

di Maria Antonietta Montella

 

Bisogna amarsi molto

per suicidarsi

– A. Camus

 

I

Quando Gioia si tuffò dalla rupe di Tropea, la sua seconda scelta: avendo studi classici alle spalle avrebbe preferito la rupe Tarpea, era il momento del raggio verde sull’orizzonte.

Ecchediamine, almeno una volta nella vita doveva vederlo. E rimanerne delusa. La sottile striatura luminosa e verdina dopo l’incendio del tramonto si era richiusa in un lampo. L’aveva vista veramente o l’aveva voluta vedere? Tutto lì? La gente magnifica cose che si rivelano deludenti. Almeno così la vedeva in base alla propria esperienza. La delusione era una costante nella sua vita. Avrebbe posto fine anche a lei.

Quella rupe tufacea era la più adatta e la più a portata di mano, o meglio di barca dove si trovava fino a quella mattina. La barca era di amici che l’avevano convinta con prepotenza a lasciare l’allevamento di basengji, l’unica sua compagnia da tre anni, da quando aveva lasciato l’uomo che le aveva fatto conoscere tutti i vantaggi della vita da ricchi. Quei cani antichi, i più antichi del mondo, le somigliavano. Per questo lui le aveva regalato il primo. Erano muti, sottili, dolci e per lo più color biscotto come lei. Come lei erano di razza pura, intelligente indipendente, riservata e primitiva. Come lei erano silenziosi e attenti alla pulizia corporale. Quasi maniaci. Lui al pulito avrebbe preferito un profumo intenso di giovane donna. Come lei andavano in calore raramente, non più di una volta l’anno. Ultimamente lei neppure quello, il non velato rimprovero.

A quel tempo non amava i cani e gli animali in genere, troppo presa da avvenimenti che la vedevano protagonista. Ma le caratteristiche di quel cucciolo, soprattutto gli occhi sottolineati da una linea spessa di kajal sotto l’increspatura tenera e perplessa della fronte, ben presto l’avevano conquistata tanto da diventare la borsa in più di uso quotidiano.

Lui, l’uomo che sapeva tutto, le aveva raccontato che i basenji, una volta addestrati, venivano usati dai pigmei africani per la caccia perché veloci e affidabili, ma il loro profilo era già stato impresso sui graffiti egizi. Quella coda arricciata che non si srotola mai era un segno grafico tangibile. Gli aveva risposto che avrebbe preferito cercare da sé quelle notizie in Internet. Ormai sopportava malamente qualsiasi atteggiamento estraneo di superiorità. Aveva deciso di essere lei l’unico essere superiore da ascoltare.

Con sorpresa il suo cucciolo muto già poche ore dopo il suo arrivo aveva interrotto il proprio silenzio con delicati suoni musicali che ricordavano i gorgheggi tirolesi. Il piccolo cane canterino ben presto le aveva insegnato a decodificarli. Come fa il neonato con la madre. Quando dopo un anno e mezzo erano nati i primi cuccioli non se l’era sentita di darli via, e adesso ne aveva sette, tutti splendidi esemplari da concorso, richiesti ma mai esposti. Per gelosia? No. Per rispetto. Erano ormai i suoi compagni di vita e la scusa per negarsi agli amici: non poteva abbandonarli perché al suo ritorno, testardi e cocciuti com’erano, gliel’avrebbero fatta pagare. Così un altro anno era passato in solitudine. Ma alla fine dell’estate tre amici del vecchio giro avevano minacciato di rapirla: dai, una settimana di vacanza ci sta, se non altro per vedere se sei ancora in grado di relazionarti con umani.

No, non era più in grado aveva risposto e si era lasciata rapire proprio per dimostrarlo. Non aveva più niente da dire, da desiderare, da progettare o semplicemente da sognare. Come i suoi cani era rimasta muta, sorridendo con dolcezza e tenendo un libro fra le mani a proteggersi, uno due tre, quattro giorni. La mattina del quinto, approdati a Tropea, la perla della costa degli dei, aveva parlato: non mi va di fare un giro per il porto, lasciatemi sgranchire le gambe, starò via per qualche ora, vado al Santuario là sopra, mi hanno detto che c’è un panorama indimenticabile. Non preoccupatevi per me, oggi non mangio. Guarda di tornare presto così andiamo a fare il bagno al Murenario, vedrai, ti piacerà nuotare tra le vasche naturali, sono piene di pesci d’ogni specie. D’accordo, al più tardi vi raggiungo prima del tramonto.

