02 Mar I am I am I am. Sylvia Plath: un racconto fotografico
a cura di Ivana Margarese
Il progetto fotografico I am, I am, I am, curato da Laura Francesca Di Trapani e organizzata e prodotta dall’associazione onlus Stupendamente, racconta la poetessa Sylvia Plath attraverso gli scatti di Michela Forte e Stefania Romano ed è in mostra a Palermo al Centro Internazionale di Fotografia dei Cantieri Culturali della Zisa fino al 5 marzo.
“Lo spazio e il tempo fotografico sono racconti interiorizzati in cui la luce bianca, i toni onirici sono evocativi di luoghi, di memorie in una corrispondenza tra due forme di poesia e di pensiero – spiega la curatrice – la poesia e la fotografia mostrano, ognuno col proprio linguaggio, la presenza, l’assenza, la parola e l’immagine.
Nelle immagini di Michela Forte e Stefania Romano il reale viene volutamente disfatto per dare spazio alla rappresentazione di luoghi che sono memoria. Memoria di una donna, il cui rapporto con l’esterno si fa opaco, in un tempo che sembra essere fermo, dove nessun suono interrompe il pensiero.
Il senso della presenza, del possibile, si traduce in uno sguardo che riesce a catturarne la bellezza e che silenziosamente custodisce”.
Abbiamo voluto intervistare Laura Francesca Di Trapani su questo interessante progetto.
Comincio col domandarti delle origini di questo progetto fotografico dedicato a una poetessa affascinante e complessa come Sylvia Plath.
Ho sempre amato Sylvia Plath, ma il momento in cui ho deciso di scrivere questo progetto curatoriale è legato senz’altro alla lettura dell’unico suo romanzo La campana di vetro. Mi ha permesso di immergermi totalmente nella vita di questa donna, sfaccettata, complessa ed estremamente contemporanea. È una donna che ha infranto un modello femminile, quello americano degli anni ’50.
Non puoi che farti affascinare da lei, dalla sua vita, dal suo dolore, dai suoi tormenti, ma anche dai momenti di vita quotidiana che descrive nelle sue poesie, anche quel lato diciamo più naif che si individua nei suoi versi.
A questo si aggiunge il mio interesse (nato durante gli anni universitari grazie a un corso di psicoanalisi applicata all’arte) della relazione tra creatività (in tutte le sue forme) e psicoanalisi/psichiatria, oggi consolidata dalla collaborazione con Stupendamente, associazione onlus che parla in maniera diversa di psichiatria ricorrendo a linguaggi altri, quale per l’appunto l’arte.
La Plath è potente, ti sbatte in faccia la sua visione di vita/morte, del suo senso di inadeguatezza, del suo tormento esistenziale e ti fa innamorare della sua maniera di divorare tutto attraverso la scrittura. La fotografia per me ha rappresentato il medium perfetto per questo racconto. Per il legame intrinseco con un altro mezzo espressivo quale la poesia. Per la modalità in cui mostra lo stato delle cose, per il potere di “viaggiare” nel lato oscuro dell’essere umano, per la capacità affascinante di narrazione.
Michela Forte e Stefania Romano: come sei arrivata a scegliere queste due artiste e a immaginare un progetto che si muove nei rimandi e nelle condi-visioni tra donne?
Ho sempre amato collaborare con artiste donne, indagare la creatività sotto questo profilo. Vuoi per appartenenza e quindi per condivisione intima del pensiero, vuoi perché ho sempre creduto nel potere di una certa “sorellanza” che a volte è decisamente carente. Il primo libro pubblicato “Essenza. La vita come l’arte. Ritratti di donne in Sicilia” era un volume dedicato alle artiste siciliane, lo apriva il mio incontro con Letizia Battaglia, ed era fatto di incontri personali, di confidenze, attraverso la narrazione della propria ricerca artistica. Quindi per tornare alla tua domanda, raccontare un personaggio come Sylvia, per me era possibile attraverso una narrazione femminile. Con Michela e Stefania avevo già in precedenza collaborato, e da tempo pensavo di voler cucire un progetto per loro, per metterle di nuovo insieme e per costruire attraverso due ricerche diverse un dialogo attorno lo stesso tema. Così quando ho scritto I’m, I’m, I’m ho pensato immediatamente a coinvolgere loro perché ero certa avrebbero reso il racconto esattamente come lo immaginavo e come volevo arrivasse al pubblico.
Hai scritto che Sylvia Plath aveva un’immaginazione uditiva. Affermazione che ho trovato molto vera e che in qualche modo ben si accorda con le modulazioni lente e le vibrazioni delle fotografie in mostra. Puoi spiegarmi meglio? Grazie!
Leggendo la Plath hai la sensazione fisica di quello che descrive, dei luoghi, delle emozioni che prova in quel preciso momento della sua esistenza, del rumore che quel luogo fa. Per questo “immaginazione uditiva”, perché lei per prima la sente addosso e attraverso la sua immensa capacità di raccontarla la trasmette interamente e con grande intensità a chi, anche a distanza di anni, la legge.
