13 Feb Una gita
Una gita
racconto inedito di Matteo Candeliere
«E così questo è il tuo lavoro».
La voce – tremula, già sul punto di rompersi – lo coglie di sorpresa: da quando è arrivata non aveva ancora detto praticamente nulla.
«Sì. Forte, vero?».
La ragazzina alza le spalle e, dopo averci rimuginato un po’ sopra, gli chiede: «e se succede mentre sono con te?».
«“Succede”», ride lui. «Non è che siano cose che “succedono”, quelle». Sta ancora sorridendo, ma gli occhi di lei restano immobili.
L’uomo porta i capelli lunghi e gira sempre con la stessa camicia a quadri. Non sembra badare molto al suo aspetto. Ha ancora della schiuma da barba sotto il mento, e per un momento la ragazza se lo immagina mentre si prepara per incontrarla. Uno shampoo, una bella doccia, la lametta con cui radersi. Dev’essere bello preoccuparsi di queste cazzate.
«Allora», gli fa lui. «Hai deciso come farti chiamare?».
Ancora con questa storia dei nomi.
«D.»
«D.?»
«Sì, solo D.».
«È l’iniziale del tuo nome?».
«No».
«Sicura? Non è che poi si scopre che sei una Daniela o una Diane?».
«Sicura».
Quando sul calendario della cucina compare la X che annuncia la prima escursione, l’uomo comincia a incalzarla con un entusiasmo un po’ bugiardo.
«Ehi, D. Ti va di prepararti? Vedrai che roba».
La ragazza si caccia le mani in tasca. Ha indosso un paio di pantaloni due volte la sua taglia e la stessa maglietta con cui ha dormito.
«Sono già pronta».
Camminano per un tempo difficile da quantificare. Un’ora, due. Il sole è coperto dai rami degli alberi. Potrebbe essere trascorso persino un giorno intero. La ragazza si stanca subito, e va avanti in silenzio, per inerzia, a testa bassa.
Salgono per una collinetta, seguono vecchi sentieri a perdersi nel bosco. Quando arrivano al mare, D. è sudata e col fiato corto, mentre l’uomo sembra avere ancora delle scorte di energie. Ancora un promontorio e un paio di salite e discese e sono in spiaggia.
«Io mi faccio un bel bagno», le dice togliendosi la maglietta. Per essere un uomo della sua età, è ancora in forma. «E tu?».
«Io no».
«Ma il costume ce l’hai?».
«No».
«Come no? Tua madre non ti ha detto di portarlo?».
«Mia madre è una stronza. Non ci parlo, con mia madre». Parla in fretta, gli occhi fissi sul mare. L’uomo non si scompone: il conflitto con i genitori è un classico.
«Però sul depliant c’era scritto, di portarsi il costume. E anche sul sito. Non l’hai letto?».
«No».
«Neanche sul sito? Credevo che voi ragazzi vi informaste sui siti».
Lei prende un sassolino e lo scaglia lontano, vicino alla riva.
«Come mai non c’è nessuno, qui?».
«È mercoledì oggi. La gente lavora».
L’uomo la lascia da sola sulla spiaggia e si fa una lunga nuotata. Lei ne segue la scia coprendosi gli occhi con una mano.
«Che cos’è quell’isola?», gli chiede quando torna.
«L’isola», ripete lui, come se fosse già di per sé una risposta. Si asciuga i lunghi capelli con un asciugamano reso duro e secco dalla salsedine. «Se vuoi possiamo prendere una barchetta e andarci a fare un giro. Vuoi?».
«No, no. Dicevo così. Tanto per dire».
Tornano a casa che è ora di cena. Stanchi, sudati, la pelle bruciata dal sole. L’edificio è una vecchia costruzione in legno, ultima bifamiliare di una schiera di bifamiliari. D. entra con le scarpe sporche e l’uomo la riprende.
«Scusa, ti spiace pulirti i piedi prima? Puoi sederti lì sulla panchetta».
