03 Feb “Olimpia”: il giardino e un sogno
di Giorgio Galli
Sezione III: Il giardino
Un’atmosfera aurorale avvolge il primo accesso alla città, al giardino in cui nasce la luce:
accedemmo dal fondo
dalla fessura ci sorprese
la luce improvvisa
che gettò su noi
propagandosi dai grappoli d’uva
La luce, e il calore che ne emana, ravvivano la natura in quanto essa se ne appropria. La natura li raccoglie. Ma qualcos’altro la natura racchiude, ed è l’elemento generatore di tutto il paesaggio:
il caldo giallo dei limoni chiuse
in sé il canto delle foglie accese
la terra,
il nome degli alberi
Il nome. La parola poetica è res, non vox. Elemento primigenio e superumano, essa è anche dono divino. È mistero e non segreto, poiché attinge alle cose ultime. Come la luce, è generatrice ed è segno di grazia. È quando la natura s’è impregnata del suo segreto che l’universo intero si anima, e si mette a significare: “camminavano in fila / simulacri”. È la parola a farli camminare: la parola che crea, che non dà solo un nome alle cose, ma dà vita. Eppure dà vita a dei simulacri: non duplica l’esistente, ma crea un universo nuovo, quintessenziale rispetto a quello fenomenico, che lo attraversa senza lasciarsene afferrare. È il mondo della significazione. E allora accade che
il sole […] si piantò
in qualche istante di vita
perché, se Olimpia è sia spazio che tempo, il sole non si ferma in un punto, ma in un istante. E c’è un’altra scoperta che il Giardino ci porta a fare:
il brusco volo della ghiandaia
sul vigneto
scese in quel varco che avevamo aperto
Non è solo il cammino a modificare noi, siamo anche noi ad aver modificato il cammino. Il vigneto che stiamo attraversando è il luogo e il tempo dell’agire trasformatore umano:
sul vigneto le mani alte
nello spazio esiguo l’operosità
la pazienza, il contenuto
Il luogo-tempo del nostro agire ha le caratteristiche di un linguaggio. Anche il linguaggio ci determina, ma viene da noi attraversato, e nell’attraversarlo modificato. Il linguaggio che è res e non vox, che è sostanza e non forma del mondo.
Ora la luce, che prima s’era piantata in un istante, tocca uno ad uno, come un’innamorata, i punti di un corpo vivente. Ne tocca tutti gli istanti, tutta la vita:
ecco la luce, tocca
la tua vita
ogni cellula in luce
È il corpo di lui, della figura maschile generata dalla protagonista del rito nel momento in cui il rito l’ha moltiplicata. Il contrasto tra le due figure è una complementarità: il maschile vive nel tempo, nel mutamento, e lo fa con naturalezza, come testimoniano questi stralci:
ti seguivo nei campi
rapido uscivi dal retro
il vento liscio accorreva alla tana
oppure
non sempre fu possibile scorgerti
nelle braccia del sorgere
o ancora
andasti volgendo ancora
qualche gesto alle ortensie
all’azzurro immaturo
all’inesattezza
La figura di lui si muove nell’alba, ma il suo muoversi non ha il marchio rituale, lo spasmo di quello di lei: è un muoversi lepido: egli fa semplicemente parte della natura. A differenza di lei, egli vive nel relativo. La poesia che racconta il suo gaio correre nell’alba ha per ultimo verso una sola parola: terreno, isolata e corsivata. Perché egli appartiene alla terra. Lei gli dice anche: “Un giorno dall’orto scorgesti il mare”: e il mare è la mutevolezza, quindi il maschile. Il maschile che è movimento, è procedere, è agire. Ma quest’agire ha una funzione deittica: il suo sguardo ci mostra il mare, e nel mostrarlo ce lo rivela, e sembra farlo nascere in quel momento stesso. “Forse fu la mano ad aprire lo sguardo”, dice ancora la voce poetica. L’agire dunque guida la visione. Per essere con la consapevolezza di essere, bisogna passare dall’agire. Dunque il gesto di lui è un deittico creatore. È un gesto anch’esso divino. Il suo muoversi nel relativo è necessario alla trasformazione, egli è necessario alla trasformazione perché vive a contatto coi fenomeni, e la significazione accade grazie ai fenomeni. Ma la sua dimensione non è terrena nel senso comune del termine, è piuttosto ctonia.
