Il baule della Massaia: un omaggio a Paola Masino


di Annachiara Biancardino

 

 

Alcuni libri nascono prima che i tempi siano maturi per riconoscere la paternità di quel che hanno contribuito a generare. Mi pare sia questo il caso, fra gli altri, dell’ultima opera letteraria di Paola Masino, Nascita e morte della massaia. Scritto fra il 1938 e il 1939, pubblicato a puntate in versione censurata sul Tempo, il romanzo vede la luce per la prima volta in un’edizione integrale e unitaria, curata dalla stessa autrice, nel 1945.
Gli anni Quaranta, si sa, sono anni in cui i confini dell’otium letterario vengono invasi prepotentemente dalle questioni politiche. Nel mondo della narrativa si percepisce l’urgenza di affrontare la Storia nelle sue manifestazioni più brutali, di sfidarla guardandola negli occhi. In altre parole, non c’è terreno fertile per mediazioni allegoriche o sguardi obliqui che inseguano le crepe sotterranee del reale. Poco allineato ai gusti del tempo, il romanzo masiniano viene oggi presentato come un classico dimenticato, ma in realtà non fu accolto con particolare calore neanche al momento della sua uscita. Eppure (o, forse, a maggior ragione) il volume merita realmente la riscoperta, così come meriterebbe di essere rivalutata l’intera parabola di Paola Masino, scrittrice poliedrica, giornalista illuminata, intellettuale antifascista,che oggi, per ironia della sorte o della società, è ricordata più per il legame sentimentale con Massimo Bontempelli che per la sua esperienza autoriale.

 


Nascita e morte della massaia è un testo arduo, per molti versi sfuggente, e tuttavia meraviglioso nella sua intensità, nella densità lirica, nell’ironia dissacrante che sconfina a volte nel cinico a volte nel grottesco. Un segno di humour, del resto, è nel progetto narrativo fin dal titolo: la protagonista di cui seguiremo le vicende non è una donna qualsiasi, è la Massaia, incarnazione del prototipo femminile fascista. Ed è infatti destinata a restare anonima fino alla fine del romanzo: nello scontro fra identità personale (a cui sarebbe legato il nome) e ruolo socialmente imposto (Massaia, rigorosamente con l’iniziale maiuscola) vince il secondo senza possibilitàdi combattere, già in premessa. Ed è questo il preludio di una storia che non si incentra tanto sul conflitto quanto sulla sconfitta, o meglio, sulle sconfitte.
Quando la narrazione ha inizio la protagonista è ancora un’adolescente, una “figlia di famiglia” che si rifiuta di uscire dal baule in cui si è autoconfinata e che abita in compagnia di alcuni tozzi di pane muffito, qualche ragnatela e i suoi libri. Ecco il primo elemento interessante: il baule, che si disvela presto nella sua natura di spazio ossimorico, capace al tempo stesso di rinchiudere e rendere liberi. Infatti, se la reclusione viene di norma associata a un’idea di privazione della libertà, in Masino la prospettiva si ribalta: la vera prigionia inizia quando la protagonista abbandona il proprio rifugio per aprirsi al mondo, e di (inevitabile e incontestabile) conseguenza è costretta a sottomettersi alle imposizioni sociali. In sintesi, l’apertura all’Altro si concretizza in una chiusura verso il Sé.

“Che farai quando io non sarò più? Verrà il giorno in cui m’avrai fatta morire di crepacuore; voglio vedere, allora, come te la sbrigherai da sola nella vita”.

“Taci. Taci tu e i tuoi misteri. Sporca sei, niente altro che sporca. Sporca tutta, di corpo e di pensiero”.

Il romanzo si apre nel segno di una classica colpevolizzazione genitoriale. Ma, altro elemento degno di interesse, queste parole vengono pronunciate dalla madre. A dar voce al patriarcato non è il padre della protagonista – il quale, al contrario, è l’unico personaggio che tenta di esercitare sulla Massaia una funzione protettiva e sembra amarla per quel che lei realmente è («Il padre ripeteva: “Lasciatela in pace”») – ma sua madre. È la madre a occuparsi della metamorfosi della figlia “sporca” e ribelle in candido angelo del focolare domestico, è la madre che impone di ritualizzare il passaggio identitario attraverso un ballo (e la valenza simbolica del ricevimento emerge nitida grazie alla comicità a tinte grottesche con cui la penna di Masino dipinge la scena).

“Lo farai?lo farai?” non sapeva più che cosa dire. “Senti, ecco, allora, tu ti farai bella”, la guardò un momento, soprappensiero, “potrai farti bella? Non importa. Meglio che puoi, come vieni vieni, ma pulita. Ci metteremo tutti noi, con tutte le nostre forze ad aiutarti. Ti farò un bel vestito, ti porterò dal parrucchiere, ti laveremo, ti tingeremo; insomma, appena fatta riconoscibile diamo un gran ricevimento, un ballo, vuoi?”

Quel «vuoi?» in chiusura di battuta non è che un riflesso incondizionato, un tributo all’etichetta interiorizzata, di fatto privo di potere: in realtà la Massaia deve affrontare il suo debutto in società, e nell’occasione deve rivestirsi di un’identità costruita secondo canoni maschili di desiderabilità. Non escluderei che il mancato ri-conoscimento reciproco madre-figlia vada associato alla sterilità della Massaia, e ne offra una possibile chiave interpretativa. Se le colpe dei padri ricadono sui figli, quelle delle madri ricadono sulle figlie: dal ballo la Massaia uscirà con un marito, col quale però, per motivazioni ignote, non riuscirà mai a generare un figlio. D’altronde,come può diventare madre chi nello specchio materno non è mai riuscita a mettersi a fuoco?
Al di là del mancato arrivo della prole, la Massaia si rivela all’altezza delle aspettative sociali (e materne), e in pochi anni inizia anzi a essere considerata un modello di virtù muliebre. Ma intimamente continua a sentirsi ancorata a quel che è stata. La bambina del baule si agita nel suo inconscio come un fantasma, e nelle discrepanze fra interiorità e apparenza la protagonista si perde, finendo per diventare estranea a sé stessa.

La Massaia guardava la terra ai piedi dell’alta torre e pensò al proprio corpo bianco, trasparente, dalle ossa leggere. Donde era uscito? Non da sua madre certo, non dal baule e nemmeno dalla sua volontà.

Incapace di riconoscersi, la Massaia prova talvolta a cercarsi negli altri. È quel che accade con gli unici personaggi che vivono ai margini della società, “il ragazzo bruno” e la fanciulla in fuga. Ma anche in questi casi, come già visto a proposito del rapporto con la madre, il processo di rispecchiamento si rivela impossibile.Impossibile per ragioni poco indagate: questi incontri somigliano a enigmi destinati a rimanere insoluti. Il che si sposa molto bene con l’atmosfera generale del romanzo, che si regge tutto non sul proposito di fornire risposte, ma sul desiderio di porre domande difficili, scomode, e tuttavia universali, ancora attualissime. Qual è, per una donna libera, l’alternativa a un baule tutto per sé?

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