Leonora Carrington: in dialogo con Elvira Seminara

a cura di Ginevra Amadio e Ivana Margarese

 

 

Leonora Carrington. Dea della metamorfosi di Elvira Seminara, dedicato alla straordinaria artista, è uno dei bei libri pubblicati da Giulio Perrone per la collana “Mosche d’oro”, che prende nome da un testo di Anna Banti, scrittrice e biografa letteraria di altre donne a sua volta (della pittrice Artemisia Gentileschi, della scrittrice Matilde Serao).
La collana, curata da Nadia Terranova, Viola Lo Moro e Giulia Caminito, si propone di raccontare figure femminili “fastidiose” e difficili come insetti, capaci di sovvertire regole ed essere tuttavia preziose, attraverso la voce di altre donne, dando spazio alla relazione che intercorre tra loro. L’accento è sul legame d’oro, di pregio, che trova spazio nella narrazione intima e romanzata di una donna di un’altra donna, per lei significativa.

 

I.M. Il 2022 è un anno significativo per Leonora Carrington: la Biennale di Venezia le ha reso omaggio intitolando la sua cinquantanovesima edizione come una raccolta di favole per bambini scritte e illustrate dall’artista, Il latte dei sogni, che, nelle parole della curatrice Cecilia Alemani, allude a “un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano”. Tu stessa definisci nel libro Leonora come “autarchica, difforme, debordante. Aliena, trasmigrante”. Non a caso il titolo che hai scelto per il tuo libro è Leonora Carrington. Dea della metamorfosi, un titolo assai significativo anche perché restituisce la dimensione “sacra” o  segreta di Carrington in tutta la sua vitalità, il suo fluire costante e polifonico, la sua tenace capacità di rinnovamento: “Perché non è la società lo spazio evoluto e superiore, ma il creato”. Come sei arrivata a questo titolo?


E.S. La metamorfosi mi sembra il segno – fisico e simbolico – della vita e dell’arte di Leonora. Sin da bambina lei tesse un rapporto immaginifico con gli alberi e gli animali, si sente parte di un universo magico che comprende la casa come il giardino, i familiari e gli stessi riti domestici. Nelle sue tele e nei suoi scritti vivono esseri fiabeschi, insieme umani, animali e celesti, esuli da un altro mondo. Lei stessa si sentiva transfuga, perennemente, da un mondo terreno poco interessante. Per respirare decollava – e si inabissava – coi pennelli.  Sente il suo corpo come un involucro da spezzare, per espandersi in altre dimensioni. Nei momenti più critici si avverte come altro da sé,  si percepisce come una sedia, un albero, una civetta. Così come umanizza – nel pensiero e sulla tela – anche gli oggetti, e mette le scarpe ai piedi della poltrona. In un mondo realmente magico tutto questo accade, non ci sono orli netti e steccati fra una dimensione e un’altra. Non si cammina, si attraversa. Ci si fonde.

I.M. Leonora è dea delle rotture. Ha cominciato da bambina, insofferente all’educazione borghese colma di agi e divieti – inflitti in quanto femmina, artista e altolocata – e non ha smesso più. Spezzare le catene, soprattutto del senso comune, della logica, è la sua vocazione, il gesto più intimo e naturale. Non lo fa per ideologia, o per principio, anzi lei stessa si pro- fessa fuori da ogni scuola, da ogni etichetta. A dirla tutta, anche fuori dal movimento surrealista. Lei è oltre ogni convenzione, e convinzione. Non ha certezze, tranne una: la vita è un rischio prodigioso, di terrificante bellezza. Ma va provata per intero, senza rete di protezione. Guai a mancare la propria vita. Quanto ritrovi in te di Leonora Carrington e a cosa ti sei “affidata” nella scrittura di questo libro?

E.S.Cerco e ritrovo in lei un esempio di libertà, di forza e di fede nel proprio sentire. Un’assoluta coerenza nel rifiuto delle norme e delle convenzioni- stilistiche artistiche sociali familiari. Mi piace il suo essere, in simultanea, bambina e centenaria. Fuori dal tempo, il suo biologico e quello sociale. Sento e capisco, per tutto questo, anche la paura di vivere. Di perdersi, di non sapere più tornare.

