08 Gen Roma sotto lo sguardo di William Klein
di Giorgio Galli
Recensione della mostra WILLIAM KLEIN ROMA PLINIO DE MARTIIS, Ex Mattatoio, Roma, aperta fino al 26 febbraio 2023
Il primo dell’anno ho passato un pomeriggio gioioso a una mostra delle fotografie romane di William Klein e Plinio De Martiis. Klein venne a Roma negli anni Cinquanta del Novecento per lavorare con Fellini a Le notti di Cabiria. Del lavoro che doveva fare col regista si concretizzò poco, in realtà, ma il trentenne fotografo americano ebbe la possibilità di girare per la città in compagnia di guide d’eccezione, quali Moravia, Pasolini e lo stesso Fellini. Tutti costoro lo ammiravano, e non è difficile capire perché. Le immagini di Roma negli anni Cinquanta costituiscono un genere a sé nel già variegato universo dell’arte fotografica. Ma quelle di William Klein posseggono una speciale poeticità. La sua Roma è prevalentemente una Roma plebea, la Roma di Pasolini, appunto, e del primo Fellini. Le immagini più vigorose ritraggono corpi di giovani uomini e donne impegnati nell’immane rito di vivere sospesi fra l’immobilità di una morale arcaica e una realtà oggettuale fatta di automobili, motociclette e rotocalchi. Klein coglie insomma il momento iniziale di una trasformazione che porta il proletariato romano da un immobilismo secolare alla vitalità ambigua del consumismo. Emblematica è l’immagine di tre giovani stesi a prendere il sole sulla spiaggia di Ostia, uno dei quali interamente coperto da un giornale -forse si stava bruciando. È una scena che mi ha fatto pensare a Pavese, ai tre giovani amici stesi coi corpi al sole nel Diavolo sulle colline, e in questo senso possiede un’arcaica staticità. Ma il giornale che riveste il corpo di uno dei ragazzi, coi suoi titoloni bene in vista, è anche il simbolo di tempi nuovi, il segno di una nuova dinamicità. Le espressioni dei volti dei ragazzi sono quasi sempre stanche e dure. Il proletariato romano, allo sguardo di Klein, si presenta con delle fattezze quasi torve: è un popolo abituato a tutto e pronto ad assorbire tutto con sonnambolica indifferenza: popolo di persone tarate sulla realtà così com’è, senza aspettative, senza orizzonte di vita. Si potrebbe citare ancora Pavese e dire: il sole nasce che il giorno è già vecchio per loro. Klein individua le ragioni sociali di questa rassegnazione, e sono ragioni sorprendentemente familiari ai nostri tempi: la precarietà degli alloggi e la difficoltà a trovare lavoro. Questi due elementi contribuiscono a un orizzonte di vita scarso di aspettative, a una vita senza progetti di vita. I giovani ritratti da Klein già sopravvivono -pur nella poeticità di un mondo complessivamente più autentico del nostro. Grazie allo sguardo acuto del fotografo, scopriamo la continuità tra l’allora e l’oggi: scopriamo cioè che non v’è frattura tra la Roma volgarissima della contemporaneità e quella degli anni Cinquanta, perché quelle plebi romane, sottoposte all’acculturazione consumista, non potevano dar luogo che alla Roma di oggi.
Non si deve tuttavia credere che lo sguardo di Klein sia quello freddo del sociologo: esso è prima di tutto lo sguardo di un poeta. Fra le sue immagini sono frequenti quelle riprese di notte -penso in particolare a una magnifica comunione notturna al Testaccio. Ebbene, la Roma di Klein è prima di tutto una grande notte -una notte brodosa che tutto mescola e confonde, contribuendo a produrre nel suo popolo un’impressione di già saputo, di già visto. Dinanzi alla forza rappresentativa e alla poetica ferocia del fotografo americano, le immagini di Plinio De Martiis, esposte insieme, appaiono, pur splendide, più fredde e scolastiche. È che lo sguardo di William Klein è, appunto, lo sguardo dei poeti, con in più il privilegio di essere quello di uno straniero, che vede e vive la città come una terra vergine da esplorare. L’esplorazione, oggi, non è una questione di paralleli: è una questione di culture. Il giovane Klein si è calato nella Roma degli anni Cinquanta perché ha saputo calarsi nella sua cultura -aiutato da eccezionali guide locali, certo, ma soprattutto dai suoi stessi occhi. E il fatto forse più sorprendente è che il risultato della sua osservazione non è troppo dissimile da quello di un altro grande straniero che visitò l’Italia ai primi del Novecento, Rudolf Borchardt. La Roma di Klein può anche essere letta come una incandescente metafora dell’Italia intera in un momento critico di trasformazione. Quell’Italia di cui il viaggiatore tedesco scriveva: “Il pregiudizio diffuso a nord delle Alpi che attribuisce agli italiani i titoli gentilizi di tutte insieme le qualità artistiche, della fantasia e della passione, del sangue impetuoso e geniale, della leggerezza e dell’idealità, difficilmente susciterebbe altrove scherno più feroce che tra gli stessi italiani così male intesi, tenaci e calcolatori, freddi, alteri e lucidi figli di una razza rassodata da tempo immemorabile, fine di cervello quanto esplicita, addirittura rude nell’animo, senza più impeto per aver già scontato nell’intimo tutti i sogni, sempre attenta al concreto […] popolo canuto e scettico […] che ha potuto liberarsi solo per metà dal torpore della miseria e dell’oppressione…”
No Comments