10 Mag Un paesaggio di suoni e sogni: “Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi” di Peter Handke
a cura di Grazia Pulvirenti
In ascolto dei suoni. Dei più impercettibili fruscii che si levano dal nulla, dalla vita apparentemente più nascosta, non-appariscente. E lì l’apparire si fa epifania. I luoghi si confondono, si incontrano, collidono in un effimero lampeggiare: la terra della rugiada e quella della siccità, la terra della guerra, la terra della notte. E mille respiri si intrecciano, mille segni, visti e catturati con uno sguardo che vede “l’oltre”, alla ricerca di una introvabile verità. E poi mille immagini, del passato, dell’istante vissuto con sguardo predatore, e pure immagini a venire.
Le annotazioni dei taccuini di Peter Handke, premio Nobel per la letteratura, egregiamente tradotti da Alessandra Iadicicco per Settecolori, con l’efficace titolo Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi, ci fanno penetrare nella zona liminare tra veglia e sogno, tra osservazione di accadimenti impalpabili dello sguardo e dell’udito e le loro ripercussioni interiori. Qui si apre uno spazio infinito dove la forma affiora dall’informe, in quelle ore crepuscolari che, metaforicamente, restituiscono l’intero per frammenti e arabeschi, tracciati non solo con parole, ma con disegni e schizzi che, con la parola, condividono la natura indefinita, volatile ed effimera del segno con cui l’uomo tenta di tracciare il mondo che lo circonda e il suo esserci nel mondo, trasformando ogni suo particolare in un orizzonte di rivelazione. Nei disegni, che sono riprodotti in questo prezioso volume d’arte, trasformando questi taccuini in un “libro delle ore” modernamente miniato, si annida la cifra dello schizzo, che assume durata nel ciclo dell’intera composizione intermediale.
Effimero e durata: ecco i due antipodi che la scrittura – per parole e immagini – tenta di ribaltare in una danza continua, in cui nella notte i pensieri assumono consistenza, eppure recano in sé la traccia della fantasmagoria mentale da cui sembrano provenire. Per assumere durata, contro l’orrore della fretta, della foga, della velocità.
Un tempo lento è questo che caratterizza queste “confessioni”, che a tratti assumono il carattere di vere e proprie meditazioni sull’ascolto e sull’osservazione. E soprattutto la durata, tema di un celebre Canto alla durata (Gedicht an die Dauer), a costituire la coordinata per la creazione di un nuovo panorama della temporalità dilatata, scandita da geroglifici di forme e sogni, sospesi in una linea di canto a volte melodioso, a volte bruscamente dissonante, aspro, sempre denso e teso allo sfondamento del tempo dato a ore, come recita una celebre lirica di un’altra grande voce poetica d’origine austriaca, quella di Ingeborg Bachmann.
Dal fondo affiora una ulteriore linea di canto, quella degli alberi, il noce, il melo, il castagno, che la luce serale proietta sul muro della casa a Chaville: altri segni, quelli delle ombre, che irradiano una propria impercettibile melodia, dove la dimensione acustica s’intreccia al visuale, facendo deflagrare le coordinate di spazio e tempo, causa ed effetto, in una circolarità di forme in divenire, erratiche, sempre volte a cogliere lo scarto del tempo, in una inedita percezione de sé, del qui ed ora.
Il tutto sembra culminare nella ricerca costante e sfinente del senso della parola, quella parola che riesce a volte a trattenere, nell’arco del suo segno, il sogno, e, altre volte, a fare del non senso un significato compiuto, seppur evanescente. Farsi e disfarsi di sogni, visioni, ricordi, sensazioni, in una rigenerata percezione sinestetica e metamorfica dell’essere del mondo: “Il verde intesse, l’azzurro arieggia. E gli ori bianchi del castagno come piramidi del dio del sole” (p. 15)
Forse è lì che sta la durata.
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