
14 Apr Viaggio intorno a ME DEA. Medea della Colchide e il tradimento di Sé stessa. In dialogo con Alice Ferlito e Nicoletta Fiorina
- di Gianna Cannì
“Maneggiando il caleidoscopio delle favole antiche, non sarà raro imbatterci nella visione, talvolta seducente, talvolta perturbante, delle donne impareggiabili che hanno sfidato le leggi del tempo…”, scrive Bianca Sorrentino nel suo Pensare come Medea; e la maga della Colchide, la figlicida, è quella “donna-mondo” che ci sfida instancabilmente con la sua complessità, la barbara che si appropria della lingua della civiltà, la figura irriducibile che parla al nostro terrore, alla nostra oscurità. Ecco perché, continua l’autrice, “questa donna senza confini continuerà a librarsi in volo sulle scene dei teatri, sulle pagine dei libri ancora non scritti, nell’immaginazione di chi non ha paura di stare in piedi sulla soglia del proprio abisso” ad insegnarci che tutti siamo capaci di cose grandi e terribili.
Se Medea vivesse in un moderno condominio catanese, direbbe alle vicine con le parole della poeta Angela Bonanno: “Cu mi cunfunni i pinzeri, quali ventu mi mpurugghia i capiddi […].Di unni cala sta manu ca mi scippa a ragiuni, ca m’annegghia a vista. C’è n’a me testa na luci ca s’adduma e sa stuta. C’è nt’o me cori na fera d’armali. Ora u sacciu, nenti n’appartieni” (Chi mi confonde i pensieri, quale vento mi attorciglia i capelli […]. Da dove scende questa mano che mi strappa la ragione, che mi annebbia la vista. C’è nella mia testa una luce che si accende e si spegne. C’è nel mio cuore una fiera di animali. Ora lo so, niente ci appartiene), raccontando l’incontro con i propri demoni, la perdita di tutta la luce, non solo di quella della ragione.
A marzo ha debuttato al teatro “Canovaccio” di Catania lo spettacolo di e con Alice Ferlito ME DEA. Medea della Colchide e il tradimento di Sé stessa, di cui Nicoletta Fiorina ha composto la drammaturgia musicale. Le luci sono di Marco Napoli e del piccolo Italo; i costumi di Gianni Cavalieri, mentre gli oggetti di scena sono stati forniti da Cinzia Caminiti.
L’essenzialità della scenografia che evoca un paesaggio spoglio della mente o dell’anima, la potenza del dialetto – familiare e al tempo stesso estraneo -, la forza arcaica dei gesti di Alice, la compassione per il dolore altrui quando diventa voce e richiamo fanno di questo spettacolo un’esperienza unica di riconoscimento: è come un viaggio all’origine di quel nucleo antico da cui tutto si è generato e che tutto rende possibile.
Ho visto sul palco una donna scissa a partire dal nome, ME DEA: ME si riferisce al suo io oggettivato, DEA alla sacralità che forse ha perduto per sempre. Il suo abito da sposa e la sua passione libera si trasformano, grazie all’intensa interpretazione di Alice Ferlito, sotto una luce che parla, in una camicia di forza e nella coazione a ripetere di una ossessione, mentre Nicoletta Fiorina canta nell’epilogo “Amuri, amuri e chi m’hai fatto fari? E m’hai fatto fari ‘na granni pazzia…” (amore, amore, e cosa mi ha fatto fare? E mi hai fatto fare una grande pazzia).
Ne abbiamo parlato con loro.
Alice, com’è nata l’idea della tua rilettura del mito di Medea?
A.F.: Lo spettacolo che ha debuttato a marzo ha avuto una genesi lunga e articolata.
Nei mesi di lockdown, sono stata intervistata dalla psicologa e giornalista Susanna Basile: si parlava del progetto di fare una trasmissione online, sul modello delle interviste impossibili a donne/personaggi. Discutendo di vari personaggi, ho sentito il bisogno di esplorare la figura di Medea, di darle una chance di riscatto. E’ iniziata una lunga ricerca, cui è seguita la scrittura di un testo, che però è rimasto nel cassetto per due anni. All’inizio del 2024 ne ho proposto una lettura, per vedere l’impatto sul pubblico. Il reading ha avuto luogo in un locale catanese che si chiama Mezzaparola, insieme a Roberto Stimoli ho aggiunto al mio monologo alcune canzoni. Era una Medea un po’ cantata e un po’ letta.
Nel maggio 2024 mi è arrivato un messaggio da parte di Daniela D’Amico, percussionista palermitana, che non vedevo da tanti anni. Insieme a lei e alla fisarmonicista Mari Salvato abbiamo dato vita ad una versione teatrale di quel testo, che ha debuttato a Palermo, al “Convento”. E infine quest’anno, con la collaborazione di Nicoletta Fiorina ha visto la luce lo spettacolo che ha debuttato a marzo.