Se lo immagina con la scopa in mano a ramazzare o mentre butta la polvere giù dal balcone. Si sforza di pensare a come sarebbe preoccuparsi della spazzatura da portar fuori o dei pavimenti da lavare.
«Sì», risponde. «Sì, vado», ed esce scalza sulla terra ricoperta dagli aghi di pino.
Mentre cenano lui le allunga un foglio plastificato. È tutto stropicciato e ha alcune macchie dall’origine misteriosa.
«Che cos’è?».
«Leggi».
Prende il foglio e lo guarda. Sopra ci sono delle foto dell’isola che hanno visto quella mattina. Poi delle scritte e un numero di telefono.
«Che cos’è?», ripete.
«Come “che cos’è”? È l’isola. Ci fanno i tour guidati, ma noi possiamo andarci per conto nostro».
«Ti ho detto che non… »
«Conosco un tipo. Ha una barchetta, me l’ha già prestata una volta o due».
«Sì, ma io non… »
«È un attimo a chiamarlo e chiedergli se ce la impresta».
La ragazza continua a dire che non le va, ma quando lui si alza per telefonare non fa nulla per impedirglielo.
«Col barcaiolo ci troviamo alle otto al molo. È poco più in là di dove siamo stati stamattina. Devi aggiungere una mezz’ora a piedi rispetto alla strada che abbiamo fatto per arrivare alla spiaggia. Considera che ci fa un favore: a quell’ora lui dovrebbe già essere a largo, ma ha detto che ci aspetta».
Lei non lo interrompe. Tiene gli occhi fissi su quello che ha nel piatto, sul cibo che non ha neppure sfiorato.
«Quindi, sveglia presto. L’isola ti piacerà, vedrai».
«Se».
L’indomani mattina è sorpreso di vederla scendere puntuale. È vestita come il giorno prima e ha la faccia ancora mezza addormentata, ma è lì, viva alla base delle scale.
Presto il sole comincia ad attrarre a sé le ombre degli arbusti e dei tronchi dei pini marittimi. I grilli cantano senza sosta e l’uomo e la ragazza salgono e scendono in silenzio le colline che li separano dal mare.
Quando arrivano al molo, il barcaiolo è già lì che li aspetta. Sta fumando una sigaretta e non appena li vede si alza e prende ad armeggiare con funi e gomene.
«Io resto qui», dice la ragazza, e si ferma sotto l’ombra di un albero.
L’uomo va incontro al barcaiolo e gli dice qualcosa sottovoce. Quello si volta un attimo a guardarla, poi riprende a preparare la barca. Si stringono la mano: l’accordo è preso.
«Cosa ti ha detto? Come mai mi guardavate?».
L’uomo alza le spalle. «Mi ha chiesto se fossi da solo e gli ho detto di no. Tutto qui. Ma che te ne importa, di quel tipo?».
«Niente», fa lei.
«Riesci a salire?».
«Mh-mh», risponde. E salta dentro.
Il mare è ipnotico e ossessivo fino alla demenza. La barca sale e precipita a ogni minuscola onda, e man mano che si avvicinano all’isola le onde si fanno più grandi. Sono partiti da poco, ma già riescono a distinguere gli alberi che ne ricoprono la superficie. È più vicina di quanto sembrasse.
Tira fuori il telefono dallo zaino e scatta una foto. Per vedere com’è venuta deve coprire lo schermo con la mano: il sole è troppo forte.
L’uomo sorride e dà gli ultimi colpi di remo.
«Terra!».
Scende e con un dito si toglie una ciocca di capelli dagli occhi. Si guarda i piedi. La sabbia è bianchissima, ma gli scogli se la mangiano subito.
L’uomo cerca di far passare una fune attorno al tronco di un albero. Scivola e impreca.
«Ci facciamo due passi?», le chiede dopo esserci riuscito.
«Mh», gli risponde lei.
