28 Mar Paola Silvia Dolci, “abstine substine”: il lutto come decostruzione
di Giorgio Galli
Dolore non ne è mai mancato, nella produzione letteraria di Paola Silvia Dolci: basti pensare che Diario del sonno origina da note scritte per lo psicoterapeuta in un periodo di perdita del controllo sugli impulsi; ma non è mai stato un dolore protagonista: c’erano sempre la vitalità e l’ironia, i travestimenti onirici e l’iperproduzione immaginativa a temperare il peso della sofferenza, che affiorava soltanto dalle pieghe della scrittura, in fiocinate espressive cariche di senso. Qui in abstine substine (pièdimosca, 2023), invece, sia il contenuto che l’occasione generatrice non lasciano adito a dubbi: è il libro della malattia e morte del padre della scrittrice: un padre a malapena conosciuto, se s’intende per conosciuto l’averci stabilito un contatto umano autentico. A Paola Silvia Dolci questo contatto non è stato possibile, perché le vicende famigliari le hanno impedito di creare con lui un vero rapporto.
Da persona che ha perso il padre presto, e che per anni non ha potuto davvero conoscerlo a causa dei dissapori famigliari, non ho avuto difficoltà a riconoscermi nelle pagine dell’autrice cremonese; ho difficoltà, piuttosto, a scriverne, a farne un commento puramente letterario oltre che umano. Ma, se la parola di una scrittrice provoca un’adesione e un riconoscersi, vuol dire che anche l’intento letterario è riuscito, che la sofferenza ha trovato la forma migliore in cui esprimersi; altrimenti, risulterebbe incomunicabile.
Se pensiamo al Diario di un dolore di C. S. Lewis, trenodia filosofica e teologica scatenata dalla morte della moglie, non potremmo essere più lontani dal mondo di abstine substine: che è mondo privo di orizzonte teologico e teleologico, privo di riflessione filosofica, colmo invece di un’accumulazione materica -tipica della scrittura di PSD- che mette a nudo il senso di ostilità esperito dalla persona in lutto, l’incomunicabilità dell’esperienza luttuosa, il groviglio -ormai destinato a restare tale- di sentimenti contrastanti lasciati da un rapporto mai vissuto. L’autrice dà un’ulteriore prova della spietata sincerità che caratterizzava Diario del sonno: poche affermazioni potrebbero essere più dirette di “Se all’improvviso, per inatteso regalo, mia madre morisse”; di “Sono fuori luogo, e non sono la benvenuta. Io non faccio parte di quella famiglia. Oppure sì, io faccio parte di quella famiglia come elemento di rottura”; o di “I due lupi che combattono nel mio cuore. Quello arrabbiato, violento e vendicativo, e l’altro, pieno di amore e compassione. Più cerco di nutrire quello bianco, più quello nero lo vuole sbranare”; o, ancora, di “La tomba scoperchiata di papà. Lui avrebbe pagato per il mio funerale? Forse. Non aveva più voluto vedermi da quando si era ammalato. Ora lui è morto, e mia madre è viva”. Paola Silvia Dolci non mente sul desiderio di vendetta, sulla diminuzione di umanità associata all’esperienza del dolore. Che il dolore migliori e affratelli è pura retorica: il dolore sparge sale sulle ferite, divide. E, al tempo stesso, individua. Non riconosciamo mai noi stessi come nell’esperienza del dolore.
“Forse sono diventata una scrittrice solo per denunciare”, avverte l’io narrante del libro. E in effetti abstine substine somiglia a tratti a una requisitoria. Nessuna comunione con gli altri è possibile: “Regola numero uno, non si chiede come stai a chi abbia subito un lutto, regola numero due, non si raccontano i propri lutti, anch’io ho avuto un lutto, so cosa stai provando, se succedesse a me”; “Magritte, alla morte della madre Regina, suicida affogata nella Sambre: allora quattordicenne, fu presente al momento del ritrovamento del cadavere, il cui volto era coperto da un lembo del vestito mentre usciva dall’acqua. Gli uomini e le donne dei suoi quadri hanno il volto coperto, la solitudine e la paura di esprimere il proprio dolore”; “Non voglio sentire nessuno, non voglio vedere nessuno, mi aiuto da sola, perché i vostri tentativi di aiuto la maggior parte delle volte sono sempre e solo richieste”; “Sempre, se penso alla morte, ho paura della solitudine. Posso capire il motivo per cui in molte culture sia il cane ad accompagnare i defunti nell’Oltretomba”.
