Sororità: la questione femminile in ambito teologico

 

a cura di Ivana Margarese 

Immagine di copertina di Eliana Gagliardoni

 

 

 

Cettina Militello, laica, è dottore in Filosofia e in Teologia. Tra le prime ad avere insegnato Teologia. Attualmente dirige l’Istituto Costanza Scelfo (Dipartimento della SIRT) e la cattedra Donna e Cristianesimo alla PFT “Marianum”.
Nel suo saggio Fraternità e sororità. Sfida per la Chiesa e la liturgia, Cittadella Editrice (Assisi 2021) la teologa mostra come Sororità, equivalente femminile della fraternità, è un termine «talmente estraneo al nostro lessico comune da essere indicato come errore nei nostri programmi di scrittura»; ed è «del tutto assente nei documenti conciliari nei quali, invece, fraternità ritorna 26 volte».
Militello si domanda, a partire da attente analisi dei testi, se ignorare il termine sororità o dare per scontato che il maschile abbracci il femminile non potrebbe forse nascondere «il vulnus di una visione misogina che prova a far scomparire le donne in un maschile plurale la cui presunta valenza inclusiva in realtà testimonia, tenace e permanente, l’equivoco di un mondo e di una Chiesa senza donne».
Un’indagine, la sua, che merita di essere conosciuta e approfondita, anche per il coraggio e la tenacia con cui porta avanti le sue ricerche da molti anni.


Ho letto con enorme interesse il suo saggio “Fraternità e sororità”; il tema rappresenta per me un conto in sospeso con la giovane donna che sono stata e la  sua decisione di allontanarsi dalla Chiesa.  Potrebbe parlarmi del suo lungo e articolato percorso in ambito teologico?

Appartengo a una famiglia praticante, quale si ritrovava nelle parrocchie  urbane degli anni 50-60. C’era una convergenza educativa sui temi dell’impegno e della partecipazione. Si respiravano già quei fermenti che avrebbero trovato conferma e sviluppo al Vaticano II. Da sempre mi ha appassionata il tema religioso e da sempre mi sono sentita “Chiesa”. Per questa ragione, mi è sembrato naturale, finiti gli studi di filosofia, cominciare quelli di teologia. Aggiungo che proprio il Vaticano II rese possibile alle donne l’ingresso nelle università ecclesiastiche. Sin lì, i pochissimi laici erano solo maschi. Sono arrivata alla Facoltà di Teologia nel 1968. E credo si capisca anche come questo sia stato il mio ’68. Altri coetanei scelsero l’impegno politico. Della politica ero già delusa, da qui la scelta di orientare la mia inquietudine allo studio della teologia. Intendiamoci, per me era un’area di parcheggio, un  tempo privilegiato grazie a una borsa di studio del Comitato Cattolico Docenti Universitari. Pensavo sì all’Università, ma alla Facoltà di filosofia dove contavo di rientrare. Morì però nel 1972 il professore che mi faceva da garante. Mi fu chiaro che quella porta si era chiusa. E, confesso, non la presi tanto bene. Però, nel frattempo, era sorto a Palermo l’Istituto Teologico San Giovanni Evangelista. Conoscevo diversi del gruppo promotore, anzi da chi lo dirigeva, ero stata incoraggiata a studiare teologia. In aggiunta, tra il ‘72 e il ’73, entrai in rapporto con l’arcivescovo, Salvatore Pappalardo. Insomma una congiuntura, imprevedibile quanto felice, mi portò già nell’anno accademico 1974/75 a insegnare, dapprima nella Scuola di Scienza religiose che era stata annessa all’Istituto e poi all’Istituto stesso. Cominciai con l’Introduzione alla Teologia e con l’Ecclesiologia. Poi fu solo quest’ultimo il mio insegnamento. E divenuto l’Istituto facoltà teologica, nel 1981 fui annoverata tra i suoi 12 docenti stabili. Lì sono rimasta sino al 1989. Nel frattempo, morta una mia allieva della prima ora, Costanza Barberi, ne guidavo l’Istituto a lei titolato organizzandone i Colloqui. Lo spettro della mia ricerca abbracciava così l’ecclesiologia, la questione della donna e dei laici nella Chiesa e anche la mariologia. Infatti, passata a Roma seguitai a insegnare ecclesiologia e mariologia al Marianum, Facoltà presso la quale ho anche, dopo il 2000, diretto la Cattedra “Donna e Cristianesimo”. A questi insegnamenti si è aggiunto quello di Ecclesiologia e Liturgia al Pontificio Istituto Liturgico di Roma, presso cui ho anche promosso corsi e seminari relativi al rapporto ecclesiologia-liturgia-architettura.


Perché non ama molto il termine fratellanza?  Leggerla mi ha ricordato quanto afferma Hannah Arendt nel suo scritto su Lessing, dando valore alla amicizia e alla diversità tra gli amici rispetto al concetto “omologante” di fratellanza.

Non ho niente contro il termine fratellanza, anche se gli preferisco quello di fraternità. L’importante è che non la si declini in modo “neutro”, ma facendo spazio alle donne e dunque parlando di fraternità e sororità. Per come li intendo io, sono sinonimi di amicizia nel senso più nobile e pieno del termine. Sia chiaro, il rischio dell’omologazione c’è sempre e non è legato ai termini, quanto a come li si vive. Certo, non a caso, la “Fratelli tutti” è indicata come “Lettera sulla fraternità e l’amicizia sociale”.