La versione precedente presentata a Palermo era preparatoria a questa; la prima versione per il reading anch’essa necessaria per la nascita della nuova, ne è l’embrione. E’ stata una lunga ricerca per trovare la mia Medea.
Chi è la tua Medea?
A.F.: La mia Medea uccide i figli per riprendersi il suo lato antico, per tornare ad essere chi era: selvatica, nipote di Circe, sacerdotessa di Artemide. E’ una donna tradita nella sua onestà sentimentale, nel suo essersi data completamente. E’ stata folgorata da Giàsone/Giasòne, come lo chiamo nello spettacolo, mantenendo – per ironia – le due pronunce: il doppio nome sottolinea la sua inaffidabilità, ma lei crede alle sue promesse e abbandona per lui tutto. L’uomo è inizialmente affascinato dalla sua diversità, ma poi questa diventa ingombrante quando lui vuole consolidare il proprio potere regale. Io do di Medea una chiave di lettura personale: di solito conosciuta per l’uccisione dei figli, dà il nome a una vera e propria sindrome; è vero, fa una strage, praticamente toglie tutto al marito, ma più a se stessa. Che fine ha fatto Medea? La mia ME DEA è in un ospedale psichiatrico. Ma è la vera Medea o una che si crede Medea? Ogni tanto dice qualche frase in dialetto: entra ed esce dal personaggio classico, come se avesse due voci, una coscienza parziale. C’è una parte che racconta il suo passato, l’altra parte parla un altro linguaggio; raccontano la stessa storia con due voci diverse, un dolore enorme ha prodotto un io diviso. Il dialetto è la chiave per uscire da questa storia che si è costruita addosso. Nel testo cito qualche verso di Angela Bonanno, della sua Medea in condominio, che parla catanese: u senti stu iattu/ca ti mangia i cannarozza/è u to duluri/tu lassu ppi simenza/e si nun t’abbasta/futtiti (lo senti questo gatto/che ti mangia la gola/è il tuo dolore/te lo lascio per seme/e se non ti basta/fottiti).
ME DEA scopre che non può tornare da dove è partita, perché quello che si è perso si è perso per sempre. Il dolore e la follia si ripresentano sempre uguali, ciclicamente. Nel finale indossa una camicia di forza che la riporta dov’è, poi racconterà sempre la sua storia e questa è la sua punizione. Non è stata tradita, si è tradita in funzione del desiderio: si è data senza riserve e non ha rispettato la propria natura, perdendo quello che aveva.Tremenda nella sua fragilità. Gli dei non le perdonano di essere snaturata. Medea era una creatura sacra, legata alla vita, al creato. La punizione è continuare a rivivere la sua storia, la follia diventa la sua vera storia. Lo spettacolo inizia con un cunto cantato che anticipa quello che accadrà.
La metamorfosi è spesso la chiave che scioglie l’inconciliabilità degli opposti tipica della tragedia classica. Ho visto che nello spettacolo anche gli oggetti di scena subiscono una trasformazione…
A.F.: All’inizio ME DEA culla il velo da sposa come fosse un bambino, la sua sedia diventa un podio. Pochi elementi sono sulla scena: un antico bidet, una sedia, un letto. Questi oggetti non viaggeranno con noi, ce ne saranno altri nei diversi teatri, è stimolante adattare lo spettacolo ai diversi luoghi. Questa mutevolezza degli spettacoli l’ho imparata da un regista polacco di teatro open, Lecha Raczaka. Il testo, come ho già raccontato, ha avuto una evoluzione. Nella versione palermitana, le due musiciste in scena indossavano camici come infermiere e ogni tanto intervenivano; nella versione definitiva il personaggio della dottoressa/direttrice si manifesta attraverso le luci e la musica; si usa il suono della kalimba per emulare la direttrice, così come per esempio il marranzano è la voce di Giàsone/Giasòne. Nicoletta ha avuto una grande libertà d’azione, abbiamo lavorato insieme in modo simbiotico, c’è tra noi una grandissima intesa.
Chiedo allora a Nicoletta Fiorina di raccontarci come ha lavorato allo spettacolo.
Iniziamo, Nicoletta, dal tuo rapporto con la personaggia di cui raccontate la storia. Chi è per te Medea?
