29 Feb L’irrinunciabile. Alla radice dei bisogni. In dialogo con Chiara Zamboni
a cura di Ivana Margarese
Immagine di copertina Eva Gonzalès, Le chignon (1865-1870 circa); olio su tela, 51×40 cm, collezione privata
Nell’introduzione a L’irrinunciabile. Alla radice dei bisogni, lei scrive che questo libro risponde, a partire dalla recente esperienza della pandemia, alla necessità di “fare pensiero” e come da questa necessità abbia preso forma la mossa simbolica che lo guida. Riflessione in cui ho avvertito un richiamo alla radice della parola simbolo e alle sue potenzialità trasformative nella relazione con gli altri. Mi piacerebbe chiederle di soffermarsi su questo “fare pensiero”.
R. “Fare pensiero” è qualcosa di essenziale per vivere, altrimenti siamo presi dal flusso dell’esistenza e tutto se ne va nello scorrere del tempo su una linea di superficie. “Fare pensiero” significa saper esprimere a partire dall’esperienza quel che è più usuale ma anche più enigmatico che il vissuto porta con sé, che sentiamo sottrarsi ailinguaggi dominanti che interpretano in modo egemonico la realtà nostra e altrui.
L’esperienza che viviamo soggettivamente non è mai veramente solo soggettiva. Siamo in relazione con le altre, gli altri, i contesti, i luoghi. Parlando del nostro vissuto e sapendo esprimerlo con verità, diciamo qualcosa di essenziale che gli altri e il contesto sperimentano, anche se lo diciamo a partire dal nostro vivere contingente. Dalla posizione che siamo e abbiamo.
Scommettere sulla parte viva della nostra esperienza che sentiamo non interpretabile dai codici correnti è stata una mossa fondamentale del femminismo che ha così trovato una via per esprimere passioni, amori, sofferenze, desideri non inclusi e non addomesticati dai linguaggi dati. “Fare pensiero” in questo senso è una mossa politica. Accompagna la realtà e contemporaneamente entra in conflitto con i codici dominanti.
La tessitura simbolica è fondamentale perché sa gettare ponti tra parti diverse della realtà nostra e altrui e ci pone in un processo in divenire. Schiude un nuovo sguardo sul mondo che avvertiamo come un nuovo inizio, e che dunque ci indica un cammino, che siamo noi a creare e che contemporaneamente scopriamo nella realtà.
Nel testo si parla di bisogni e ampio spazio viene dedicato al rapporto con il desiderio e con il piacere. Da che cosa nasce questa attenzione?
R. Inizio a spiegarmi a ritroso, dal versante opposto. Considero infatti il legame tra bisogno, piacere e desiderio in contrasto con una certa concezione politica dell’esistenza, che nega questa connessione. Mi riferisco a quella visione per la quale il bisogno rappresenta un’area di esperienza del tutto diversa da quella del desiderio. Chi separa nettamente bisogni del corpo da desiderio in realtà oppone il corpo – oggettivandolo – all’anima – spiritualizzandola. C’è un’argomentazione ricorrente in questa posizione, che è quella per la quale occorre soddisfare i bisogni del corpo, affinché poi – e soltanto poi – si possa seguire il movimento del desiderio. La critica che porto a questa posizione – una critica che condivido con altre – è che in questo modo non si passerà mai al movimento del desiderio perché il tempo della soddisfazione dei bisogni non si conclude, in quanto un bisogno viene sì soddisfatto, ma poi riappare in modo ripetitivo. E così via sempre di nuovo.
La posizione delle compagne di Diotima che hanno scritto L’irrinunciabile. Alla radice dei bisogni è un’altra: i bisogni sono attraversati da un movimento desiderante. Mi baso per dire questo su quell’esperienza che abbiamo vissuto nell’infanzia quando nostra madre, o una persona che ne ha fatto le veci, ha soddisfatto i nostri bisogni, in un momento di massima dipendenza da parte nostra, accompagnando con le parole questi gesti di accudimento. Le parole della madre hanno espresso desiderio nei confronti della creatura, slancio comunicativo, sogni ad occhi aperti in rapporto alla creatura. La bambina e il bambino si appoggiano su queste parole e immagini per entrare nel circuito comunicativo che porta con sé il movimento desiderante.