La mancanza d’orizzonti è totale: “Non esiste alcun disegno nel fato. Solo la natura che si rinnova, e la ruota della fortuna”. L’alienazione la fa da padrona: “Come si costruisce un rapporto con la terra, dottore?”; “La realtà, oltre che realtà, è apparenza, e perciò illusione”; “Non, desideri. i desideri non si avverano mai. Da oggi, I desideri non si avvereranno più”.
Il passato ritorna: è un passato ostile, con cui bisogna fare i conti: “Epifenomeni della morte: vecchie iene e avvoltoi, che provano a rientrare nella mia vita, sperando che abbia abbassato la guardia”; “Non gli era interessato conoscermi, però mi aveva dato le briciole. Era papà, quindi erano tutti gli altri uomini. Le ultime parole che gli avevo detto erano state grazie, grazie. Ma grazie di cose, che si era rifiutato di vedermi negli ultimi mesi di vita. Ma vaffanculo, avrei dovuto dirgli. Gli avevo detto, se vuoi ti porto via di qui. E invece, ben ti sta che sei crepato da solo, di notte, in un ospedale qualsiasi”.
L’interrogativo esistenziale e morale è tutto concretizzato nel microcosmo delle relazioni tessute attorno al morto: “”… se sia meglio vivere come ha fatto mio padre, facendosi usare e maltrattare, o come vive mia madre, sfruttando e maltrattando chiunque”.
Ma il punto più decisivo è che la scoperta della morte è scoperta anche della propria mortalità: “Allora, la morte esiste davvero”; “Prima ero immortale, adesso ho paura”. Questa scoperta cambia tutta la meccanica interiore: “Nessuno vuole morire. Ma tu morirai. La domanda è come. Quanto dovrai soffrire. Per quanto tempo. E se ne vale la pena”.
Non è un cammino coerente, quello di abstine substine, non c’è un’evoluzione lineare nei sentimenti e nelle riflessioni che esprime: c’è la loro coesistenza, e il lettore deve orientarsi al suo interno per trovare un proprio percorso di uscita dal dolore. Paola Silvia Dolci è ben lontana dall’offrire soluzioni, non ci concede il lusso di una morale finale, e nemmeno di una trasfigurazione della materia ribollente di cui è fatto il libro. Il suo universo è troppo laico perché vi sia redenzione. Quello che scopriamo, tra le pagine, è che la scoperta della propria mortalità che segue alla morte del padre permette di scoprire una nuova, più rassegnata possibilità di affratellamento all’esistente, un disincantato radicamento nella vita: “Guarire le ferite e dimenticare le vecchie offese: chiedo scusa a tutti coloro che ho davvero ferito, e perdono chi si è approfittato di me”; “Penso al muso della vacca che colpisce il vitello appena nato, che si mette in piedi. Sei nato, stai in piedi, vai. Ti amo, vai”; “Come sopportare anche la morte degli animali? Io aprirò sempre la mia casa agli animali feriti”; “Nell’assemblea dei vivi e dei morti: io amo essere viva in un modo fortissimo, papà”.
Anna Achmatova, come ricordato da un recente libro di Paolo Nori, diceva di sé “Vi avverto che vivo per l’ultima volta”. Se pensassimo che tutti viviamo per l’ultima volta, forse saremmo meno coglioni, chiosa Paolo Nori. Se qualcosa si ricava, dall’esperienza del lutto, è che saremmo più indulgenti gli uni con gli altri se ciascuno si fermasse a considerare che siamo tutti condannati a morte. Ma nemmeno questa è una soluzione. La verità è che non ci sono soluzioni e che questo libro, come la vita stessa, non ne ha. Anzi, affidandoci -con la solita spavalda toccante sincerità- se stessa in lutto, Paola Silvia Dolci chiede più che mai la collaborazione attiva di noi lettori alla costruzione del senso del libro. abstine substine funziona come certe partiture d’avanguardia in cui l’ordine delle pagine è intercambiabile e agli esecutori è chiesto non solo di fornirci la loro interpretazione, ma anche la loro ricostruzione. Mostrandosi a pezzi, la scrittrice chiede a noi di ricostruirne l’immagine intera.
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