17 Mag Archeologia ed elegia: “I clowns” di Federico Fellini
di Giorgio Galli
Non sono mai stato un amante del circo, eppure quando ho letto la sceneggiatura de I clowns di Fellini, a tredici anni, ho capito subito cosa il regista intendesse comunicare, le ragioni -ancestrali- per cui quel mondo aveva esercitato un fascino così profondo, un’influenza così duratura sulla sua poetica. Adesso che di anni ne ho quarantatré e che molte cose nel mondo sono cambiate, rivedo questo film e vi scorgo soprattutto la testimonianza di una serie di universi che non sono più. Quello del cinema, innanzitutto: Fellini mette in scena se stesso mentre gira un film -non più attraverso la mediazione di Mastroianni che interpreta Fellini come in Otto e mezzo, ma proprio inserendo la propria presenza fisica nel film, con un procedimento inaugurato in Block notes di un regista, del 1969, e poi ripreso in Roma (1972) e in Intervista (1987). I clowns è del 1970, è un documentario -si fa per dire- prodotto per la televisione. Una piccola troupe, effetti speciali gestiti con esplosioni di magnesio, un modo di lavorare completamente a misura d’uomo, che non conosceva ancora le possibilità del digitale. L’altro universo che non è più è proprio quello felliniano, oggi che il regista è morto da trent’anni e che sono passati trentatré anni dalla sua ultima pellicola. Il terzo è quello dei clown. Li vediamo già vecchi, nati a fine Ottocento e più che ottantenni, nostalgici di una storia del circo che è stata la storia della loro vita, ma è finita. Il Medrano trasformato in birreria è l’incarnazione della decadenza e morte di un intero mondo artistico. Ed oggi possiamo chiederci se non dobbiamo leggere l’intero film come una metafora della decadenza e morte del mondo artistico tout court, di quello non ancora -o non del tutto- industriale, seriale, managerializzato. Il circo, nel film, rappresenta un modo di fare arte di un’altra epoca, ma oggi è il film stesso a rappresentare un modo di fare arte di un’altra epoca. Le atmosfere cimiteriali, la fotografia basata sulle tinte smorte, tipiche della seconda maniera felliniana dal Satyricon in poi, sono un invito a leggere l’opera come un reperto archeologico che nasce come reperto, che si fa reperto nel momento stesso in cui viene al mondo. È questo lo stato d’animo di Fellini nel mondo post-sessantottino e consumista. Chi lo ha conosciuto ricorda la sua difficoltà, dopo i cinquant’anni, a capire i giovani, il suo sentirsi, dopo i sessanta, un cimelio di un mondo scomparso. Si paragonava a un soldato giapponese rimasto sulle isole a combattere una guerra che non sapeva finita -con la differenza che lui lo sapeva. Credo che Fellini sia stato, dopo Pasolini, l’artista italiano che ha più sofferto sulla propria pelle la mutazione antropologica seguita al boom economico. Quel boom che fece ritrovare lui, uomo del 1920, in un mondo che non riconosceva più. Nel film avvertiamo segnali di impazienza verso i suoi collaboratori e la loro superficialità. Ma avvertiamo soprattutto sottili segnali dell’intenzione del regista di fare de I clowns un film testamentario, una pietra tombale posta su una maniera di accostarsi alla propria arte: di chiudere, insomma, un’era della propria vita. In effetti, le atmosfere clownesche nei film successivi tendono a diradarsi fino a sparire, mentre si accentua il “senso delle ceneri” dell’artista, fino all’esplicito canto di morte di E la nave va (1983) fino alla resa incondizionata a un reale appiattito di Intervista (1987) e La voce della luna (1990). Che Fellini intendesse il fim come un montaliano “piccolo testamento” fu chiaro a Nino Rota, che gli sovrappose una suite di brani tratti dalle colonne sonore precedenti -riascoltiamo frammenti di Otto e mezzo (1963), La dolce vita (1959), Giulietta degli spiriti (1965), e troviamo anticipazioni di temi resi celebri da Amarcord (1974). Forse, se avesse raggiunto l’età dei suoi clowns, il vecchio Fellini si sarebbe sentito esattamente come loro. Ma la sua corsa si è fermata prima, a 73 anni, in un giorno d’ottobre del 1993.
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