17 Gen Il bambino di pietra. Note sul perturbante in Laudomia Bonanni
Il bambino di pietra. Note sul perturbante in Laudomia Bonanni
di Ivana Margarese
Laudomia Bonanni, nonostante alcuni successi avuti in vita, rimane una scrittrice fuori dal canone, poco conosciuta, il cui stile asciutto, ironico e disincantato è capace di rilevare, come attraverso una lente di ingrandimento, le trame contraddittorie della psiche. “Il libro dev’essere come un sasso che si butta per colpire” era solita dire, manifestando con chiarezza come i suoi libri non intendano pacificare il lettore, cullarlo in un ordine ben congegnato, ma abbiano più che altro il proposito di colpire, pungolare, perturbare.
In Italia oggi si assiste a un rinnovato interesse nei suoi confronti: la casa editrice Cliquot nel 2021 ha ripubblicato il suo romanzo Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile; La Società Italiana delle Letterate, in collaborazione con la Facoltà di Lettere dell’Università de L’Aquila ha realizzato giornate di studio e una passeggiata letteraria nei luoghi della città in cui Bonanni ha vissuto parte della sua vita.
La sua storia come scrittrice la vede esordire subito dopo la fine della guerra, quando viene spinta dalla madre a spedire quattro racconti, col titolo Il fosso, a un premio per inediti indetto a Roma dal gruppo di intellettuali romani che si riuniscono in “casa Bellonci”: gli “Amici della Domenica”.
«Era il periodo successivo alla guerra» ricorda Bonanni «c’era nell’ambiente letterario una fraternità straordinaria; forse dopo una guerra è inevitabile che succeda così, si ha bisogno di un mondo pulito, fresco, onesto».
Ecco che lei, totalmente sconosciuta e senza amicizie letterarie, vince il premio e il suo libro, pubblicato nel 1948, viene salutato con entusiasmo anche da Eugenio Montale che in una recensione paragona la prosa della scrittrice a quella del Joyce di Gente di Dublino, e dichiara:
«Ho qui il libro di una sconosciuta, Laudomia Bonanni. E per leggerlo ho dovuto vincere una certa prevenzione perché il libro è uscito da un concorso, ha vinto un premio letterario, quelli di certi «Amici della Domenica» di cui non ho alcuna diretta informazione. Il moltiplicarsi dei concorsi, la leggerezza con cui si compongono le giurie (spesso formate da uomini di paglia quando il nome del premiato è già di dominio pubblico) hanno fatto sì che i libri laureati cadono nel vuoto che si meritano, se proprio non vale la pena di leggerli. Con un sospiro di sollievo debbo però riconoscere che esistono eccezioni e che questa Laudomia meritava veramente di essere tolta dall’ombra. Abruzzese alle prime armi, giovane non so quanto, Laudomia Bonanni è lodata, nel verdetto della giuria, per la sua capacità di «aggredire i suoi argomenti» e riconosciuta immune da «cifre della moda impropriamente chiamata neo-realista». Se bene intendo si intendeva così riconoscerle forza di stile e indipendenza da certi modelli americani. Ma di neo-realismo si può parlare anche per lei, pur senza volerle imporre una etichetta. Non imita gli americani, il suo realismo è quello di certi racconti di Joyce (I morti) ma non sempre ha il coraggio di tagliar corto con quella troppo vera «verità» di certa nostra letteratura regionale (del mezzogiorno soprattutto) che ha appesantito talora il Verga stesso. Se riuscirà a diventare più asettica e cederà meno alla tentazione (oggi così femminile) di una scrittura intensamente artistica, pregnante, densa, troppo insistita nei particolari, questa Laudomia farà certo strada.[…]
Non toscana, Laudomia Bonanni ha il difetto di certi scrittori toscani recenti: fa sentire troppo la cavata della mano sullo strumento, non si nasconde abbastanza. La forza è il suo pregio e un poco il suo difetto. Stemprati e annacquati, diffusi in una analitica e intellettualistica atmosfera di sogno questi racconti avrebbero offerto materia a due lunghi romanzi mezzo romantici e mezzo regionali, di quelli che pubblicava una volta in Francia la Nouvelle Revue Française: libri che si ammirano sbadigliando e alla fine si rimpiange di aver letto. Laudomia Bonanni dimostra invece (anche nelle novelle più brevi: Messa funebre, Seme) di voler restare attaccata al concreto della sensazione e della verità oggettiva; e rivela perciò una forza di narratrice che non dovrebbe fermarsi qui».