Sylvia Plath e Anne Sexton, due amiche. Come descriveresti la loro amicizia?
Si incontrarono durante un corso di scrittura alla Boston University condotto dal poeta Robert Lowell, Sylvia aveva trent’anni e la Sexton ventisei. Si ritrovano a inseguire lo stesso sogno, quello di essere due poetesse emergenti in una dimensione culturale estremamente maschilista, dove il ruolo della donna era ascritto all’essere madre, moglie e non a inseguire ideali di affermazione personale o a coltivare particolari ambizioni. Unite nella consapevolezza che i colleghi uomini non avrebbero concesso nessun accesso al loro mondo. Durante il corso furono messe insieme a lavorare dallo stesso Lowell che evidentemente vide delle assonanze tra le due, nonostante le apparenti diversità caratteriali: la Sexton viene descritta come una donna disinvolta, ritardataria, alla moda, mentre la Plath era sempre puntuale, ordinata, riservata, silenziosa. Per la società condividevano lo stesso status, erano entrambe sposate, ma entrambe vivevano questo ruolo con convinto rifiuto. Unite in questo profondo lirismo che le ha contraddistinte, hanno entrambe lasciato testimonianza di un dolore profondo sfociato per entrambe nel suicidio, sono state testimoni di una contraddizione tra la vera natura, il bisogno di essere ascoltate e quello che la società si aspettava da loro, nel senso dall’essere donna in quell’epoca. Tutto estremamente attuale se pensiamo senza retorica, ma con una lucidità storica, alla realtà di molte donne oggi costrette a una non vita.
Mi ha colpito il tuo fare riferimento alla volontà di restituire a Sylvia Plath una dimensione orizzontale.
Faccio riferimento a una poesia della Plath del 1961 “Sono verticale”, dove l’incipit è proprio <<Ma preferirei essere orizzontale. Non sono un albero con la radice nel suolo che succhia minerali e amore materno […] >>. E prosegue scrivendo <<In confronto a me, un albero è immortale>>.
Paragona la grandezza di un albero, della natura tutta, alla sua finitezza di essere umano. E conclude con questi versi: <<L’essere distesa mi è più naturale. Allora c’è aperto colloquio tra cielo e me e sarò utile quando sarò distesa per sempre: forse allora gli alberi mi toccheranno e i fiori avranno tempo per me>>. Simbolicamente è un volerle restituire attraverso il nostro racconto quella dimensione in cui essere cullata, a cui potersi abbandonare.
Michel de Certeau nei primi anni Ottanta scrive L’invenzione del quotidiano in cui attribuisce agli oggetti una dimensione intimamente creativa e di resistenza. Qual è stato il lavoro di Stefania Romano con gli oggetti quotidiani di Plath?
Stefania Romano si è sempre mossa in quella dimensione onirica in cui l’oggetto è simbolo. In questo lavoro ha sentito e messo in scena la presenza di questa donna, soprattutto attraverso gli oggetti che descrive e rende “vivi” nei suoi versi. Li ha fatti muovere negli spazi in cui si muoveva la Plath. Creando atmosfere distorte, proprio per la visione della poetessa stessa attraverso la campana di vetro in cui trovava riparo da un esterno che non la comprendeva ma al contempo la soffocava. Gli oggetti ritratti sono il ritmo della sua esistenza, tutta sospesa in una quotidianità apparentemente confortante ma nel profondo inquietante.
Michela Forte muove la sua interpretazione dell’opera di Plath attraverso una dinamica fondamentale per l’immagine ovvero il rapporto tra presenza e assenza. Potresti parlarmene?
La rappresentazione concettuale che contraddistingue la ricerca di Michela Forte è concentrata su una narrazione basata sull’assenza come presenza forte. La Plath non appare, non vi sono neanche i suoi oggetti, le sue memorie, ma sono presenti i suoi tormenti, la sua radiografia dell’anima ritratta in quel vedo non vedo della tenda /garza che si muove al minimo alito di vento. È un’assenza simbolizzata, la cui presenza la ritrovi nei segni violenti, incisi a posteriori sull’immagine stessa, immersa in una luce che degrada raccontando le sfaccettature di un mondo emotivo tormentato.
L’ultima domanda che vorrei farti riguarda i tuoi progetti futuri. A cosa stai lavorando?
Continuo la promozione dell’ultimo libro pubblicato di recente da Serradifalco editore “Max Ferrigno. Mise en scene di un artista dispettoso”, un volume che racchiude la collaborazione con Max esponente della corrente newpop e ne racconta la storia artistica. Libro che per ora abbiamo fatto muovere con la mostra Bad Girl, appena conclusasi al Museo Guttuso a Bagheria e che presto approderà a Casale Monferrato città di origine dell’artista. Oltre questo sto già iniziando a pensare al prossimo progetto editoriale sempre legato al mondo della new pop.
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