Li aveva raggiunti planando di testa sullo scoglio poco distante dalla loro barca mentre il mare le veniva addosso.

 

II

Si era allontanata quasi subito dal centro storico dove i suoi amici avrebbero acquistato paccottiglia colorata, destinata a finire dimenticata in fondo a cassetti mai più aperti, pregustando l’attesa sosta in qualche caratteristico ristorantino.

C’era davvero andata al santuario. La bigliettaia l’aveva informata che la visita era gratis ma non i giardini posteriori; se voleva visitarli, due euro. Aveva pagato anche se non sapeva cosa avrebbe fatto, e affrontato lentamente, uno per uno, i trecentosessanta gradini scavati nella roccia. Una strada in salita come era stata la sua vita. Certo non di sofferenze e sacrifici, ma di rospi da ingoiare che rimanevano vivi dentro di lei a rosicchiarla tutta. Cosa pretendi? Smettila di compiangerti, hai avuto, hai una bella vita. In fondo hai fatto quello che volevi, l’hai scelto tu. Ricordatelo.

Durante la scalata aveva cercato viottoli laterali per rimanere ancora più sola, lontano dai rari turisti coraggiosi che scorgeva davanti a sé e da quelli che la superavano con energia. Faceva due passi fuori della scalinata alla ricerca di qualcosa di selvaggio su cui soffermarsi, ma poi rientrava. Non le importava dei graffi sulle lunghe gambe nude, correva il rischio di slogarsi una caviglia per respirare un cespuglio di mirto: non era il caso di complicare la vacanza ai suoi amici.

Arrivata in cima, si era diretta al bel giardino alberato profumato di fichi d’india e agavi che lanciavano al cielo l’alto omaggio del loro fiore fatale. Un sopralluogo prima di vedere la chiesetta bizantina, pulita, profumata e solida come la roccia che la sosteneva. Nel Medioevo la solidità era fondamentale. Solidità e silenzio. Chissà com’era il silenzio di allora, l’avrebbe voluto provare. Perché non aveva lasciato tutto per ritirarsi in un convento? In effetti in momenti di troppo pieno un pensierino ce l’aveva fatto, ma non aveva mai avuto né volontà né occasione.

Tornata al giardino, lontana dalle rare panchine per non doverle condividere, aveva perlustrato l’affaccio panoramico e trovato una piccola roccia piatta su cui sedersi per guardare il mare. Sembrava sorriderle. Era vivo, sereno e felice, quel giorno. L’aveva visto anche schiumare di rabbia e diventare pericoloso. Buon per lui. Non aveva bisogno di fingere per avere rispetto.

Una coppia si stava baciando su una panchina lontana, era dietro a un dosso, pensava di non essere vista.

Perché Lui non l’aveva mai portata lì? Eppure era un posto romantico, gli si confaceva. Romantico per impegno. Così era riuscito a incantarla. O incastrarla? Lei era l’opposto: mai stata romantica, sognatrice sì, ma delle cose grandiose, attese e ormai in ritardo. Un’attesa delusa che l’aveva distratta dalla propria realizzazione. Ventinove anni passati ad attendere il riconoscimento della propria unicità quando era la prima a non esserne convinta. Per questo, aveva lasciato la famiglia chiassosa e sanguigna il giorno del suo diciottesimo. Del resto non l’avevano mai considerata granché. Non era unica per loro, solo una parte del problema. Non avevano niente da offrirle, tranne un parente, cugino della madre che le aveva lasciato un bilocale e una specie di borsa di studio per l’università. Non l’aveva finita  per seguire Lui che le avrebbe insegnato più di ogni professore. Bella roba. Tranne che a spendere e a distinguere le persone per ceto e censo non aveva imparato granché. E quel granché si basava sulla capacità di spendere soldi altrui. Che vita inconcludente. Almeno avesse fatto del suo allevamento un impegno organizzato, aziendale. Non ne era stata capace. Ecco, si poteva definire con certezza: incapace.

