15 Apr Dove la luce non pesa. Su “La stagione accanto” di Rossella Caleca.
di Patrizia Sardisco
Immagini di Lia Pasqualino Noto
fuggo la luce abbagliante dell’accadere quotidiano
e mi riparo nell’incerto rifugio della durata
Peter Handke
Pubblicato alla fine del 2021 per i tipi di Samuele Editore nella Collana Scilla, La stagione accanto è il libro dell’esordio poetico della scrittrice siciliana Rossella Caleca, già autrice di racconti oltre che di saggi e articoli inerenti la propria sfera lavorativa (Caleca è sociologa presso il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASP di Palermo) o legati ai propri interessi di intellettuale che la vedono impegnata, tra l’altro, nel direttivo della Società Italiana delle Letterate.
La stagione accanto è una raccolta che contiene testi scritti in tempi diversi anche lontani dalla data di pubblicazione. Essa è suddivisa in tre sezioni tutte dotate di un titolo, così come lo sono i singoli testi, i quali si caratterizzano per la misura breve e per la verificazione prevalentemente libera che ricerca musicalità in delicate allitterazioni e assonanze, in sobrie rime interne, e nella costruzione di oculate anastrofi e anafore. È una poesia, quella di Caleca, che palesa lunghe meditazioni e solide letture le quali si avvertono chiare in alcune note che si direbbero montaliane quanto all’atmosfera, aneddiane in un certo lessico, woolfiane nei temi, per quanto, a ben guardare, categorie e attribuzioni potrebbero essere interscambiate e restare ancora degli indicatori validi.
Sin dalla prima lettura, l’essenza di questo volumetto, de La stagione accanto, mi è venuta incontro restituendomi l’immagine della costruzione di una casa, e più esattamente direi di una casa di villeggiatura, di cui mi colpiscono in particolare il basamento e il faticoso lavoro di scavo e spianamento che si è reso necessario per la sua edificazione, le molteplici finestre, e il particolare rapporto che questa dimora intrattiene con la luce.
Un posto di vacanza, quindi, che non può non riportarmi a Sereni, e in particolare quando, scrivendo del proprio “posto” reale, afferma che “per quanto immobile per il resto dell’anno, bloccato in un suo destino di fissità, finisce coll’essere uno specchio di ben più larghe evoluzioni reali non meno di quanto l’immaginazione individuale s’illuda di specchiarvi una storia sua”.
Per Caleca, questo posto di vacanza configura uno spazio ideale diverso e privato, dove però diversità, privatezza e vacanza hanno inquietanti sembianze bifronti, per cui diversità è anche alienità, il privato, la privatezza, possono leggersi anche come privazione, così come vacanza è contemporaneamente anche assenza, spazio cavo, vuoto.
Il titolo della raccolta squadra immediatamente una cornice tempo-spazio che, se è piuttosto precisa nel suo differenziarsi dal tempo continuo e ordinario della quotidianità, resta davvero sfumata, vaga quanto al proprio statuto ontologico: in altri termini, se in modo assai chiaro appare cosa esso non è – non quel tempo ordinario, non collocato al centro di uno spazio pubblico di condivisione – si parcellizza invece in una gamma di molteplici possibilità l’essere di questo ‘tempo ulteriore’ che si dispiega vicino, accanto: ma, possiamo chiederci, quanto è prossimo? Ha un suo proprio ritmo e se sì qual è, com’è? Lo potremmo dire parallelo ma forse sarebbe un arbitrio dato che, per quanto segua il dispiegarsi ordinario dell’esistenza, in realtà questo tempo sembra rispondere a logiche autonome che autorizzano i salti in avanti, le sintesi, gli spostamenti, le condensazioni, e quindi le simbolizzazioni, esattamente come per inciso avviene nel lavoro del sogno. E come avviene, lo sappiamo bene, nella poesia.
