18 Apr Del futuro che racconta il passato, e del presente che non racconta niente
di Erminia Scaglia, storica della fotografia
Qualche settimana fa è stato inaugurato a Palermo il Museo Regionale della Fotografia, ubicato nella splendida cornice di Villino Favaloro. La notizia è rimasta appannaggio della cronaca locale e, con molta probabilità, gran parte degli storici e conservatori della fotografia, non lo avrebbero neanche appreso se non fosse per un manifesto, comparso in città, dal titolo “Il futuro racconta il passato”. Per esprimere un giudizio sull’operazione è, preliminarmente, doveroso rinfrescare la memoria sugli antecedenti che hanno portato alla sua istituzione, poiché proprio la memoria è sempre stata un limite nel nostro Paese. La questione aveva, di contro, destato l’attenzione nazionale nel mondo scientifico della fotografia per poi, in ultimo, scemare nel profondo sottotono che un’operazione del genere certamente non avrebbe meritato, dacché i musei di storia della fotografia in Italia sono assai rari.
Costituita nel 1989 e considerata dagli addetti ai lavori come una delle istituzioni all’avanguardia nel settore della conservazione e della catalogazione della fotografia, la Fototeca del CRICD Centro Regionale Inventario, Catalogazione e della Documentazione della Sicilia – quest’ultima ricordiamo essere regione a statuto speciale e quindi avere autonomia in materia di tutela e valorizzazione dei Beni Culturali – aveva precorso i tempi, attuando gli orientamenti espressi nel Testo Unico dei Beni Culturali in materia di fotografia, e individuando come sua sede appropriata il Villino Favaloro. Edificato tra il 1889 e il 1891 su progetto di Giovan Battista Filippo Basile con aggiunzioni da parte del figlio Ernesto, fu completato tra il 1913-14, dando luogo a uno più bei gioielli di architettura Liberty dell’Isola.
Negli anni, si era fatta spazio l’idea che la sede avrebbe potuto anche ospitare il futuro Museo di Storia della Fotografia Siciliana, dato l’alto valore dei materiali raccolti, tuttavia una forte scossa di terremoto nel 2002 ne compromise la sicurezza. Ventidue anni sono trascorsi da allora e la Regione Sicilia, coi suoi ben cinque presidenti nel frattempo avvicendatisi, ne ha veramente combinate di tutti i colori, noncurante del valore del CRICD anche come ente scientifico di riferimento per tutti gli altri organismi regionali, in merito alle metodologie da applicare alla catalogazione. Nel 2004 la Fototeca regionale dovette essere urgentemente sgomberata, e i dipendenti del CRICD furono costretti a far traslocare in breve tempo migliaia di lastre di vetro e fototipi, macchine fotografiche storiche, collezioni, album e ogni sorta di delicatissimo documento storico-fotografico. Con un provvedimento ad hoc, come in tempo di guerra, questo immenso patrimonio venne sfrattato e ricollocato in un grigio palazzo di piazza Sturzo preso in affitto dalla Regione Sicilia, senza alcuna caratteristica idonea ad ospitarlo. Locali non adeguati, con spazi insufficienti e mal dislocati ricevettero i delicati archivi che vennero ubicati al piano terra, mentre per i laboratori si trovò spazio al sesto e al settimo piano. Il via vai da un piano all’altro, per il loro studio e la loro conservazione, sottopose i fototipi a stress, oltre che a rischio danneggiamento, tanto più che l’ambiente prescelto non era sicuramente adatto a tutelare quel tipo di patrimonio specialmente in una città umida, calda e inquinata come Palermo.
E dire che una soluzione era stata sin da subito individuata dagli addetti ai lavori, nella possibilità di spostare tutto il materiale fotografico nella dépendance del Villino che, invece, non aveva subito alcun danno e, ospitando già in camere climatizzate qualcosa come centomila fototipi storici di fotografi, stranieri e non, che hanno lavorato in Sicilia – del calibro di Giorgio Sommer o di Eugéne Sévaistre, e di altri come Stefano Bugliarelli, degli Interguglielmi, degli Incorpora, dei Seffer, e poi di Empedocle Lo Forte, di Dante Cappellani, dei Bronzetti e di tanti altri – ben si sarebbe continuata a prestare a quei criteri di tutela e conservazione che quel tipo di materiale richiedeva, evitandone peraltro la transumanza in giro per la città.
