20 Apr DOMESTICA. Assistere alla violenza
Dialogo con Filippo Bardazzi, Claudia Gori e Margherita Nuti
a cura di Natalia Aggiato
Tutte le mattine iniziavo la giornata mordendo il cuscino. Avevo un gran peso sul cuore, non
ne potevo più. Non mangiavo più. Esistevo, funzionavo. E basta.
Cécile, 22 anni, vittima di violenza assistita.
In Italia si stima che 427.000 minori (fonte: Save the Children), in soli cinque anni, abbiano vissuto la violenza tra le mura domestiche agita nei confronti delle loro mamme, nella quasi totalità dei casi compiuta per mano di un uomo, quasi sempre il padre. Si chiama violenza assistita.
Si apre così, entrando nel vivo, il testo curatoriale della mostra DOMESTICA. Assistere alla violenza, a cura di Sedici e Teatro Metropopolare, realizzata presso il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci dal 24 novembre al 12 dicembre 2021.
La rivista Morel, interessata e sensibile ai temi legati alle questioni di genere, ha trovato particolarmente attuale ed efficace l’impianto della mostra, che dialoga fisicamente con il pubblico e ne favorisce un’autentica immersione sensoriale. La realizzazione si compone di un sistema di pannellature forate, attraverso cui l’occhio dello spettatore può guardare, ma resta nascosto.
Cosa vede? Ambienti domestici borghesi ordinari, ricreati tramite numerose gigantografie. Ma coglie anche dettagli inquietanti, cose che non dovrebbero esserci, o non dovrebbero essere lì. Tutto è immerso nel paesaggio sonoro appositamente studiato e messo in scena dalla regista Livia Gionfrida e dal suo gruppo di lavoro. Un audio che in superficie ricrea i suoni ovattati del quotidiano; e che inserisce una slabbratura, una crepa, un tono che sale, qualcosa che scardina e irrompe a vari livelli di coscienza.
Abbiamo posto agli autori le nostre curiosità.
Alle domande hanno risposto Filippo Bardazzi, Claudia Gori e Margherita Nuti, autore e autrici della mostra, che fanno parte di Sedici, un gruppo di fotograf* e studios* di arti visive che produce e promuove eventi di foto- grafia contemporanea.
Come nasce, in una data tradizionalmente dedicata al tema della violenza di genere, l’idea di questa particolare mostra, che ne esplora un aspetto collaterale e poco rilevato?
La mostra nasce da una specifica richiesta ed esigenza del Centro Antiviolenza La Nara di Prato di raccontare un tema spesso sottaciuto, poco considerato e in qualche modo “laterale” rispetto alla violenza di genere, cioè quello della cosiddetta violenza assistita da parte dei minori. L’aspetto è centrale all’interno del problema ma nonostante questo viene spesso messo da parte perché difficile da raccontare e scomodo da mostrare. Anche noi abbiamo avuto notevoli difficoltà nel trovare una chiave di lettura giusta e appropriata a questa tematica. Abbiamo infine deciso di spostarci da una fotografia più diretta e documentaria verso un’idea di allestimento più esperienziale che comprendesse non soltanto l’immagine statica, ma anche un’azione specifica, un’immedesimazione e un ascolto.
Ricostruire delle scene di violenza, resa in diverse gradazioni, ha richiesto necessariamente una base di informazioni documentate? Se sì, quali?
Purtroppo i testi dedicati alla violenza assistita non sono molti (almeno in Italia) e la maggior parte sono estremamente specialistici. Per questo abbiamo dovuto affidarci a romanzi (auto)biografici che trattassero il tema (su tutti ‘La vergogna‘ di Annie Ernaux) e ad alcuni saggi brevi. Un altro aspetto fondamentale per la costruzione del nostro immaginario legato alla tematica è stato quello di ricercare interviste rilasciate da coloro che hanno subìto o hanno assistito a violenze domestiche per prendere spunti e fare una sorta di brainstorming iniziale.
Il racconto della violenza assistita ha una trama quasi doppia, che riguarda certamente l’azione violenta in sé, ma in primis l’elaborazione che una mente acerba ne fa come spettatrice. Su cosa vi siete focalizzati, e quali intenzioni vi hanno guidato nella vostra messa in opera?
Ciò che ci ha spinto a creare questa mostra è la volontà di suggerire invece che di mostrare. Il confronto si è risolto nel mantenere l’equilibrio fra questo problema enorme (e spesso nascosto) e la difficoltà di raccolta di queste storie, soprattutto fra i minori. Abbiamo cercato quindi di lasciar emergere quelle che immaginiamo essere le loro possibili esperienze attraverso anche alcune manifestazioni visuali (disegni, scritte…) e attraverso un allestimento specifico pensato per il Centro Pecci.