Diverso eppure vicino è il bisogno di sentir piacere, che è presente nel libro. È un tema che mi sta molto a cuore perché è un cardine portante del femminismo. Per le donne non c’è libertà se non c’è piacere in cui si è coinvolte con tutto il corpo, con tutte se stesse. Tenere uniti sapere a piacere, agire e piacere è misura del nostro essere presenti in una situazione. Di “esserci”. Se il piacere manca, vuol dire che qualcosa si è messo di traverso. A lungo andare ci alieniamo a noi stesse.
Al momento sto approfondendo il pensiero di Anna Maria Ortese, anche all’interno dell’ambito della mia professione, ovvero l’educazione. E proprio a Ortese e alla sua visione del nostro Corpo celeste lei ha dedicato una profonda riflessione nel suo bel saggio Sentire e scrivere la natura, edito da Mimesis nel 2020.
Che connessione c’è tra i bisogni degli esseri umani e quelli di tutti gli esseri viventi e non viventi?
Corpo celeste è un libro assoluto. Mi è particolarmente caro. Il punto essenziale è quando Ortese scrive che gli esseri viventi e non viventi sono sorelle e fratelli nostri e questo perché partecipiamo – ognuno a suo modo – del Corpo della Terra. È amore nella forma di agape: tutti mangiamo e beviamo del corpo della Terra come i cristiani bevono e mangiano il corpo di Cristo. Abbiamo dunque mille legami con gli esseri, che sono molteplici. Eppure allo stesso tempo ogni essere è in sé stesso insondabile e luminoso, come è insondabile e luminosa la Terra. La scrittura permette di fare spazio alla luce espressiva che emana da ogni essere. Occorre allo stesso tempo una ecologia delle parole perché vi sia una vera ecologia delle creature.
La connessione tra i bisogni umani e quelli delle creature ha come presupposto quello che ho appena detto. L’approfondisce ulteriormente Caterina Diotto nel suo saggio Orientarsi con l’eco nel libro di Diotima, quando parla di bisogni soggettivi che vengono misurati nella loro giustezza dalla risonanza che hanno con gli altri esseri. Tener conto del luogo dove si vive ci fa sentire quando un nostro bisogno può risultare nocivo per l’ambiente e quando invece va in sintonia con esso. Porto un esempio. Il lasciar a riposo una percentuale più ampia di terreni agricoli affinché si rinnovi la fauna, gli insetti impollinatori e i sali minerali fertilizzanti del terreno va contro il bisogno di avere prezzi più bassi di verdure, di grano e dunque di pane sul mercato. Ma il bisogno di spendere meno e di guadagnare di più non tiene conto del benessere generale dei campi. È un benessere dei campi che frutterà molto più avanti anche sul piano del guadagno e non solo del vivere degli esseri tutti. È una misura, che tiene conto di tutti i soggetti implicati – viventi e non viventi – e che prende in considerazione una evoluzione nel lungo periodo e non si riduce a calcolare solo il guadagno umano immediato.
Emily Dickinson in una poesia scrive che la pace è insegnata dai suoi racconti di battaglie. Lei, all’interno dell’introduzione al saggio, fa riferimento alla guerra tra Russia e Ucraina incominciata nel febbraio 2022 e alle brevi annotazioni in proposito aggiunte a fine scrittura, dal momento che il seminario si è concluso prima dell’inizio della guerra: “Comunque le guerre, che così crudelmente ci pongono davanti ai bisogni primari, sono indirettamente un insegnamento doloroso di ciò che è essenziale per la vita umana e non umana e ci riportano alla radice materna del vivente, che nei conflitti armati viene non solo perduta, ma disprezzata”.
Mi sembra un punto importante da ascoltare.
