L’imprevedibile numero delle cose

racconto inedito di Omar Suboh

immagine in evidenza “Sacred Heart, N. D.” di Jack Kerouac

 

Fate presto! Cosa state aspettando? Non respira più… stiamo provando in tutti i modi a rianimarlo ma non risponde. Come? se perde sangue? Ma diosantissimo siii che perde sangue! È disteso lungo il pavimento con gli occhi chiusi, la bava alla bocca, la testa spaccata, sembra che lo abbiano preso a martellate, povero Michelino. Sbrigatevi, vi prego… – riattaccò orientando lo sguardo verso un angolo dove una macchia rossa, in basso – a destra rispetto al corpo –, si condensava lasciando una traccia indelebile sul muro bianco della camera da letto, sfumando i segni verdi come la muffa depositati dalla umidità. Cosa ti è successo?, perché non parli Michelino!, non mi riconosci? Sono tuo zio Giancarlo – e mentre lo diceva gli afferrava la testa con la mano destra, e con l’altra provava a scuoterlo mollandogli qualche schiaffo sul volto tumefatto, violaceo come un cielo estivo al tramonto. Mi avevi promesso che avresti smesso, te l’ho fatto scrivere sul quaderno che ti ho regalato apposta, perché volevo vedere in calce la tua firma, accertarmi che non avresti più toccato quella roba, mi dicevi: Zio tranquillo, quelle cose sono per i tossici! Voglio divertirmi soltanto un po’, niente ero, giuro, giusto un po’ di Speed, qualche raglia, niente di più… E invece un cazzo! Ti facevi, perché altrimenti questi buchi sul braccio? Ti cercavano vero?, ho sentito da Mario qualche storia, giravano delle strane voci al mercato, mi gridavano dietro: Ah Giancarlo, ma non è che Michelino ha incominciato con la roba?, E io che non potevo crederci ribattevo con tutte le mie forze che quelle erano tutte cazzate, il mio Michelino è una leggenda urbana vivente, abita la strada ma non ci morirà come voi, brutti pezzi di merda! – disse, alterando il proprio tono di voce, incapace di indirizzare la rabbia verso un oggetto circoscritto. Ci passavano tutti, indiscriminatamente, gli amici del mercatino della domenica, dove erano soliti piazzarsi nel solito angolo, vicino ai camper dei gitani circondati da bambini trepidanti che saltellavano tra i bulloni e i martelli disseminati ai loro piedi, sopra un tendone bianco per la merce in vendita, e gli africani di fianco con le scarpe e i giubbotti Moncler contraffatti; davanti era solito piazzarsi Gigi, poeta della beat generation allontanato dal gruppo perché dissidente, o almeno così andava ripetendo a tutti i potenziali clienti che, puntualmente, si allontanavano per sempre appena si distraeva con la scusa di un nuovo arrivato. Possedeva una pila di dvd e blu–ray che aveva salvato dalla sua vecchia videoteca, assieme a una discreta quantità di cd e cassette della sua personale collezione, Tutti funzionanti eh!, amava ribadire con fermezza tra gli sguardi rapiti e diffidenti di chi si avvicinava alla sua postazione, un po’ mossi dalla curiosità per la sua eccentricità e, dall’altra, perché indossava un giaccone di pelle lungo fino agli stivali e un cappello da sparviero sulla nuca pelata, attraversata da qualche fragile capello marrone rimasto di cui non riusciva a disfarsi; di fianco a Gigi ci stava un altro signore, conosciuto dai più con il nome d’arte di Disco Inferno, sulla sessantina, con i denti gialli – quelli rimasti, gli altri erano venuti giù da soli –, tra le casse di un vecchio impianto che sputava fuori un riff di chitarra tipico della dance music degli anni Ottanta, accompagnando quelle melodie con giravolte e contorsioni miracolose. Chiunque gli passasse accanto non poteva che rimanere stupefatto dalla agilità di quel danzatore novello incapace di contenersi al ritmo dei cori delle cantanti che schizzavano dalle casse pompate dai bassi graffianti, e così formavano un cerchio intorno alla sua postazione, mentre Disco Inferno si dimenava emettendo suoni inarticolati che si disperdevano nel vociare sincopato dei presenti.