Gli interni convenzionali, i gesti piccoli e grandi, i rumori del quotidiano: non sempre violenza è eclatante. Quand’è che il limite viene superato, e ciò che accade merita il racconto?
La violenza assistita è molto spesso indiretta. Ciò significa che le bambine e i bambini sono testimoni, spesso invisibili, di situazioni dolorose che rimarranno nella loro mente. Tutto ciò a cui assistono, dai piccoli gesti alle violenze fisiche e verbali più esplicite, avrà ripercussioni sulla loro identità e sulle loro vite. È in quest’ottica che il racconto visivo può essere un mezzo per gettare una luce sul tema e per creare consapevolezza. Riconoscere che la violenza si insinua e si svela nel quotidiano e che tale quotidiano può essere uno scenario doloroso non solo nel momento in cui accade, ma anche negli anni a venire.
Inscenare un disvelamento atroce per gli occhi dell’infanzia: la perdita dell’innocenza. In che modo un punto di vista artistico può essere creativo all’interno di un racconto di questo tipo?
In un racconto delicato e importante come questo il linguaggio artistico ha la possibilità e il dovere di fungere da strumento e il fine di arrivare al pubblico. Non è stato facile unire contenuto e forma e farli funzionare in un’ot- tica che fosse anche informativa, visto il tema che andavamo a trattare. La cosa che dall’inizio avevamo chiara è che non volevamo trattare la tematica in maniera troppo esplicita e documentaria, ma volevamo assumere una posizione silenziosa e allo stesso tempo efficace. Con questo intento abbiamo “piegato” le immagini per restituire una sensazione, più che una visione diretta e risolta. In tal senso il punto di vista artistico può essere la chiave per guardare alle cose da un altro punto di vista.
Il lavoro audio in questo contesto ha comportato delle scelte, e di che tipo?
Il lavoro audio è stato ideato e prodotto dalla regista Livia Gionfrida ed il suo ‘ensemble’ Metropopolare. Durante il periodo di ideazione dell’intero progetto abbiamo discusso assieme a Livia Gionfrida e Giulia Aiazzi su come impostare la narrazione, sia visiva che sonora, e ci siamo trovat* allineat* sull’idea di lavorare attorno a rimandi più o meno diretti, ma mai didascalici. La violenza avrebbe dovuto essere percepita ed entrambi i lin- guaggi hanno preso quella direzione per poi ricongiungersi in un unicum che è l’installazione nella sua interezza.
La mostra è stata pensata e sviluppata per favorire un’ipotesi di identificazione, grazie a punti di osservazione privilegiati e di grande impatto. Cosa vi è stato restituito dal pubblico che ha visitato gli spazi?
Abbiamo realizzato delle fotografie di grande formato che hanno per soggetto stanze domestiche comuni come una cucina, un salotto, una camera da letto, all’interno delle quali succede qualcosa, piccoli elementi che riportano l’attenzione sull’esperienza violenta. La visione di questi ambienti è stata celata da dei grandi pannelli dove gli unici punti di osservazione sono stati dei piccoli fori posizionati ad altezza bambin* e che hanno voluto resti- tuire allo spettatore un’identificazione con il mondo dell’infanzia, come protagonista invisibile e impotente tra le pareti della propria casa. Il pubblico che ha visitato la mostra si è prestato a questa visione inusuale ed è stato molto emozionante vedere le tante persone che si inginocchiavano per poter scrutare le fotografie attraverso quei piccoli punti di osservazione privilegiati.
Gli autori, i fotografi e i collettivi coinvolti si erano già confrontati con tematiche delicate? Da questa esperienza è arrivato qualcosa di inatteso, e che è interessante sottolineare?
Possiamo pensare a “Domestica” un po’ come un secondo capitolo di “Non è successo niente”, un progetto foto- grafico che abbiamo realizzato nel 2019 sempre in collaborazione con il Centro Antiviolenza La Nara, e che ha avuto come tema la violenza di genere da un altro punto di vista poco trattato, quello degli uomini maltrattanti. Da queste esperienze è importante sottolineare quanto sia ancora tanta la distanza con cui noi tutti guardiamo alla violenza sulle donne, una distanza che ci rende miopi verso quello che ci accade intorno. La parola violenza ci fa provare rabbia, vergogna, paura, prenderne le distanze è un attimo ed è proprio per colmare questa distanza che l’arte assume un ruolo importante.
Si può ragionare in termini di “utilità della mostra”? Quale può essere il ruolo della catarsi artistica all’interno di questa realizzazione?
La violenza assistita è un mondo sommerso e ci auguriamo che l’esperienza artistica possa essere stata veicolo di formazione, sensibilizzazione e aiuto.
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