Anche Il giardino è concluso da una prosa: Il lago. Il lago che è opposto del mare. “Sul lago conducimi con te” leggevamo nella sezione precedente: e chi diceva “io” era la figura femminile. Qui non c’è più “io”: maschile e femminile camminano insieme. “Quello che di lì a poco sarebbe accaduto lo avremmo ricordato come un transito…” Un transito: se il tempo si concreta in un luogo, qual è il luogo dell’attesa se non quello per cui si transita? Ed entriamo nella quarta sezione.
Sezione IV: Il contrasto tra il divino e il tempo (Un sogno)
Il percorso intrapreso da maschile e femminile ha conosciuto momenti di armonia, ma è destinato a violente lacerazioni. Nel mondo rituale si diviene solo ciò che si è. Non si genera nulla: si scopre. L’atto creatore ha bisogno di lacerare quest’immobilità. È la figura maschile che, nel Giardino, s’è assunta il compito di mostrare una discontinuità nello spazio-tempo, di introdurre un movimento e un divenire. Ma questo divenire s’è tradotto nel mostrare all’essere qualcosa che lo aiutava a perfezionarsi. Non è un atto creativo in senso pieno. La creazione non appartiene a nessuna delle due figure: si compie attraverso entrambe.
Il Sogno ci mostra una lotta tra forze pure. Potrebbe essere il tempo di Urano, Crono, Zeus. Siamo in un brodo primordiale:
ritornammo dove eravamo
solo il nome tremato
L’identità è più incerta, la parola meno assertiva. Stiamo attraversando l’uovo cosmico coscienti di tutto il percorso da cui siamo venuti.
lo spazio fu questo sprofondare
in un tempo in cui furono solo
il saccheggio e la voce
Siamo tornati all’inizio del rito, quando dallo spogliarsi, dal lasciarsi depredare era rimasta la voce. Ma il “tornare all’inizio” non ha il senso di un’analessi. Lo spazio che stiamo sognando è quello della storia degli stili; ma questa storia ha deposto ogni carattere diacronico, e si rivela nell’abbacinante sincronia degli elementi depositati come patrimonio comune dell’umanità. L’universo di Olimpia, l’universo del mistero, è concreto; la storia invece è una costruzione del pensiero, implica rapporti logici, un prima ed un poi. Olimpia azzera questi nessi, e guarda all’evidenza di ciò che, della storia, rimane: le opere sincronicamente allineate come in un’enorme biblioteca fossile.
l’uno al cospetto dell’altro
l’uno l’altro assaltava
trasportato nell’enorme radice
nella forza di ciò che era voragine
rotolò giù come massa informe
si lacerava e ricacciava
più dentro si accovacciava
La storia (sincronica) degli stili è l'”enorme radice” e la sua forza può trascinare nella voragine: si può venire annientati dall’attività estetica. È uno spazio psichico che non si può abitare da soli. La poesia è sempre oggettiva, quindi è sempre altra, e con l’altro non può essere che lotta. Il suo passaggio è un passaggio che ci modifica irreparabilmente.
quando si smorzarono intorno
in tutta la loro tristezza
le forme perdute irradiarono
una luce profonda
dal basso saliva verso l’alto
Tutto è visto a partire dalla morte in Olimpia: tutti i rapporti sono appiattiti dalla visuale tanatocentrica scelta dall’autrice. È importante essere consapevoli che questa visuale è scelta. La poetica di Luigia Sorrentino non è nichilista. L’assunzione di questa prospettiva ha un preciso valore, che scopriremo nel compiersi del percorso.