Questo libro-casa di vacanza è anzitutto quello spazio privatissimo in cui è possibile, per la poeta, cadere nel silenzio fertile ri-generativo di sé, del proprio sguardo sulle cose e, elemento che a me appare cruciale come perno interpretativo della raccolta, generativo di una lingua extraterritoriale cui poter finalmente offrire fiato e accordare voce: la lingua della poesia.
Un luogo-spazio “bianco”, quindi un luogo per la scrittura, senza più esitazioni, pagina da mettere al mondo nel modo della poesia, luogo dal quale osare uno sguardo che spariglia le carte, disaggrega gli elementi della realtà, quella interna tanto quanto quella esterna, e li riorganizza in un ordine che fa figura a sé dentro un mondo a sé, dove vigono altre regole, come in un universo non euclideo dove nuovi, differenti postulati spezzano la continuità delle dimensioni costituite e lungamente imposte come irrevocabili, “apre un cerchio” e inaugura una ricomposizione possibile dentro una lingua che ha una vocazione espressiva accanto a (ma altrettanto legittima di) quella denotativa che finora l’autrice ha consentito a sé stessa di utilizzare. Caleca, si è detto, infatti non è nuova alla scrittura, avendo firmato saggi e racconti, ma è come se avesse sentito finora di dover chiudere le proprie istanze poetiche entro i confini di una pratica esercitata per sé soltanto.
L’individuazione di uno spazio-tempo altro, di questo “altromare”, allude però come dicevo anche a una sua genesi tutt’altro che lineare e pacifica, richiamando un atto fondativo che si dà quale esito di una battaglia cruenta, di una Guernica privata, che pure vittoriosa presenta tuttavia costi altissimi, se ciò che sopravvive è una creatura priva di pelle cui non può accordarsi cittadinanza in un qui dove il consueto dover-essere irreggimenta e detta le condizioni di esistenza.
È per tale ragione che affermo che, trasversale ai molti temi sfiorati in punta di verso (dove per sfiorati intendo colti e restituiti con sorvegliata delicatezza, non certo con superficialità, dalla pregnanza dello sguardo e della parola poetica), il tema par exccellence della legittimazione a scrivere, a un poter essere per la scrittura declinato non senza sofferenza al femminile, a me sembra sia piuttosto lo sfondo integratore di quella apparente polverizzazione tematica che fa coesistere il privato, il politico e il sociale in una raccolta densa e stratificata, pur nella sua misura breve.
Di questa battaglia antecedente al taglio delle funi di ancoraggio al qui e ora ordinari, di questo combattuto scavo per rendere giardino un luogo in cui “una volta si cavavano pietre / non permettendo una sola / bava d’erba”, mi pare si trovi chiara eco nelle ricorrenti immagini di ferita e lacerazione intessute certosinamente nei testi: ricorrono infatti forbici, spade, lame, e il graffiare, e le ossa come le armature ridotte in frantumi, e ancora il tagliare, il sanguinare, lo spellare e il non meno inquietante ricucire, a richiamare la fatica durata, il doloroso passaggio.
Questo libro è dunque anche un canto inaugurale, “specchio di larghe evoluzioni reali”, come nelle parole di Sereni, così come in quelle di Musetti, che nella sua puntuale prefazione scrive di scorgervi i segni di una trasformazione. E in effetti, c’è qui un dire che tiene a mente e fa memoria del prima e del dopo, ma non direi tanto in termini di processi, perché non lineare è lo sviluppo di questa metamorfosi, quanto piuttosto dato dal costellare di stati di coscienza, di passaggi di stato, di mutamenti minimi, dei lampi imprendibili, ora condensati in maniera non sommativa nel loro durare e perdurare.
È per questo senso del durare che la raccolta di Rossella Caleca mi ha riportato al poemetto filosofico-narrativo del premio Nobel Peter Handke, Canto alla durata, da cui ho tratto l’esergo di queste mie brevi riflessioni.