Fissava il mare, la differenza di colore con il cielo, segnato dalla demarcazione dell’orizzonte. L’azzurro è un gran colore, il preferito, valorizza l’incarnato ed è evanescente: pian piano si scolora. Come lei.

Una luce calma, quieta, magica prendeva il posto dell’azzurro. Finalmente la mente, sgombra di pensieri, si affacciava sul niente. Non era mai successo. Niente per i suoi basengj, niente per gli ultimi amici, niente da dimostrare.

Quanto tempo era passato? Il mare si stava infuocando di fronte al saluto del sole. Vuoi vedere che questa volta vedo quel benedetto raggio?

Bah.

Si alza. Respira la grandiosità davanti. Il minuto più lungo della vita. Espira.

Torna indietro di parecchi metri. Si volta e con uno scatto inizia la corsa.

Prima di spiccare il salto per evitare le rocce vicine l’ultimo pensiero:

sono capace.

                                                                                                                                            III

Chi se lo sarebbe immaginato? Che disgrazia, povera.

Colpa nostra, l’abbiamo costretta a venire.

E lasciata sola per l’escursione. Ve l’avevo detto di non farlo.

Ma così ha voluto lei, lo sai quanto è testarda.

Testarda e matta.

Sì, insultiamola dai, tu poi che le hai sempre sbavato dietro.

Con me non si sarebbe tirata di sotto.

No, si sarebbe impiccata dopo una settimana,  non dire cazzate.

Dopo il mutismo di questi giorni dovevamo preoccuparci e  non far finta di niente.

Povera, perché, perché?

Chissà la madre, l’avranno già avvisata?

Perché era una fallita, dai, almeno tra noi non ce la raccontiamo.

Con la madre non aveva rapporti, e chissà se quella poveraccia se la sentirà a  venire.

Ma fallire non è la fine del mondo.

Per qualcuna sì, evidentemente.

Non è possibile, non era il tipo da suicidio, non è che si è fatta prima?

Macché, i problemi avuti in passato erano superati.

Si dice sempre così.

Comunque in barca non ho mai visto nulla di sospetto, se si faceva, in quattro giorni sarebbe venuto fuori.

Ma dai, non ha accettato neppure uno spinello dei miei.

Io l’accetto volentieri, sono sconvolto.

Mi chiedo cosa le sia passata per la mente.

Io mi auguro invece che sia stata felice almeno per un momento, deve essere così, perché suicidarsi altrimenti?

Perché ti fai notare da tutti e tutti parlano di te: è quello che vuoi, quindi sei felice, no?

Sempre la solita stronza, ti prego evita.

Beh, però non ha mica tutti i torti: se il suicidio è il culmine dell’infelicità di cui ti vuoi sbarazzare, allora in quegli istanti… Basta così siete dei deficienti tutti e due, piuttosto dobbiamo parlare con la madre e dirle che pensiamo noi a tutto, anche a riportargliela.

Che bella vacanza, ce la ricorderemo.

Ma un briciolo d’umanità ce l’avete? Cercatelo, tiratelo fuori, io non riesco a non piangere, penso a quanto doveva essere disperata.

Maledetto il giorno in cui l’abbiamo rapita ai suoi basengj.

Già, i basengj, non amava neppure loro.

Secondo voi avrebbe rinunciato al suo gesto per evitarci tutto questo se lo avesse immaginato?

Conoscendola, no.

Vero. È sempre andata dritta per la sua strada anche quando era tutta storta.

Agli amici Gioia aveva complicato la vacanza e lasciato un sacco di grattacapi. Prima di partire con il suo corpo in un’anfora, dovevano rispondere agli interrogatori e firmare un sacco di carte; tutte le incombenze burocratiche andavano assolte. Il dolore era intriso di rancore per l’egoismo dell’amica.

