14 Apr Principesse. In dialogo con Giusi Marchetta
a cura di Ivana Margarese
“Vent’anni per emanciparci da una vita con le principesse e adesso sono tornate. Ci serve una storia davvero nuova per salvare le bambine da questo drago che le vuole magre e belle. Difficilissimo. Possiamo farcela.”
Giusi Marchetta nel saggio Principesse esplora l’immaginario culturale per capire come e con quale impatto siano nate le “principesse” protagoniste di fiabe e serie.
Scrive Marchetta: «Che provengano da un libro, da un film, da un serie televisiva, le storie che ci hanno cresciuto continuano a farlo. Spesso cambiano nel tempo, le nostre sono cambiate: abbiamo cominciato a leggere le scrittrici, a guardare i film delle registe. Abbiamo capito perché la tortura di Scully era ingiusta [qui si allude alla protagonista di X-Files].
Fissati i sei elementi fondanti dello stereotipo della principessa – 1) Non deve necessariamente prendere parte alla sua storia, qualcuno agirà per lei, guidandola verso il lieto fine; 2) Viene salvata dal principe; 3) È sempre bella; 4) È sempre pura; 5) È sempre femminile, dolce, aggraziata; 6) Sposa sempre il principe che l’ha salvata – l’analisi dell’autrice procede dalle più note protagoniste delle fiabe rese celebri dalle animazioni di Disney (Biancaneve, Cenerentola, Aurora) alle loro più recenti e aggiornate versioni per riflettere insieme ai lettori sulla pervasività e persistenza degli stereotipi e sull’importanza del raccontare persone da ogni punto di vista. In questo caso ad esempio ho potuto parlare di tutte quelle persone che si confrontano con un ruolo di genere che nel 2024 dovrebbe risultare stretto sia per gli uomini che per le donne: “Nessuno è al centro ma tutti raccontano il mondo dal proprio punto di vista. Quindi non c’è una fiaba universale che valga per tutti i tempi e tutti i luoghi. C’è uno sguardo e una voce che raccontano fiabe per motivazioni sempre diverse: se una di queste motivazioni è trasmettere antichi retaggi patriarcali direi che possiamo lasciare quelle storie nel passato e considerarle superate”.
Comincio con il chiederti della genesi di questo libro.
Principesse nasce dall’esigenza di raccontare cosa significhi confrontarsi con una storia che è così presente nella tua vita in un momento delicato come l’infanzia come può essere quella della ragazza bisognosa di un amore per essere felice. Quando ero bambina in particolare la Sirenetta mi colpiva perché la perdita del Principe coincideva con la perdita della sua vita. La soluzione che Walt Disney offre facendo sposare la sua protagonista non mi sembrava rispondere a quell’esigenza di cercare un altro significato alla vita delle ragazze e quindi anche alla mia. Anzi ribadiva che l’unica felicità consisteva proprio in quel compiere il proprio destino di moglie. Scavando in questo archetipo a quarant’anni suonati sono riuscita un po’ a rispondere a quella domanda che da ragazzina mi inquietava senza soluzione.
Principesse chiama a raccolta alcune donne importanti della tua vita: Letizia, tua amica fin dai tempi del liceo, sua figlia Camilla, tua madre, Nina e altre bambine che hai incontrato. Nel leggerlo ho avuto l’impressione che tutte insieme finissero col lasciare le principesse sullo sfondo e che le loro figure si intrecciassero anche a quelle di bambini, come tuo nipote o il bambino che chiede al padre di comprare unicorno e perline, e che con tutti loro potessimo immaginare una nuova storia, dare visibilità a qualcosa di inedito. Vorrei un tuo commento su questo.
Sicuramente l’importanza che le storie hanno nel nostro immaginario dipende dal fatto che dietro quelle storie ci sono delle persone. Sono persone quelle che vengono raccontate e sono persone quelle che ce le hanno raccontate per un motivo: per intrattenerci, per spaventarci, per gioco ma soprattutto perché le volevamo accanto e ci volevano accanto mentre lo facevano.
Per me lavorare sulle storie quindi significa avere la possibilità di raccontare le persone da ogni punto di vista. In questo caso ad esempio ho potuto parlare di tutte quelle persone che si confrontano con un ruolo di genere che nel 2024 dovrebbe risultare stretto sia per gli uomini che per le donne.
La principessa viene da sempre associata alla bellezza, all’avere un corpo desiderabile e “appetibile” senza tener conto dei mutamenti stessi del corpo e della vita di ciascuno di noi. Un “vissero felici e contenti” a finale di storia che poco racconta delle scelte quotidiane e dei nostri cambiamenti.Mi interesserebbe riflettere con te sia sui canoni di bellezza che sono probabilmente diventati più inclusivi rispetto ai tempi della mia adolescenza sia sull’ipotesi che la bellezza talvolta possa essere anche uno schermo difensivo per non essere giudicati, soppesati, un modo per dire sono “felice e contenta” e adesso che vi ho soddisfatti posso liberamente fare a modo mio.
Una domanda molto bella e molto difficile questa. Da un lato infatti sicuramente viviamo in un presente molto più inclusivo rispetto al concetto di bellezza e che fa una riflessione più complessa e meno maschilista di quella che era onnipresente negli anni ‘90. Al tempo stesso non riusciamo a svincolarci da quella che è una dimensione estetica della persona che diventa anche un parametro quasi oggettivo di giudizio nei suoi confronti. Intendo che poiché i prodotti culturali più diffusi sono legati all’immagine (penso ai film e alle serie TV) è molto difficile svincolarci da un’idea di protagonista che sia davvero sfidante nei confronti dei modelli standard di bellezza odierni. Possiamo sicuramente trovare una maggiore inclusività di queste protagoniste ma mi riesce ancora difficile individuare eroine che siano diverse dal punto di vista della corporatura ad esempio.