Che le guerre distruggano la radice materna del vivente si può dire con un luogo comune, che ho visto circolare all’inizio della guerra della Russia contro l’Ucraina: quanto tempo per una madre far crescere il figlio e quanto poco tempo per i generali mandarlo in guerra a morire. La guerra è una impresa basata su strutture simboliche patriarcali. Si pensi che è voluta da uomini vecchi, o comunque di potere, che mandano a morire migliaia e migliaia di uomini giovani. Questa vis distruttiva è tale che nessun vantaggio simbolico o economico può dare un fondamento ad una guerra di attacco. Gli storici e gli economisti trovano motivi razionali alla guerra: il di più di potere, la maggiore ricchezza di una nazione, e così via. Ma la quantità di distruzione di vite umane, di vite animali, di case, terreni agricoli, piante, beni industriali è tale che manca di un motivo accettabile. La distruzione di vite e di beni è così forte che non pareggia mai i vantaggi economici. Si sa che un paese che provoca una guerra si impoverisce. Almeno che non si voglia far riferimento – cercando un motivo – alla lettura di Hegel nella Fenomenologia dello spirito che è un modo degli uomini di potere per mostrare ai giovani maschi che non sono liberi e che non possono fare alleanza con le donne.
Se penso alla guerra in corso tra Hamas e Netanyau, tra i capi della Palestina e i capi di Israele, emerge ancora di più come la guerra sia distruzione della radice materna del vivente. Corpi di giovani e donne violentati e non solo uccisi, gente obbligata a perdere il luogo, la casa, gli animali domestici, il piccolo fico di fronte alla casa. La distruzione di cose è contemporaneamente la trasformazione di questo amore in nostalgia, abbandono. Lutto. Se pensiamo alla matrice materna del vivente, ci rendiamo conto che le cose distrutte o che dobbiamo abbandonare – il tavolo, la lampada, il fico fuori dalla finestra – sono pegni d’amore, che creano il tessuto di un luogo, di un ambiente. Abbiamo bisogno di un ambiente per vivere e mantenere lo slancio aperto al divenire.
Mi ha molto colpita il suo appello ad andare oltre la sequenza meccanica bisogno-soddisfazione per osservare e vivere il potenziale creativo e generativo dei bisogni. Come insegnante cerco di valorizzare il percorso creativo degli studenti e mi impegno a non portare avanti la “politica” dell’unica risposta esatta. Il soffermarsi su questa dimensione del contatto con sé stessi e la capacità di esporsi permettono di avere accesso a un vivere più consapevole e aperto all’etica delle relazioni. Mi piacerebbe una sua riflessione al riguardo.
R. Sottrarsi alla visione per cui noi – come esseri umani – saremmo all’interno della sequenza meccanica “bisogno e soddisfazione del bisogno” permette di slargare il tempo dell’esperienza del bisogno. Fare attenzione. Allora possiamo leggere quel che ci succede in una situazione di bisogno, vederne l’esperienza come un processo complesso. Possiamo avvertire con più profondità ciò da cui nasce il bisogno e a quali vie trasformative ci porta. Come e in che senso è accompagnato da parole desideranti.
Se lo soddisfiamo e basta – senza pensiero -, non diventa una forma di conoscenza di noi e delle nostre relazioni con il mondo che condividiamo con altri. Non abbiamo il tempo per comprendere lo slancio vitale che lo accompagna, che ci riunisce alle radici della vita.
Di frequente sono le azioni creative che permettono di cogliere la forza generativa dei bisogni. Per questo trovo interessante l’analogia che lei pone con l’esperienza dell’insegnamento. Sottrarsi al meccanismo, per cui ad una domanda c’è soltanto una risposta esatta, apre l’attenzione sui processi molteplici e creativi della cultura umana. Sulle vie trasformative che essa implica e che porta ad un diverso rapporto tra sé e sé e gli altri. Ma, ovviamente, per fare questo occorre molta esattezza nel seguirne il processo e saperlo mettere in parola.
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