Un volo di quaranta metri. I primi a soccorrere i resti che Gioia aveva lasciato sulle rocce erano stati i carabinieri, la polizia e il medico legale avvisati da un turista che per caso aveva ripreso la scena del volo a braccia aperte.

Quando gli amici hanno detto che per loro era un incidente, un piede in fallo, Gioia aveva le caviglie deboli, gli uomini dello Stato hanno sorriso compassionevoli. Del resto non aveva lasciato un messaggio, i suicidi lo fanno. Certo, hanno risposto, potrebbe, anche se il filmato dice il contrario, c’era volontà in quella caduta.

A parte una notiziola sul notiziario locale, sul fatto silenzio assoluto. Non faceva bene a nessuno dare risalto alla cosa. Dall’autopsia era uscita innocente: niente droga nelle sue vene.

IV

A nove anni era pronta a sposarsi col garzone del verduraio.

Si sentiva donna a tutti gli effetti, chissà perché: fino a qualche giorno prima giocava a indiani e cowboy con soli maschi portando un cinturone con le pistole. Le piaceva di più di indossare una penna di gallina legata alla testa e un arco ricavato da rami secchi e spago. Ma andando a chiedere un ciuffo di prezzemolo, a quei tempi gratis, l’aveva visto uscire dal piccolo negozio affacciato sul fosso con in braccio una cassetta di patate come fosse un mazzo di rose. E tutto era cambiato. Ma solo nella sua mente. Neuroni dormienti si erano risvegliati come astronauti in viaggio siderale colpiti da un meteorite. Volevano agire ma non sapevano reagire.

Lui doveva essere sui vent’anni, alto, massiccio, capelli selvatici come fiori di rucola e dello stesso colore. Il matrimonio era stato consumato e dimenticato quello stesso giorno. Anzi nel percorso per tornare a casa col prezzemolo che serviva a papà per fare un aglio e olio di sua invenzione.

Ormai i neuroni erano svegli e attenti.

L’indomani, il destinatario delle sue attenzioni mentali era un altro: il postino che aveva suonato per consegnare alcune lettere per papà. Giovane ma uomo fatto, non in divenire. Grande come piaceva a lei. Non aveva mai avuto alcun interesse per i suoi compagni di scuola o di giochi. Né loro per lei, la consideravano inesistente, un manico di scopa dai colori di scopa su pelle e capelli. Così era passata indenne alle medie, a parte un lieve interessamento per il bonario bruttissimo preside, del resto gli insegnanti erano tutte donne, e al liceo, incantata dal professore di filosofia ascetico e immobile come un santino. Durante il triennio universitario era ancora vergine: nessuno all’altezza di meritare la rottura del suo imene. Nonostante che il lascito dello zio fosse ridotto al lumicino e i pretendenti crescessero, era sempre meno propensa a convolare a giuste o non giuste nozze con chicchessia. L’uomo che voglio arriverà.

Arrivò nelle vesti di un pubblicitario famoso che teneva un corso sull’importanza della musica nella comunicazione. Alla sua apparizione nell’aula lo riconobbe. Non perse una lezione, anzi si piazzava in anticipo nel posto più vicino per goderselo meglio. Il piglio decisionista nel presentare schemi e la passione nello spiegare abbinamenti tra musica parole e immagini guardando tutti ma non guardando nessuno la faceva impazzire. Doveva riuscire a farsi notare.

Il manico di scopa nel frattempo si era trasformato in un fisico snello da modella dal volto dorato come un biscotto su cui ricadevano liscissimi lunghi capelli dello stesso colore. Un terzo del volto era occupato dalla fronte bombata, segno di intelligenza le avevano sempre detto, che le davano un’aria sperduta di eterna bambina. Preda insolitamente perfetta per il destinatario dell’adorazione che naturalmente si era ben accorto di lei.

Pensa e ripensa Gioia si ricorda di un provino di un amico con la band che doveva essere da qualche parte, in fondo al suo armadio. Musica senza qualità ma il pretesto per fermare il pubblicitario prima che finisse il corso.