L’intero giro dell’isola gli porta via una mezz’ora. Sono costretti a camminare sul bagnasciuga, perché poi la riva si fa rocciosa. Camminano a testa bassa, concentrati sul proprio respiro. Lui è abituato a camminare così, e lei fa lo stesso. Di tanto in tanto si fermano e D. scatta una fotografia.
«Ti piace qui?», le chiede senza voltarsi.
«Sì».
Quando tornano al punto di partenza, la barca non c’è più.
«Eppure l’avevo legata. Non è possibile che non ci sia». Il mare si è fatto grosso e se l’è portata via. La scorgono a largo mentre si allontana. D., le mani lungo i fianchi, non dice nulla. L’uomo ha già tirato fuori il telefono e sta controllando qualcosa. Mentre digita le si avvicina: tiene lo sguardo basso sullo schermo e parla senza guardarla: «adesso chiamo la Guardia Costiera. Non capisco come cazzo…»
Lei fa un passo indietro.
«Non… non ti…», gli dice mentre indietreggia e per poco non incespica in un grosso sasso.
«Ehi, ma che dici? Ragazza, guarda che…»
«Non ti avvicinare!». Gli occhi rossi, le vene del collo tirate per lo sforzo. Finalmente una voce. Finalmente se stessa.
L’uomo si blocca. Alza le mani e le mette tra sé e la ragazzina. Fa un passo indietro a sua volta. Sa come ci si deve comportare in questi casi, e segue il copione.
«Ok, D. Ora io sto qui e tu stai lì. Nel frattempo, chiamo chi devo chiamare. E tempo una mezz’ora ci vengono a prendere. Arrivano in fretta, ok? Non siamo mica chissà dove. Ok?».
Trema vistosamente. I capelli le si sono appiccicati al volto per il sudore. Fa due passi verso un gruppo di scogli e scompare.
L’uomo resta seduto in attesa, a guardare il mare. Onde si infrangono sulla riva, gabbiani starnazzano tutto attorno. Cose che erano lì prima di loro e che ci saranno ancora quando se ne saranno andati.
Dopo un po’ se la sente arrivare da dietro le spalle.
«Non mi hai seguita», le dice.
«Certo che non ti ho seguita».
«E se… e se mi fosse successo qualcosa?».
Lui si volta. Non del tutto, solo quel tanto che basta per guardarla con la coda dell’occhio.
«Qui non c’è niente di pericoloso».
Lei gli si siede di fianco e si prende le ginocchia tra le braccia.
«Non ti è mai successo che qualcuno lo facesse mentre era con te?».
«Facesse cosa?».
«Lo sai cosa».
«Se non me lo chiedi non ti posso rispondere».
Sussurra qualcosa, ma il rumore delle onde le copre la voce.
«Come?», le chiede.
E lei lo ripete: «che si uccidesse».
Gli occhi di entrambi fissi sul mare, questa volta è la voce di lui a essere sovrastata dalle onde.
«Cos’hai detto?».
«Non finché sono rimasti con me».
Quando la voce di un motore emerge da quella del mare, si alzano in piedi a guardare l’orizzonte strizzando gli occhi.
Una volta sul motoscafo, l’uomo stringe la mano ai militari.
«Grazie, ragazzi».
«Dovere, signore. Dovere. La ragazzina è sua figlia?».
«Lei? No, no».
«È il suo tutore?».
«Solo temporaneamente».
Il militare lo guarda senza sorridere, come se d’improvviso si fosse insospettito.
«Dovrebbe spiegarmi», gli dice. E allora lui glielo spiega. Ne discutono davanti alla ragazza, ed è come se l’avessero costretta a spogliarsi davanti a tutti. Gli occhi del militare, occhi che hanno guardato il mare troppo a lungo, occhi che non sanno più come ci si posa sulle persone senza far loro del male, per un momento indugiano su di lei – sulla sua debolezza, sulla sua nudità – poi tornano a fissare quello strano tutore.
È tutto a posto, possono andare.
La via del ritorno la fanno in silenzio. Di tanto in tanto la ragazza si ferma, e l’uomo deve convincerla a proseguire.