E in effetti Bonanni non si ferma a questa prima pubblicazione, continua a scrivere racconti e romanzi, inizia una lunga collaborazione con «Il Giornale d’Italia» e con altri importanti quotidiani e riviste nazionali.
Nel 1950 vince il premio «Bagutta – Sezione Opera Prima» assegnato ai nuovi scrittori emergenti.
Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile è uno dei suoi ultimi libri, finalista al premio Strega nel 1979. In questo romanzo l’osservazione di sé si congiunge ai temi della sessualità e della maternità, descritta quasi come una nemesi naturale:
E non è nemmeno più importante dare la vita, stanno sempre a dirti che al mondo siamo in troppi, uno spreco. Eppure alla natura non ci si sottrae. Non si resiste impunemente alla natura, non si ama impunemente, non si ha impunemente un figlio: alla donna non è concessa l’impunità.
Un regno, sì, la regina della casa. Il matriarcato soggetto. Ci eravamo accanite. Regina del sotterfugio e del ricatto. I figli in pugno come scettro.
Bonanni affronta una questione rimossa come la paura della maternità attraverso l’immagine del bambino di pietra: “Il figlio rimasto inespresso come un feto calcificato? Questo il blocco che ho portato dentro: l’immaginario bambino di pietra?”.
E legando il dare la vita alla rigidità della morte sfiora un tema universale: l’idea della fine, la coscienza di dover morire:
È stato come incontrarsi faccia a faccia all’improvviso in uno specchio, sempre allarmante. Non ci possiamo riconoscere, non combacia con l’immagine che abbiamo di noi stessi. Perché si tende a rimuovere tutto quanto disturba: ogni difetto fisico, un brutto naso o una bocca asimmetrica, le modificazioni dell’età, i guasti dell’invecchiamento. Rimoviamo perfino l’idea della fine, la coscienza di dover morire.
L’angoscia della fine dell’Io, della sua imperfezione e vulnerabilità, rimanda al mito greco di Medusa, al blocco dello sguardo, che non trova strategie nuove per guardare meglio ciò che lo spaventa. La nostra cultura centrata sulla esaltazione della maternità e del ruolo della donna come madre, sembra celare l’ambiguità che ogni posizione porta con sé , nel noto legame tra eros e thanatos, di cui già scrive Freud in Al di là del principio di piacere (1920).
Cassandra (questo il nome della protagonista) sta vivendo una crisi esistenziale e chiede aiuto a uno psicanalista, che le dice di scrivere ciò che le passa per la testa. E scrivendo Cassandra mette momenti isolati, luoghi, persone e impressioni, emersi dall’amnesia. Cerca di recuperare qualche filo. Scrive Dacia Maraini nella prefazione alla nuova edizione:
Nel 1979 qualcuno aveva pensato fosse un libro autobiografico, ma non era così, anche se certamente autrice e protagonista, entrambe calate negli anni caldi del femminismo, erano unite dagli stessi ideali. Nel sogno condiviso di una società in cui le donne non dovessero più contrabbandare i propri desideri, in cui potessero esprimere un proprio immaginario, in cui fossero libere di raccontare la propria storia con il proprio punto di vista storico e, cosa più importante, in cui fondare il principio di solidarietà tra donne.