Di sicuro avere un corpo che rientra abbastanza in quelli che sono dei criteri estetici di massa permette di fare una vita più facile da diversi punti di vista. Questo vale per tutte quante le caratteristiche che non vengono considerate in linea con una struttura gerarchica che non ha senso di esistere, quella che privilegia la bianchezza, l’essere abili e neurotipici, ecc.
«Mi sono fermata sul margine e l’ho rivendicato come centro e ho lasciato che il resto del mondo si spostasse dov’ero io.» Queste parole di Toni Morrison sono poste quasi a conclusione di Principesse, dopo che hai riportato altre riflessioni importanti della scrittrice sul rapporto tra donne e su come le donne spesso infliggano violenza le une alle altre. C’è un chiaro invito nel tuo testo a non fare dei diritti delle donne solamente un’astrazione ma a porsi nei fatti in maniera accogliente. È una riflessione che sento vicina e che mi ha portato a curare un libro interamente dedicato all’amicizia tra donne, ovvero a quel tipo di relazione in cui “non si tratta soltanto di “noi”ma di me e te. Noi due soltanto”, e a ricercarne le potenzialità generative.Come arriva Toni Morrison all’interno di Principesse?
Tony Morrison per me è stata un riferimento importantissimo. Leggere le scrittrici nere che hanno affrontato temi di diverso tipo anche non legati direttamente al femminismo mi ha davvero permesso di illuminare alcuni passaggi che sarebbero rimasti oscuri in questo mio percorso di formazione sempre in atto. Pensiamo anche solo ad Amatissima che è un capolavoro e che non si può considerare come qualsiasi altro libro sulla schiavitù ma come una riflessione profonda e tagliente (oltre che magistralmente scritta) sul senso stesso della libertà. Mi sembra che persone come Toni Morrison siano state capaci e siano capaci di mostrarci tutte quante le gabbie in cui siamo cresciuti e che ci condizionano. Qualche anno fa una letteratura o qualsiasi altro prodotto culturale con una protagonista non bianca o non eterosessuale sarebbe sembrata anche a me una scelta particolare. Ma è proprio come considerare i libri delle scrittrici come una categoria a parte, una specifica di uno standard che è quello maschile considerato da sempre come sguardo neutrale sul mondo. Invece Morrison dice che anche Tolstoj scrive dal punto di vista della razza e questo è interessantissimo. Nessuno è al centro ma tutti raccontano il mondo dal proprio punto di vista. Quindi non c’è una fiaba universale che valga per tutti i tempi e tutti i luoghi. C’è uno sguardo e una voce che raccontano fiabe per motivazioni sempre diverse: se una di queste motivazioni è trasmettere antichi retaggi patriarcali direi che possiamo lasciare quelle storie nel passato e considerarle superate.
“Posso arrabbiarmi quando si usano parole come “isterica” o “emotiva” e “umorale” anche quando non sono dirette a me. Posso decidere di essere scomoda con la mia rabbia anche quando dall’altra parte arrivano gli “esagerata” o “antipatica” fatti apposta per smontarla. Insomma, posso decidere di distruggere la principessa e diventare un’alleata della persona che c’è sotto”. Così scrivi nel testo liberando la possibilità di rivendicare e rendere visibile ciò che si è in maniera autentica. Quanto è importante questa autenticità a tuo parere in ambito educativo?
Secondo me dal punto di vista educativo l’autenticità è l’unica possibilità di creare una relazione efficace e offre la speranza di avere un vero impatto sulla crescita di chi ci viene affidato. Quando i ragazzi e le ragazze sentono che stiamo leggendo Leopardi perché è martedì e dobbiamo studiarlo automaticamente perdono qualsiasi motivazione a scoprire questo autore chi sia e cosa abbia scritto. Invece l’esperienza di Leopardi e la sua letteratura ci servono soprattutto per leggere la nostra e per capirla un po’ di più quindi la motivazione sarebbe fortissima se riuscissimo a condividerla in modo autentico.
L’ultima domanda riguarda due film di grande successo di quest’anno Barbie di Greta Gerwig e Poor things di Lanthimos. Entrambi in un certo qual modo sono racconti di formazione. Al di là del gusto personale ti domando cosa mostrano questi due film rispetto al nostro immaginario e ai nostri bisogni?
Posso dire che il primo mi è sembrato un romanzo di formazione incentrato su una protagonista femminile che ha una crisi d’identità e l’ho trovato molto interessante perché racconta molto bene quanto lo sguardo che ci racconta sia partecipe di questa nostra costruzione di identità e della scoperta a volte tardiva di essere qualcos’altro. Povere creature invece mi sembra si faccia domande diverse e che porti la narrazione sul tema del desiderio. Non sono sicura però che riesca realmente a catturare la complessità di questo nostro bisogno. La verità è che per quanto riguarda l’immaginario c’è molta strada da fare perché siamo ancora molto imbrigliati in quelli che sono dei pregiudizi molto spesso legati al genere. Anche per quanto riguarda il desiderio femminile infatti basta approfondire gli studi sull’insoddisfazione delle donne eterosessuali per capire che ci sono ancora forti problemi di comunicazione anche nel modo di vedere noi stesse e il nostro diritto di essere felici.
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