Perché è la durata, al di là della permanenza, della fissità in luoghi, in statiche condizioni, ciò che conferisce un profilo a tutto quello che ha la tendenza a dissolversi e parallelamente, come ci insegna Handke, è la stessa durata che induce alla poesia, perché la dicibilità della durata è possibile solo alla poesia e non può essere affidata alla narrativa e meno che mai a una trattazione saggistica.
E tra mutamento e continuità, pare dirci la nostra poeta, tra amputazioni e censure, a tema c’è sempre la scrittura e il tempo-spazio per essa, e nella poesia e attraverso la poesia c’è il durare, oltre la mera testimonianza, dentro una dimensione ulteriore finalmente raggiunta, spazio per sé, aperto ma fedele al proprio divenire, alla propria luce, luogo “dove la luce non è cattiva e non pesa”.
*
Da La stagione accanto
*
La stanza
Avrò per me una stanza
senza il mare.
Cadendo nel silenzio
sparso nell’aria, crederò
d’essere un altro corpo
nato nel fresco
di un altro letto.
*
Per quanto mi ricordi
sono sempre stata qui
col mare accanto
era nelle notti
una lingua residente nel cuscino
insinuata tra i capelli
lo chiudevo segnando confini
al mattino.
*
Sarà uno spazio bianco
dove posare il volto
di donna terrana
per ascoltare
il mite disordine di voci
che preme la gola
e imparare
ad aprire il respiro
fidando nel naufragio.
*
Altromare
La luna di notte pesa
come i giorni del diluvio
taglia e rimuove le voci
dalla corrente. Al buio
siede controvento
la costa, in attesa di niente.
Il vicino sfigurato
è inquietante
sanguina storie arse
di fosforo d’ossa. Tace
nero di corpi che cadono
dimenticato
il colore del vino.
*
I santi
Vanno ordinatamente
dagli affreschi interrotti
portando minutaglia tra le mani
alle stanze dove le teorie
che spiegano la mente sono appese
come pupazzi di paglia.
Vengono tutti ad uno ad una
confessati e comunicati
in eucarestia molecolare
e avviati verso un Lete
precario – sino a nuova
insurrezione: di volti pressati
in una Guernica privata
e voci che abbaiano alla luna.
*
Risveglio
Il fresco dell’alba è la prima meraviglia
entra come si espugna una fortezza
lava le corazze fracassate
muove lieve le spoglie.
Ma ieri la battaglia ci ha lasciato
una creatura senza pelle:
la porge una donna sulle dita.
Le dico che non può restare qui.
*
Lavori in corso
Dov’è ora il mio giardino
una volta si cavavano pietre
non permettendo una sola
bava d’erba. Nel sonno
una voragine lo spacca,
le pietre del nonno affiorano.
Le tiro via e ricucio.
*
Quattro quarti
1.Divisione
Infissa al fondo come un’alga
che teme di arenarsi disseccata
è quella che non ha imparato
mai a nuotare. Ve l’ha data a bere
invece non sa. Lascia la corrente
scivolare, attende di staccarsi
– non ancora – smaglia opere nere
distratta e renitente.
*
2. Addizione
Si fanno castelli con puntiglio
caparbio – si sciolgono piccole
storie arruffate senza verbi
in fondo, sciamano minuti
leggeri tra schizzi, puliti
e bianchi come gigli di mare
nati adesso dalla sabbia.
*
3. Sottrazione
Riscrive tutto la dimenticanza.
Non in attesa né in fuga
saremmo stati, camminando accanto
alla spiaggia, in un tempo impreciso
andando nell’aria salata
senza bagaglio, dove la luce
non è cattiva e non pesa.
*
4. Moltiplicazione
Tagliamo l’acqua con mani squamate
ma dalle smagliature, noncuranti
sgusciano gioventù inventate.
Più tardi, all’estuario minimo
studiato per singolarità
si aggiungeranno amiche sagaci
a salvarmi dal peso della sabbia.
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