I

I.M. Immagino Leonora Carrington come qualcuno capace di coniugare l’essere indomita con una schietta semplicità, testimoniata dal suo costante desiderio di trasformazione, garanzia di un’umiltà che non si appaga di essersi risolta in un’unica forma. Ci sono delle immagini che ritraggono Leonora da cui sei stata particolarmente attratta?

E.S. Mi colpisce il sorriso libero, luminoso, nelle foto con Max Ernst. Che non avrà più senza di lui. Mi commuove il suo sguardo fermo, quasi allucinato, che ha nelle foto successive – quello di chi ha visto cose invisibili o troppo segrete.


I.M. Vorrei parlare della maternità di Leonora Carrington, che come lei stessa racconta, la sconvolge e sorprende, rivelandosi una grande fonte di ispirazione e riaffermando, attraverso il suo corpo, la presenza di una natura unica e piena, che produce vita in ogni direzione. Mi colpisce nella biografia di Leonora la sua capacità di vivere forti passioni, di dichiararle quasi prepotentemente, e al contempo la lucidità che mostra nel lasciarle andare quando dichiara che il passato è passato. Leonora esprime se stessa con fierezza tanto nella sua produzione intellettuale e creativa quanto nella sua dimensione affettiva e passionale. Vorrei una tua considerazione al riguardo.

E.S. La maternità la sorprende perché si rivela, ai suoi occhi, un prodigio, un’azione creativa e trasformativa a partire dal corpo. Il rapporto coi suoi figli  sarà attraversato da questa corrente vitale e fiabesca, inventiva e visionaria. Lei si sente moltiplicata, frazionata e molteplice. La sua capacità artistica ne viene potenziata.

G.A. Il tuo libro procede per immagini, primi piani. Come in un album di famiglia sfogli le figure-chiave della sua vita, gli incontri segnanti e fugaci o ancora i luoghi che contrassegnano la sua storia. Tutto, nell’opera di Leonora, appare in maniera quasi caleidoscopica: mai in ordine, infinitamente rivisitabile. Come è possibile ripercorrere ‘narrativamente’ questa esperienza?

E.S. Ho cercato di seguirla, e raccontarla nel tempo, attraverso le sue tele e i suoi scritti, le testimonianze e le foto. Mi è stato facile, oltre che naturale, per la rispondenza assoluta fra la sua vita e l’ opera, le sue passioni intellettuali e la sua ricerca pittorica. Per la consonanza , infine, fra biografia e mitologia. Fino al suo ultimo giorno Carrington ha cercato di imparare cose nuove, tecniche e nozioni mai provate. Aveva un cervello finissimo, prensile e inarrestabile.

G.A. Parlando di En bas scrivi di ritenere che “mai, fra tutti i testi, diari o romanzi dedicati alla follia, sia stato descritto con tale verità e immediatezza quel sentimento caotico e fusionale dell’io, che avendo perso ogni confine si sente albero, cane, montagna, ruota dell’albero”. In effetti Giù al fondo è un viaggio al termine del dolore, della deprivazione anche sensoriale. È come se Leonora si mettesse in ascolto lasciando implodere le sensazioni, le ferite. Come è stato confrontarsi con questo grumo?

E.S. Come hai intuito non è stato semplice. Il dolore mentale è una materia incandescente, e Leonora lo racconta senza maschera e senza protezione. Ma non per impietosire, o risultare più interessante. Per conoscenza, per testimonianza. Per evolvere e trasformarsi in altro.

G.A. Un incontro indimenticabile, quello con Leonora Carrington. A quali altre donne vorresti dedicare, un giorno, un libro?

E.S. Ho in mente altre donne eccentriche, geniali e sottovalutate, ma aspetto l’incantesimo. Con Carrington nel 2019 è successo così, ci siamo “incontrate” a casa sua, a Città del Messico, in modo magico. Subito dopo ho proposto all’editore questo libro, e quando, tempo dopo, è stata scelta come riferimento e simbolo della Biennale di quest’anno, mi è sembrato un disegno del destino. Tant’e. Come lei credo nei segni, nei sogni e nei disegni. E nelle voci segrete delle cose.

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