Cassandra, voce narrante di questo romanzo, è una figura centrale nell’opera della scrittrice che definisce questo personaggio come “la protagonista di tutto quello che ho scritto”. La donna si racconta con ritmo spezzato, si frammenta, sembra farsi chirurgicamente a pezzi:
A volte cerco di confortarmi da sola. Ho quarantasette anni, non è ancora la vecchiaia, fibra forte da reggere la tortura della nevrosi. Una casa ricca con molte belle cose piena di libri. (Ma non vale niente perché non desidero niente, sono devitalizzata.) Un lavoro congeniale. (Ci tornerò?) E un marito su misura. Mi va bene com’è, mi sarebbe andato bene impotente fin dal principio, o diverso, sono ancora più gentili, la gente cosiddetta normale non apprezza certa raffinatezza.
Cassandra osserva ciò che la circonda con distacco, sembra vivere lontana da tutto, senza coinvolgimento. Registra ciò che vede. Scrive di vergogna e piacere come semplice spettatrice di fatti, anche quando racconta di se stessa, del rapporto col marito, con la madre, col padre.
“Una straniera” affine al Meursault di Albert Camus o ad alcuni personaggi scarni e essenziali della prosa di Fleur Jaeggy, con la quale condivide una scrittura spietata, limata con precisione chirurgica, e un temperamento schivo. Questa privazione di ogni empatia o riconoscimento dell’altro rende Cassandra una figura femminile irritante e difficile. I rapporti con i genitori vengono descritti con estraneità, anche quando questi ultimi sono vecchi e malati. Una rappresentazione anche questa vicina alla scrittura di Jaeggy che ne I beati anni del castigo delinea un’assenza di punti di riferimento famigliari solidi: il rapporto di quasi totale estraneità tra il padre e la figlia protagonista e narratrice principale della storia, la figura sullo sfondo di una madre lontana ma ingombrante che detta legge e decide.
La protagonista de Il bambino di pietra parla anche del matrimonio e della sessualità con distacco:
Devo decidermi ad affrontare quello che ho continuato a eludere anche qui. I rapporti con mio marito. Non si scoraggiò tanto presto. Era troppo virile per dubitare di condurmi alla partecipazione, e ne conosceva l’arte, ovvero i segreti. La sua idea: che il solo sentimento in amore fosse un surrogato, detestava l’insipido ti voglio bene. Il sentimento era lui a mettercelo. La mia ignoranza pratica, i miei irti pudori, la mia presunta illibatezza, lo eccitavano. Ma con riguardo. Fu molto paziente e durò abbastanza a lungo nei suoi entusiasmi amatori. Anche troppo a lungo, data l’età. […] Consideravo con sollievo e superiorità: l’azione il piacere la vergogna, spetta tutto all’uomo. Dopo non riuscivo a dormire, nemmeno lui si addormentava subito, come se rimanesse ansioso. In principio tentava di mettersi a parlare.
L’ho pensato: non può essere la natura a rendere questo atto difficile, lo rende comunque ineluttabile. La natura può indurti a fare la tua parte anche senza piacere. Quella sensazione assurda che si fosse compiuto un evento universale, a volte la provavo. Con un certo orgoglio di esserne solo spettatrice, benché strumento. Si sentiva osservato. Non abbassi mai la guardia. E la mia passività vigilante lo ha paralizzato fino all’impotenza. Almeno con me.
Sono dunque questa cosa un po’ allarmante e un po’ ridicola a pronunciarsi: anestetica all’introduzione. Frigida suona ancora peggio. E donna a mezzo busto.
Le analisi di Bonanni conducono su un terreno sdrucciolevole, ma essenziale se si vuole andare al di là della retorica e amalgamare i chiaroscuri per una visione profonda del reale. Un’indagine sul sottosuolo della psiche e delle relazioni, che oltrepassa gli slogan e i proclami.
«Oggi scrivere non basta più. Uno scrittore per prima cosa deve sapersi promuovere» ebbe a dire con amarezza Laudomia Bonanni verso la fine della sua vita: ci auguriamo possa essere in qualche modo smentita.
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