Mi scusi professore, ma un mio amico ha proprio insistito quando gli ho parlato di lei. Vorrebbe un suo parere su dei pezzi che ha registrato e se possono andar bene anche come jingle.

Sono del suo amico o suoi?

Non sono miei, non mi sembrano neppure granché, ma non voglio disturbarla oltre, mi scusi di nuovo.

Mi porti il pezzo alla prossima lezione, le saprò dire. Anzi, facciamo così, lo porti nel mio studio, domani pomeriggio.

Non un sorriso, non uno sguardo, neppure l’informazione necessaria per raggiungerlo.

Avevano vinto tutti e due.

Breve ricerca per l’indirizzo e Gioia si presenta alla porta, giacchino nero, gonna midi a pois, coda di cavallo.

La segretaria apre e, dopo un’occhiata sapiente, la introduce nello studio, l’uomo le viene incontro e la segretaria si ritira chiudendo la porta.

Nessuna formalità ma finalmente lo sguardo di lui sul suo viso. Ascoltano il pezzo, lei si vergogna, non riesce ad alzare gli occhi, e lo spegne prima della fine.

Non l’aveva mai ascoltato?

No, mi dispiace. Fa schifo, vero?

Brava. Se ti piace la musica te la farò conoscere. Sei disposta a viaggiare?

Lo vorrei da impazzire ma non ho soldi per viaggiare.

Quello non è un problema. Li ho io per tutti e due.

In cinque anni era diventata così brava da diventare talent scout. Aveva dimostrato una sensibilità speciale per le nuove tendenze musicali. Ma aveva dovuto vendere l’anima. Ne era cosciente? L’aveva venduta volentieri. Quell’uomo potente era suo. Innamorato, generoso, ammirato. E lei invidiata. Frequentavano luoghi e persone che avrebbe visto solo nei film. Aveva quasi dimenticato la lingua natale, lui voleva così, e riscuoteva successi ovunque. Aveva sempre creduto nel proprio valore e i fatti lo testimoniavano. Valeva, ma come sua creatura, sotto controllo perenne per non deluderlo. Ma in fondo era felice di non avere identità senza di lui.

Felice anche di assumere sostanze che le faceva trovare sulla toilette prima di specchiarsi dopo aver indossato l’ultimo regalo. La prima volta aveva tentennato, ma le spallucce di lui  con lo sguardo rivolto altrove non poteva accettarle. Si era affrettata a provare.

Una vita del genere non la reggi, le aveva detto. La sicurezza te la dà questa roba qui.

V

Quand’è che la sicurezza, anche aiutata chimicamente, aveva iniziato a incrinarsi?

Voleva essere bella, ricca e famosa e l’aveva ottenuto. Aveva conquistato l’uomo giusto, potente, ricco, gentile, maturo, o almeno lo credeva.  Cosa aveva da lamentarsi? No, non era un lamento ma una specie di blocco alla bocca della stomaco, come se non riuscisse a ingoiare qualcosa. Qualcosa che le dava disagio.

Forse, per seguire il proprio narcisismo, aveva dimenticato di conoscere la vera sé? Da cosa se n’era accorta? Pensava di avercela fatta e invece era stata una preda, portata al guinzaglio e mostrata a tutti. Cosa provava, cosa credeva, cosa si aspettava, non importava a nessuno. Men che meno a lui.  E allora? Non era mai importato neppure a lei, tanto era la voglia di piacere a lui. Sapeva amare, l’amava, l’aveva amato? Meglio non indagare. Era sempre in debito. Ansiosa di assecondarlo fino al punto di continuare a dirgli grazie. Come il primo giorno. Come voleva lui.

Non sarebbe mai tornata libera pena la perdita di tutto quanto. E, nel caso l’avesse voluto, libera per cosa? Neppure le sue capacità sarebbero rimaste: erano capacità in grado di esprimersi su cumuli di denaro che non possedeva.

Pensieri che lavoravano come tarli in profondità. Non sarebbero apparsi se non alla schiusa. Cercava di nasconderli a lui, che se n’era accorto prima ancora che lei se ne rendesse conto. Non era più la sua creatura, non era più la bellezza da mostrare, i capelli non splendevano più, le occhiaie sempre più scure e il sorriso sempre più tirato.

