08 Ott Onda su onda
di Maria Tronca
Immagine in copertina di Gulyás László
Quando abitavamo ad Agrigento, ci sono stata dai 2 agli 8 anni, i miei avevano un negozio di dischi, elettrodomestici e lampadari. Mi ricordo mia madre, sempre elegantissima, col toupet e gli occhi bistrati, che domandava a chiunque venisse a comprare un 45 giri:
“Desidera ascoltarlo?”
Di solito il cliente diceva di sì, e lei lo estraeva dalla custodia di carta, lo metteva sul giradischi e glielo faceva sentire, dimostrandogli che non era rigato e che il suono era limpido. Ho questa immagine incisa nella memoria e quando ci ripenso provo una nostalgia struggente ma anche un po’ di tristezza, forse perché il lavoro di mia madre mi impediva di godermela tutto il tempo, quando non ero a scuola. Visto che non potevano lasciarci con nessuno, tutti i parenti stavano a Palermo, nel pomeriggio mio fratello e io andavamo al negozio e stavamo nel retrobottega, un bugigattolo adibito a laboratorio per le riparazioni di piccoli elettrodomestici. Ricordo un tavolaccio rettangolare di legno abbastanza basso, con sopra strumenti vari, pinze, cacciaviti, tenagliette, ma anche transistor o valvole di vetro sottilissimo, e carcasse di radio, giradischi e mangiadischi, aperti e smontati, che attendevano di essere riparati. Di fronte al tavolo c’era una televisione e mio fratello e io trascorrevamo gran parte del pomeriggio seduti sul tavolo a guardare la TV dei Ragazzi. In sottofondo, oltre la tenda rossa, che divideva la stanzetta sul retro dal negozio, si sentivano le voci dei clienti e dei miei che, insieme a due impiegati, si occupavano delle vendite. Paolo e io eravamo abbastanza tranquilli, ci divertivamo con i cartoni animati e i telefilm, ma soprattutto non litigavamo quasi mai. Quasi.
Il motivo del regolare bisticcio pomeridiano era il rito della merenda che consisteva in un cono gelato doppio, nel senso che aveva due fori in superficie, e che quindi poteva contenere due gusti. Alle 5 del pomeriggio, mio padre si assentava 10 minuti e ci portava al bar vicino al negozio che aveva una macchinetta erogatrice di gelato. C’erano soltanto due gusti, cioccolato e vaniglia, che venivano fuori da un bocchettone a stella e si adagiavano sui fori del bi-cono, formando due riccioloni cremosissimi e setosi che assomigliavano al turbante di un pascià. Mio fratello e io guardavamo con gli occhi spalancati e l’acquolina in bocca, impazienti di dare la prima leccata. Peccato che durante il tragitto dal bar al negozio, Paolo divorasse quasi tutto il suo gelato con una velocità famelica da record e che il mio, invece, fosse ancora più o meno integro. Una volta rientrati nel piccolo laboratorio, riprendevamo la stessa posizione di prima: seduti sul tavolaccio, di fronte alla TV.
E a quel punto cominciava il mio calvario.
Paolo terminava il suo bi-cono, fagocitando l’ultimo pezzettino di cialda friabile e profumata, e cominciava a fissare il mio profilo, ma soprattutto la manina che reggeva il gelato e che, ogni dieci secondi si sollevava, portandolo alla bocca. Io me ne accorgevo e gli dicevo:
“Smettila, tanto non te ne do, male per te che mangi così veloce, guarda la TV”.
Inutili parole al vento, vano tentativo di evitare quello che, da lì a poco, sarebbe inevitabilmente successo.
“E dai, solo una leccatina, te lo giuro, una sola” diceva lui con la voce lamentosa. Io scuotevo la testolina riccioluta e ribattevo:
“T’ho detto di no!”.
Questa scenetta, con le stesse identiche battute, sembravamo un disco incantato, si ripeteva per una decina di volte, finché lui non tirava fuori il suo asso nella manica. Sempre lo stesso e sempre efficace.
Che poi lo sapevo che lo avrebbe fatto, ormai quel trucchetto lo conoscevo benissimo, ma ci cascavo che una cretina tutte le volte.
Ma com’è possibile?!
Paolo scendeva dal tavolaccio, si inginocchiava davanti a me e piegava le braccia, i gomiti adiacenti al tronco, i palmi delle mani piegati all’ingiù e gli occhi languidi e pietosi, tipo cagnolino ritto sulle zampe posteriori che ti fissa speranzoso, elemosinando un boccone di cibo. Io lo ignoravo, anche se il mio cuore cominciava subito a intenerirsi, però non mollavo, ma soltanto finché lui non cominciava a uggiolare e ad ansimare, tirando fuori la lingua, tipo cane affamato e derelitto.
E a quel punto crollavo come una pera cotta, gli accarezzavo la testa e gli facevo dare una leccatina. O meglio, quello che secondo me sarebbe dovuta essere una leccatina e che si rivelava una leccatona. Morale, Paolo riusciva a trangugiare regolarmente gran parte del mio gelato, lasciandomi quasi a bocca asciutta. E altrettanto regolarmente, io mi mettevo a piangere in sordina e gli dicevo con gli occhi pieni di lacrime e la pancia vuota:
“Glielo diiico… gli… gli… glielo dico a mamma e papààààà… iiihhh… t’accuso… se… se… sei un imbroglioneeee… iiihhh” e giù a piangere lacrime e lacrime amare.
Mia madre, che al posto delle orecchie aveva due antenne paraboliche, anche se ancora non erano state inventate, arrivava con passo spedito nel retrobottega e se la prendeva con me! Mi diceva che ero scema, che non era possibile che ci cascassi tutte le volte, però rimproverava anche lui, intimandogli di non farlo più.
Inutile dirti che il pomeriggio successivo avrei dato gran parte del mio gelato al canuzzo affamato e derelitto che mi fissava con la lingua di fuori e gli occhi languidi.
No Comments