Pur considerando le eccezioni, la fraternità nel Primo Testamento non appare nel segno di una pacifica convivenza. L’ipoteca è costituita dalla predilezione o dalla benedizione/ maledizione del padre, che attraverso di essa trasmette (o no) la nuova potenza al figlio. Il vulnus sta nel sistema gerarchico che concentra solo in uno dei figli eredità, potere e benedizioni. Questo gap che si spinge sino alla schiavitù, ossia all’emarginazione sociale di uno dei figli destinato a restare del tutto subordinato ai fratelli – è il caso di Cam – certamente ci inquieta”. Il rapporto tra fratelli non è raccontato pertanto in termini di parità ma di conflittualità. Lei fa anche riferimento all’adagio popolare “fratelli coltelli”. Questo quadro ha echi nella psicanalisi e in varie interpretazioni psicologiche dei legami familiari ed è un nodo centrarle che va ripensato ancora una volta. Potrebbe dirci qualcosa in merito?

Il punto dolente è il patriarcato, ossia un sistema machista, gerarcologico e fallocratico. Credo sia questo a rendere conflittuali i rapporti intra ed extra familiari. Là dove la questione è l’esercizio e l’ostentazione della potenza, là dove importa che uno solo comandi, là dove le donne sono irrilevanti, tranne che per la loro capacità di generare e proprio per questa stessa vengono schiavizzate, è chiaro che fratellanza e sorellanza sono figure di conflitto, non meno di quanto lo sia la relazione padre-figlio/a o madre-figlia/o. Confesso che dinanzi all’insistenza della galassia LGBT circa il diritto al matrimonio e alla famiglia, mi chiedo sempre: ma che senso ha? Sicuramente nessuno, sino a quando matrimonio e famiglia non usciranno da una flessione patriarcale, e non basta cambiarne i soggetti per ché ciò avvenga.

 


Ildegarda di Bingen, Eloisa, Teresa d’Avila sono tre figure femminili di religiose note per la loro capacità creativa e intellettuale. Ci sono espressioni misogine anche nella loro scrittura? Con quale di queste figure si trova a sentire maggiore affinità?

Come no! La misoginia è un tratto culturale che le donne hanno introiettato e trasmesso. Basta pensare all’adagio delle madri spartane quando porgevano al figlio lo scudo e dicevano enfaticamente “o con questo o sopra di questo”. Orribile, ma costante. Basta pensare alle donne che hanno successo in politica sino ai ruoli apicali. Come già Irene, l’imperatrice bizantina che si faceva chiamare l’imperatore, anche questa ultime, di fatto o espressamente, pretendono d’essere indicate al maschile! Quanto alle tre specialissime donne indicate, delle tre, la più libera da una ipoteca misogina è Ildegarda. Eloisa, che pure rivendica in senso moderno le sue scelte e non se ne pente, fa scrivere al marito ex amante la regola del Paracleto, il monastero dove lui l’ha confinata, ritenendo più conveniente che a scriverla sia un uomo. Teresa d’Avila afferma che le donne hanno un non so che di flaccido e molle, anche se esorta le sue monache ad essere donne forti. Quanto a sentirmele affini, mi piacerebbe la statura di Ildegarda, la sua intelligenza, la sua scienza, la sua profezia. Da Teresa mi sento più lontana perché il suo mondo immaginifico mi spiazza – resto filosofa oltre che teologa!. La mia simpatia va a Eloisa. Me la sento più vicina. Chissà che avrebbe fatto con gli strumenti nostri d’oggi!

È indubbio che Gesù abbia creato una rete amicale con discepoli e discepole. L’ideale amicale è quanto di più prossimo c’è all’utopia della fraternità cristiana?

Sì, parliamo con espressione tecnica della “nuova famiglia” dei discepoli e delle discepole. Qui, come in altri casi, dobbiamo contentarci delle parole che abbiamo (anche padre/madre/figlio/figlia/fratello/sorella ci complicano la vita, ma non ne abbiamo altri per esprimere prossimità relazionali ineludibili e assolute). Ma è chiaro che si tratta di qualcosa di inedito rispetto al lessico familiare tradizionale. Nel vangelo di Giovanni il lessico dell’amicizia ritorna espressamente, ad esempio. Il fatto è che in principio è la relazione. Dio è relazione. Essere a questo mondo ha significato e senso solo a partire dalla relazione.

Gratuità, accoglienza e dialogo si contrappongono a una maniera di pensare e agire che invece si rassicura attraverso gerarchie, etichette, appartenenze ricordando un linguaggio prossimo a quello mafioso, che diciamo di combattere come se fosse qualcosa di astratto o esterno a noi, quando sempre più spesso opera tacitamente intorno a noi. Mi piacerebbe una sua considerazione al riguardo.

Penso d‘avere già chiarito il mio punto di vista. Purtroppo il lemma famiglia si presta a interpretazioni culturali “mafiose” – lo sappiamo. Ma la nuova famiglia dei discepoli e delle discepole è, appunto, segnata da gratuità, accoglienza, riconoscimento delle diversità, discernimento delle doti di ciascuno/a. Il modello è la Trinità, figura complessa che, tuttavia, veicola un circolo relazionale che oltre l’io-tu si apre al terzo non necessitato, gratuito appunto, che è lo Spirito. Lo si confessa nel Simbolo “che è Signore e da la vita”. Ecco senza la gratuità che spezza e apre la presunta necessità binaria, non c’è vita ma solo violenza e sopraffazione.

 

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