«Se non ti sbrighi arriviamo a casa a mezzanotte».
Nessuna risposta.
«Torniamo a casa, dai. Puoi stare seduta in silenzio anche lì».
Ancora niente. Allora si siede anche lui. Sul prato, a debita distanza. Tutt’attorno i rumori si acquietano fin quasi a scomparire. L’uomo strappa ciuffi d’erba e se li rigira tra le mani.
«Vuoi dirmi che cosa ci fai qui?».
La domanda pare destarla da un lungo sonno. «Mia madre non te l’ha detto?».
«Ma il mio sito non l’hai nemmeno aperto, allora!».
«No. No che non l’ho aperto. Perché?».
«Perché c’è scritto chiaro e tondo che non chiedo niente alle famiglie. Niente. C’è scritto grosso così, c’è scritto».
«Mh».
«E quindi?».
«E quindi cosa?».
«Cosa ti successo. Me lo vuoi dire?».
«No».
L’uomo si rialza in piedi pulendosi i pantaloni.
«Quello che ti è successo – qualsiasi cosa cosa sia – non se ne andrà dopo una gita in campagna o con una bella nuotata. Lo so benissimo».
La ragazza resta in silenzio. Ma lo guarda, almeno. Ha la sua attenzione.
«Non so cos’hai passato, ma vorrei soltanto essere sicuro che…»
«Che?».
«Che tu non facessi la fine di quella… della persona di cui ti ho parlato prima».
«Quale persona?».
«Quella che… quella che si è…»
«Devi dirlo», dice lei. E sorride. È un bel sorriso, per essere una principiante.
«Che si è uccisa».
«Cosa le è successo?».
L’uomo distoglie lo sguardo. Guarda lontano, da qualche parte in mezzo agli alberi.
«Si è uccisa. Non è abbastanza?».
«Come ha fatto?».
«Ah, quello. Non mi interessa, quello». Si siede di nuovo per terra e comincia a parlare come se stesse parlando da solo. «Vorrei solo che le mie stupide escursioni e le mie gite in barca servissero a qualcosa, tutto qui. Non è che a un certo punto debba esserci la frase a effetto o chissà che rivelazione. È solo che… si va avanti a piccoli passi. Sono cazzate, non parlo di chissà quale impresa. Vorrei solo che prendeste la direzione giusta, ecco. Che capiste come si rinasce. Come…», e con un dito disegna un cerchio nell’aria, «come il serpente che risorge dopo essersi mangiato la coda. Ma forse mi sopravvalutato. Vi tengo semplicemente lontano dai guai per una settimana o due. O almeno, ci provo».
Ma è sufficiente: la ragazza si alza e si incammina in silenzio verso il lento tramonto.
A casa tutto è immobile, tutto è com’è sempre stato. I pini marittimi, le ragnatele tra le travi sopra la veranda, le pentole di rame appese alle pareti della cucina.
D. sale in camera sua, tenendosi al mancorrente per non cadere. Si trascina, si costringe. Ci prova, a farsi forza. Si sdraia sul letto con la faccia nel cuscino. Giù di sotto l’uomo armeggia con i fornelli, e una parte di lei prova a convincerla che sarebbe meglio scendere e dargli una mano. Le parla con la voce flebile di un bambino, la implora, la prega in ginocchio. Ma poi vince l’altra. Vince sempre l’altra. Si sente chiamare da sotto le scale, e per un secondo, uno soltanto, si immagina a cena con quell’uomo, a preoccuparsi delle cazzate che mandano avanti il mondo. Passami il formaggio, ecco l’apribottiglie. Allora si volta su un fianco, gli occhi sulla porta e ancora oltre, sul corridoio, le scale e il grande tavolo della cucina.
Biografia
Matteo Candeliere, trentunenne, nato e cresciuto a Torino, ha pubblicato racconti su diverse riviste (Bomarscé, Blam, Narrandom, Il mondo o niente, Pastrengo, Spazinclusi, Micorrize).
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