Era tra Gigi e Disco Inferno che si era insinuata la voce che Michelino non se la stesse passando tanto bene, prima lo si vedeva sempre, ogni domenica, con i suoi dischi – l’eredità del padre scomparso, che aveva conosciuto per così pochi anni da non riuscire nemmeno a ricordare il suono della sua voce – che spaziavano, principalmente, dal cantautorato italiano degli anni Settanta sino ai Black Sabbath, passando per i Kiss, gli Scorpions e gli Iron Maiden. Aveva consolidato la sua clientela, ormai composta di fedelissimi, che aspettava ogni domenica per immergere le mani tra le pile dei dischi avvolti dalla plastica, tra la polvere depositata negli anni e le temperie che si riversavano sul selciato dove era solito mettersi: Non è che avresti qualcosa di Battiato? Cercavo Fetus – fu una delle ultime richieste e, con la solita gentilezza che lo contraddistingueva tra gli espositori della piazza, provava lo stesso a cercare pur sapendo di non avere quasi mai quello che gli veniva chiesto. Con il tempo aveva appreso alcune abilità tecniche che gli consentivano, distraendo il suo interlocutore, di riuscire lo stesso a rifilare qualcosa di non cercato, sfoggiando una parlantina da retore della Roma imperiale: Eh ma questo l’hai sentito? Mamma mia!, è rarissimo, una prima edizione di Rimini di De Andre’,  per te faccio una follia: lo sconto a metà prezzo… guarda, è regalato praticamente!

Ah!, e a quanto me lo faresti?

Trentacinque!, e mentre lo diceva gli occhi di quel poveraccio roteavano all’indietro sfiorando l’anima, come a volerla afferrare per attingere alla sua energia remota: Guarda anche questo: La solitudine di Léo Ferré, questo sì che è un capolavoro.

Poi era stata la volta degli Iron Maiden: Hai Killers?, e Michelino di rimando, girandogli attorno, Quello no, ma hai sentito quest’altro: Sabbath Bloody Sabbath?, e così riusciva a portarsi a casa qualche soldo che avrebbe speso subito per toccare il paradiso, Per sfiorare l’infinito diceva.

Sai zio, a me non interessa vivere come fanno tutti, alzarmi presto la mattina, indossare una divisa di ordinanza, timbrare il cartellino dalle otto alle cinque di pomeriggio, ripetere gli stessi gesti sempre uguali tutti i giorni, andare a letto presto, sposarmi, avere figli, mangiare alla stessa ora, risparmiare per comprarsi la casa, avere la risposta per tutto… non fa per me: voglio vivere come i rapper ad Atlanta. Mi capisci? Voglio morire con tutto l’oro addosso come i faraoni! E per adesso, questi dischi qua mi danno da mangiare per la settimana, finché avrò questa possibilità di non dipendere dallo Stato farò tutto quello che è in mio potere per non dovermi piegare: non mi avrete mai, figli di puttana!, e nel frattempo dallo stereo della sua Panda uscivano le rime caustiche di Jack the Smoker: L’alba è uno dei miei dischi preferiti di sempre… poetico e zarro al punto giusto, un classico intramontabile! Senti qua:

Proclamo la rivoluzione a un popolo di sordi,

troppe domande, troppi eventi andati storti!

Il suo migliore amico, Luciano detto Il Maniaco – perché, in una serata ad alto tasso di bamba, aveva ammesso di frugare tra i cassetti della biancheria in camera della sorella e masturbarsi venendoci sopra –, condivideva con lui l’interesse per il rap, che era solito definire come le partiture dello spirito, ma rigettava tutto ciò che non suonava come negli anni d’oro della vecchia scuola: Sono cresciuto ascoltando N.W.A. e i Public Enemy, i Machete non gli posso sopportare!, e di rimando Michelino: Qua il machete te lo rompo in testa io se ti sento dire una cosa simile un’altra volta! Vai a farti le seghe con il reggiseno di tua madre va’!, e rimanevano per ore in macchina a confrontarsi dialetticamente a suon di freestyle sopra le strumentali di Dj Premier e Pete Rock. Volevano registrare assieme a casa di un loro vicino con ambizioni da ingegnere del suono, un mixtape, e secondo le loro idee di partenza avrebbe dovuto essere un grandioso omaggio alla golden age dei Novanta, con riferimenti nascosti tra le rime ai migliori del passato (da Neffa a Maury B, da Lou X ai Gente Guasta). Il progetto era in corso, erano riusciti a chiudere quattro tracce, ma l’ultima volta in cui si erano visti Michelino era distratto, crepuscolare, e uno come Luciano, fedele da sempre come alle Posse delle origini, se ne accorse subito: non era nella sua indole intristirsi.

Quella sera, una radiosa giornata di luglio, Luciano aveva avuto da un amico di suo padre che faceva il trasportatore (Sai, di quelli che guidano i furgoni giganti che poi vanno a mangiare in trattoria con Chef Rubio!) una partita di cocaina finissima, pura, non tagliata: Roba da farti roteare gli occhi dentro fino a che non vedi l’anima!, ma Michelino non lo ascoltava più di tanto, guardava fuori dal finestrino della sua Panda, assorto in pensieri che preferiva non riferire. La pipparono tutta pompando dalla radio Straight Outta Compton e passando poi a The Chronic di Dr. Dre, dilatando il tempo come il cuore che zompava simile a una tifoseria dagli spalti di uno stadio gremito, fino a quando stremato non chiese a Luciano di lasciarlo da solo: Ho bisogno di pensare, e lo riaccompagnò nella piazza che era diventata il loro quartiere generale – da sempre, almeno a partire dai sedici anni –, Tanto ci sono gli altri sicuro, ripartì inchiodando al ritmo dei Mobb Deep. Proiettato verso il lungo mare, con i finestrini abbassati, il gomito sporgente e la sola mano sinistra sul volante, accompagnato con sinuosi movimenti degni di un low rider, bighellonava sormontato dalle palme del viale che sembrava lo incorniciassero conferendogli un’aura decorosa, oltre la nuda forma:

Sono un povero esteta

 maestro del piacere, delle regole analfabeta

Che poeta che è Dargen D’Amico, sicuramente il mio rapper preferito di oggi!, e intanto, svoltava per dirigersi a casa di Mastro Geppetto. Lo chiamavano tutti così al mercatino, era lui che riforniva l’ero ai tossici più veterani del giro. Si ripeteva: La soglia di assuefazione è diventata troppo alta, nemmeno la coca purissima mi appaga più: e così anche io avrei fatto il grande salto.

Incominciò a trafiggersi come Henrietta Moraes nel dipinto di Bacon: Sono il modello di una crocefissione al contrario, l’ultimo Gesù prima del ritorno in terra, e verrà quel fottuto giorno, vedrete brutti bastardi, verrà…, Ma il bisogno di farmi cresceva smisuratamente, come una preghiera in cui invochi gli déi ma questi vogliono sempre di più e continuano a chiederti dimostrazioni di devozione assoluta,  fino a quando ti costringono perché strozzato dai debiti e dalla dipendenza a dare via tutti i dischi della collezione di mio padre (Oh Padre Nostro che sei nei cieli, rimetti a noi i nostri peccati…), soltanto per ripagare Mastro Geppetto. Ma questa volta non andrà come volete voi, sarò io a decidere il mio destino, e mi riprenderò tutto quello che ci avete tolto. Ladri, papponi, puttane, sfruttatori di ogni genere, sarò io il vostro diluvio universale: spazzerò via tutto il Male una volta per tutte, lo stesso che orienta le nostre azioni nel mondo e ci fa agire contro la nostra volontà, come diceva San Paolo (Non faccio il bene che voglio ma faccio il male che non voglio!), e ci porta a far soffrire chi vogliamo bene, chi ha dato tutta la sua vita per noi, per farci crescere come Dio comanda, per non farci sentire soli quando sfidiamo la corrente, mentre tutti cospirano contro di noi: sì!, perché il mondo è una grande macchinazione preparata per infliggerci il dolore della perdita. Se qualcuno mi può capire non è certo di qui, sarà in cielo, forse, perché il cielo non è il limite ma la porta che conduce altrove, verso il luogo dove tutti hanno il loro posto, senza spargimenti di sangue, e amarsi un po’ è come bere. Le mie dipendenze sono lo specchio della società in cui sono nato, tutti ne siamo vittime. La differenza sta soltanto in chi ne è consapevole e in chi non lo è, ma la sostanza rimane la stessa, perché mandiamo giù tutto quello che ci propinano, permeabili alle manipolazioni del gusto, senza identità, riflessi di volti sfuggenti che sfumano nella folla alterando i connotati. Avevo letto da qualche parte che la stessa radice della parola persona deriva da maschera, e siccome quelle che indossavano gli antichi greci aveva una unica fessura da cui fuoriusciva il suono, quella apertura faceva sì che la voce uscisse più forte, che si distinguesse insomma. E quindi ciò che rende qualcuno quello che è è la voce, corda vibrante, tesa sul filo del rasoio del mondo, in perenne tensione perché siamo come equilibristi appesi sulla corda in cui camminiamo ogni giorno, sullo sfondo di un grandioso tendone rosso da circo, mentre proviamo lo stesso numero convinti che avremo di fronte, sempre, un pubblico che ci applaudirà e premierà le nostre azioni. La verità, che non esiste (come amava ripetere il mio Professore di Liceo citando Nietzsche), è che viviamo con la sensazione di essere esposti in vetrina, e la merce che esponiamo siamo noi stessi, e quello che indossiamo è il prezzo del nostro status, fotografia impietosa della nostra condizione di indigenti, o di sibariti, ma tutti quanti affacciati sulla voragine dell’abisso che si spalanca sotto i nostri sguardi cianotici, incapaci di leggere oltre l’oscurità del sipario, quello dietro al quale recitiamo tutti i giorni la nostra commedia umana, e non c’è molto altro da sapere… Pace – lasciò questo biglietto sopra il cassetto, di fianco alla scrivania posta vicino al letto. Quando Giancarlo la trovò Michelino era stato già portato in ospedale, disteso sulla barella di ordinanza da una squadra di infermieri e volontari della Croce Rossa accorsi per soccorrerlo. Sul letto, gettata al centro della coperta, come una croce girata al contrario, c’era una siringa, e sul comodino un libro il cui titolo era L’innominabile attuale.

 

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