N.F.: Medea sono io, Medea è Alice. Medea è una donna, una maga, una barbara, molto intelligente ma molto ferita, ferita in malo modo per quei tempi, ma anche per questi tempi. Il tradimento è difficile da gestire, il suo riscatto sociale è stato traumatico ma io tifo per Medea comunque. Non penso al gesto dell’infanticidio e agli altri suoi delitti, vedo queste barbarie come metafore: è affine al mio dolore. Medea la vedo anche in tantissime donne che ho conosciuto. Nel mio disco D’incanto ci sono molte storie di finto amore, di manipolazione, di violenza sulle donne. Tanto amore, tanto dolore; tanto amore, tanto odio… tutto al rovescio ora va, subdoli gli uomini sono e degli dei non è salda la fede, come scrive Euripide. E’ vero. Medea è poi per me identità, è le sue origini, è come la fenice che diventa cenere e rinasce. Io non conosco bene la cultura greca, per me Medea è passione eroica; è una assassina ma è anche una salvatrice, ha salvato i figli da un destino tragico, e ha salvato se stessa: poi che fine abbia fatto non si sa.
Come hai strutturato la drammaturgia musicale dello spettacolo?
N.F.: Di solito la strutturo sul testo, sui movimenti dell’attrice: seguo per filo e per segno il mood, il sentimento che si esprime in una data situazione e quindi creo proprio delle ambientazioni sonore. Laddove c’è un po’ più di pathos, per esempio, metto il respiro del mantice della fisarmonica, oppure ricreo le voci del porto, l’arrivo di una nave o un momento di passione come quello dell’incontro tra ME DEA e Giàsone/Giasòne: quindi ogni suono viene creato dallo stesso spettacolo. Io ho in dotazione parecchi strumenti e per creare tante ambientazioni mi affido anche alla loop station che permette di mandare in loop diversi suoni e su questo posso creare con la voce e altri strumenti. Uso poi la chitarra, la fisarmonica, il clarinetto, la kalimba, il tamburo a cornice, il tamburo del mare, il cajon, l’hektar, lo xilofono, un fischietto doppio, il marranzano, degli ovetti e anche dei suoni, richiami per animali, per esempio il geco. La drammaturgia musicale nasce insieme alla voce, all’ambientazione e alla situazione a cui si vuole dare un accompagnamento.
Le canzoni sono state scritte per lo spettacolo o hai usato anche testi già esistenti?
N.F.: Alcune le ho scritte ex novo come Solo il vento lo sa, che canto durante il primo incontro di ME DEA con Giàsone/Giasòne che sbarca dalla nave. Ho usato anche una canzone che fa parte del mio ultimo disco D’incanto intitolata Storia di una donna del mare che era già perfetta per la figura di Medea: “Il vento del destino/sta soffiando/ora è il momento per/lasciarsi e andare”. Ho creato delle musiche con fisarmonica e chitarra per accompagnare alcuni momenti dello spettacolo. Ho utilizzato anche la poesia dell’imperatore Adriano Animula, vagula, blandula hospes comesque corpori che mi sembrava perfetta per il finale. Non avrai più gli svaghi consueti. Ho anche fatto riferimento ai canti tradizionali siciliani, come Lu focu di la pagghia che ho imparato da Rosa Balistreri in maniera indiretta e anche un canto della tradizione toscana, Pan pentito: Ecco la sposa, che va a marito, con trecento anelli al dito. Cento di qua, cento di là, ecco la sposa che se ne va. Faccio un mix di tutte le mie ricerche etno-musicologiche, ma alcuni brani nascono lì per lì durante le prove. Poi ho messo la musica a un paio di canti – prologo ed epilogo – scritti da Alice. Il primo lo faccio con la loop, una voce registrata, e il tamburo, a mo’ di banditore; mentre l’ultima è proprio una poesia bellissima a cui ho dato musica: Idda unn’è idda/ idda è idda ca si sente idda/ E canusci e cunta la so storia/accussì non va scurdati e ci pinzati (lei non è lei/ lei è lei che si sente lei/e sa e racconta la sua storia/ così non la dimenticate e ci pensate).
In autunno Alice e Nicoletta saranno in tournée e porteranno lo spettacolo in varie città, a partire dalle loro isole, rispettivamente la Sicilia e la Sardegna.
Foto di Paolo Andrea Calì
I versi di Angela Bonanno sono tratti dalla raccolta Dumani ti scrivu (Edizioni Forme Libere, Trento 2010)
Bianca Sorrentino ha parlato di Medea e le altre per Morel con Ivana Margarese: https://www.vocidallisola.it/2024/11/13/pensare-come-medea-cosa-ci-insegnano-le-donne-del-mito-in-dialogo-con-bianca-sorrentino/
e con Gianna Cannì la prima puntata dei podcast realizzati da Morel:
https://www.vocidallisola.it/podcast/puntata-1-pensare-come-euridice/
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