Della luce, stavolta, non ci vien detto che le cose viventi se ne appropriano, ma che scaturisce dalle forme. L’elemento generatore è al tempo stesso generato. L’opera dell’ingegno estetico è frutto di vita ma è anche generatrice di vita. Le forme, a loro volta, sono sottoposte all’azione del tempo. I versi che seguono ricordano gli orologi disciolti di Dalì, o certi inizi allucinati di film di Bergman. È il tempo che si trasforma in spazio e oggetti:
lunga la chioma si depositò
in quel fondo nero che attutiva la luce
niente più era riconoscibile
nei nostri occhi slittarono forme
vagavano, una si allungava seguendo
poi già tornava con estenuante
mitezza, si voltava verso
l’ingresso che era qui, la mano
in alto levava disperdendo il pianto
per entrare in noi come acqua
che sgorgavalambita dalla mano
il suo essere solo la domanda
è quella la porta?
Cos’è, dov’è la porta? Possiamo chiedercelo e forse non lo sapremo mai. Quel che dobbiamo sapere è che noi non siamo altro che questo interrogarci sulla porta.
È a questo punto che inizia la sequenza più sconvolgente. Lei-Olimpia, è anche una fonte. Dalla fonte scaturisce acqua. Anzi, la fonte si identifica con l’acqua che ne sorge. Lei “sapeva tutto”, dice la voce, perché stava compresa fra “radice” e “fine”, e la fine altro non è che la sua chioma, la chioma che avvolge il suo volto. Quel volto, il volto della fonte, è “inaudito”. Ella si trova nello stato di pienezza -immota- di chi è avvolto dalla coscienza di quel nulla che racchiude ogni esistenza. Il dio le entra dentro, irrompe nella fonte chiamando a raccolta “tutti i fiumi” perché gli diano il massimo vigore. La fonte è annientata. Cosa resta dopo questo orrore (un orrore generatore, un sacrificio rituale)? Resta, un’altra volta, la voce. La voce che chiama, che consegna la conoscenza di creatura in creatura, che tramanda il racconto dell’orrore accaduto.
“Qui visse la donna”, conclude lapidaria la voce. Il sacrificio è compiuto. Tutto il vivente è stato spezzato. “Oltre la soglia l’umano era deposto”. La morente, la trasformata, Olimpia, la fonte, sono morte. “Perché hai fatto questo?” è la domanda che resta.
Dopo un simile avvenimento, lo spazio si zittisce. Non resta del tutto immoto: si accenna alla presenza di un “piano mobile”, segno che la lacerazione non ha distrutto tutto, segno che il rituale dura ancora. Ma cosa sia questo piano mobile, quanto lontano sia, non è detto. Sembra che il tempo e lo spazio siano sbigottiti, il piano mobile somiglia a un moto tremato di labbra interdette. Ogni presenza vive del terrore della lacerazione. Nulla è rimasto indenne al sopruso del dio. Ma questo sconvolgimento è lo stesso che la poesia induce nel nostro spazio psichico:
fu allora che sollevandoci vedemmo
la fiamma, bruciava essenze
di fiori, nell’urna
rispondendo a una domanda antichissima
unendo alla radice due opposti
cospargeva di potenza attiva tutto intorno
e questo tutto era precisamente
il volto aperto della specie umana
lì dove sedendo vibra dall’interno
altro preparando su questa terra
Questa descrizione calza sia al morire che al poetare. Il verso si dilata un po’, ma non si placa, anzi c’è una tensione in avanti continuamente ritardata dall’uso dei gerundi e degli enjambements. Ma è alla prosa finale che spetta il compito di trarre le conclusioni. La prosa è la sosta nel cammino, il momento del pensiero arricchito dal cammino. E il pensiero che questa prosa ci tramanda è che la donna-Olimpia-la dea è la poesia stessa, che la poesia è vita che parla oltre la vita, che si rivolge (offrendo la propria carne e le proprie viscere) non al tempo, ma a tutti i tempi.
(Le immagini di questo articolo e degli altri che seguiranno sono costituite da dipinti del pittore svizzero Arnold Böcklin)
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