La sera dell’evento musicale dell’anno, la presentazione ufficiale di un cantautore in cui lei aveva creduto più dei precedenti, era stata scelta per dare nuova spinta alla relazione intorpidita. Voleva indossare qualcosa di sexy per ritrovare nello sguardo dell’altro l’effetto del passato.

Sceglie un abito monospalla bianco di jersey che le arriva all’inguine e mette in risalto il corpo perfetto di sempre. Ma l’abbronzatura quasi eccessiva, come gli occhi incavati sotto la fronte che sembra scendere sulle sopracciglia, le danno un’aria apocalittica. Una tirata di polvere d’angelo le riempie di lacrime la vista.

Quando lui entra e la vede in quello stato l’espressione non è di disappunto, è quasi compassione. Non può sopportarla. Gli dice di andare da solo. La voce le si rompe in gola. Bene, risponde lui e se ne va. Non è arrabbiato, né dispiaciuto.

È la fine? Forse è meglio? Non scherziamo.

Doccia, cambio abito, quello più ricco e lungo con fiori preziosi applicati che la fanno sembrare una nuvola di primavera.

L’entrata è spettacolare. Lo cerca schivando i complimenti. Non c’è. Chiede: l’hanno appena visto, era qui un attimo fa. Gira sala dopo sala, fanciulla di vento. Sente la sua risata. La riconosce, è quella intima dedicata a una lei. Addossato al muro del terrazzo sta stringendo una ragazza tra le braccia come se fosse la cosa più giusta e naturale del mondo. La ragazza invece ha la schiena inarcata come per ritrosia ma ride complice.

Si allontana senza farsi vedere. Di nuovo come il vento tra le occhiate che non le sembrano più di ammirazione.

Che fare? Far finta di niente? Non l’avrebbe mai mandata via. Ma messa da parte sì. Vale far finta di niente? Forse. Chi non lo fa? Per motivi più o meno nobili, per opportunità, per egoismo, per necessità. Lei perché l’avrebbe fatto? Per la schiusa dei tarli.

Non se la sente di tornare a casa, deve muoversi, camminare, lasciare che il sangue scorra e porti via i detriti. Tra i pochi passanti nessuno disturba la donna bellissima vestita da fiaba che guarda dentro i locali che si affacciano come a rintracciare qualcuno e passa oltre veloce. Cosa cerca?

All’improvviso si ferma. Non può essere. La giovane donna sola che beve il caffè inquadrata nella vetrina si volta, le sorride e alza la tazzina come a invitarla. Riconosce se stessa in una versione più bella e felice. Fa per entrare ma la visione scompare.

Parla con lui: è finita, lui non nega, è imperturbabile come sempre. L’uomo romantico non fa scene e non vuole scene. Gli dice che se ne andrà, ma prima deve disintossicarsi e lui pagarle la clinica e i medici più bravi.

Non c’è problema. Le darà tutto quello che serve per ricominciare. I soldi non sono mai un problema. Per lui.

Quando torna guarita, lui l’accoglie con un basengj di due mesi in braccio: È un regalo per te. Ti somiglia.

 

 

 

Maria Antonietta Montella (Lucca, secolo scorso) ha esordito in letteratura nel 2015 sotto lo pseudonimo Diego Montel con Giacomo, fragile casanova. Dopo la laurea in sociologia e una breve esperienza come insegnante di lettere, è approdata a Milano dove ha scritto campagne stampa, sceneggiature televisive, diretto video commerciali, creato e prodotto filmati per eventi per una grande azienda. Poi si è stancata e ha iniziato a scrivere per il proprio diletto ma sempre per passione. Le sue sono storie sulle dinamiche tra esseri umani, analisi attuali dei rapporti di coppia, problematici e non, con donne forti e insolite come protagoniste.

All’attivo nove pubblicazioni. Le ultime con Ultra Edizioni, ‘Cuochi a prescindere’ e Groupie per sempre’. Fine settembre 2024, per edizioni Il Ciliegio, Lo Scribastorie.

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