La scusa della presunta messa in sicurezza dai rischi che il patrimonio fotografico avrebbe subìto presso il Villino Favaloro, si rivelò un pretesto che portò alla luce l’intenzione dell’allora governatore: la volontà di volere affidare, di lì a poco, il prestigioso edificio, anziché avviarne il restauro, ad una neonata fondazione privata che, per mantenerla, avrebbe anche potuto godere di molti benefici economici da parte dello stesso governo regionale. La spinosa questione aveva provocato, sin da subito, la reazione del mondo intellettuale capeggiato dal fotografo e editore Enzo Sellerio, noto anche per le sue battaglie in difesa dei beni culturali dell’Isola, che mosso a compassione, era sceso in campo coinvolgendo una folta schiera di artisti, docenti universitari e presidenti di associazioni per salvare il patrimonio fotografico: ricordiamo tra le firme, non soltanto quella di Andrea Camilleri o di altri illustri scrittori, ma soprattutto di conservatori dei beni culturali, di fotografi, di importanti esponenti della Storia della Fotografia come Carlo Bertelli, Marina Miraglia, Francesca Bonetti, Monica Maffioli, Laura Gasparini, Italo Zannier, Luisella D’Alessandro, Sauro Lusini. Peraltro la Regione aveva speso precedentemente (2005) ottantamila euro per l’acquisto di un archivio di dubbio valore storico, una serie di diapositive “turistiche”, mentre gli stessi soldi avrebbero potuto essere investiti nella valorizzazione della Fototeca o nell’acquisto di archivi ben più importanti come quello di Dante Cappellani che ad oggi resta, per il patrimonio culturale di proprietà pubblica, una grande occasione mancata. L’eco mediatica non si fermò, ne parlarono giornali come L’Unità e Panorama. Nel 2007 Rita Borsellino, parlamentare regionale, chiese con un’interrogazione di conoscere la sorte del Villino Favaloro e della Fototeca Regionale trasferita in un edificio che la Regione pagava con un canone d’affitto di circa trecentocinquantamila euro annui, mentre il progetto originario del museo sfumava per far spazio alla fondazione suddetta le cui finalità apparivano poco trasparenti. Centoventimila fototipi che documentavano la vita dell’Isola dal 1842 (a soli due anni dall’invenzione della fotografia che è del 1839) erano, a quella data, abbandonati in casse in una sede impropria, rischiando la rovina per via dell’umidità e delle infiltrazioni d’acqua.
Nonostante i disagi e la complicata gestione dei materiali storici, gli esperti del settore erano riusciti, negli anni, a produrre, in totale autonomia e collaborando con enti e istituzioni pubbliche e private, mostre o pubblicazioni scientifiche di alto livello come non se ne sarebbero più realizzate. Basti citare, tra gli altri La Sicilia archeologica by Hellenic Society (coediz. Alinari 2001); Le immagini storiche della Sicilia antica (2001); Sicilia Ottocento. Fotografi e Grand Tour (Gente di Fotografia 2002); Gli Interguglielmi. Una dinastia di fotografi (Sellerio 2003); L’Italia d’argento. 1839-1859. Storia del dagherrotipo in Italia (Alinari 2003) che sicuramente procurarono introiti oltre che visibilità al CRICD.
Dal 2008 un altro trasferimento presso l’Albergo delle Povere, costrinse l’Istituto a rifare armi e bagagli, con estrema sofferenza logistica e buona pace di adeguati criteri di conservazione delle collezioni, ma sempre amorevolmente tutelate da quel gruppo di illuminati funzionari che con le difficoltà del caso, negli anni, ne hanno, non soltanto limitato i danni, cercando di valorizzarle, incoraggiando anche le donazioni verso il Centro, sensibilizzando i dirigenti di turno, non sempre competenti in materia, e troppo frequentemente succedutisi, senza soluzione di continuità.
La fotografia storica è particolarmente bisognosa di tutela perché formata da materiali particolarmente deteriorabili. Se i negativi non vengono trattati con criteri adeguati rischiano la totale distruzione. Il 25 marzo 2009, dopo anni di battaglie, denunce e appelli, Repubblica diede finalmente la notizia che il Villino Favaloro sarebbe diventato la sede del Museo della Fotografia siciliana. Parole che purtroppo caddero nel vuoto visto che si sarebbero ancora avvicendati tre governatori, non so quanti dirigenti regionali e sarebbero stati necessari altri quindici anni per la realizzazione del museo trascorsi in silenzio. Del villino e del suo restauro, oltre che della sua futura destinazione d’uso, si tornò a parlare soltanto in occasione di qualche apertura straordinaria al pubblico. Nel frattempo tra la folta équipe di funzionari adeguatamente formati e storicamente strutturati nell’organico delle competenze, qualcuno è andato in pensione e qualcun altro è stato trasferito.
Oggi, l’attuale museo è tutto fuorché quello sognato dagli specialisti che presentarono in passato il progetto che, tra le chicche, prevedeva anche l’allestimento della simulazione della vetrata fotografica tipica degli atelier dell’Ottocento, in quello che fu il giardino d’inverno del villino. La Sicilia è la terra dei paradossi e, nonostante il tempo non sia certo mancato, essendo trascorsi più di vent’anni dall’ideazione alla realizzazione del museo, questo appare oggi alla stregua di un organismo allestito frettolosamente durante la notte.
Assistiamo a una sorta di rappresentazione scenica scollata dal suo archivio. La Fototeca, difatti, orror dictu, è rimasta allocata presso l’Albergo delle Povere, anziché essere parte integrante dello stesso museo. Di questo, l’attuale dirigenza e i curatori scientifici dell’esposizione, ad oggi ignoti (e non sembra ci sia stato un concorso per individuare degli storici della fotografia adeguati al progetto), dovranno pur rispondere, perché l’operazione resta del tutto ambigua, nonché priva di una visione che consenta un continuo dialogo tra gli archivi, l’allestimento definitivo o temporaneo, le soluzioni di restauro e conservazione delle collezioni e soprattutto l’accesso agli stessi archivi da parte degli studiosi, sballottati come sarebbero, durante le ricerche, tra il museo, sito al centro città, e la sede della Fototeca, sita invece nella parte alta del Cassaro. Ma c’è altro.
Chiunque acceda oggi al museo, infatti, non comprenderà bene innanzitutto il significato del termine “Museo Regionale della Fotografia” se non per il sol fatto che esso sia un bene di proprietà regionale. Non v’è chi non veda la mancanza di un ragionamento storico-fotografico preliminare e di un itinerario espositivo relativo coerente. Il materiale, eccetto un breve accenno alla Sicilia del Grand Tour, è tutto pressoché afferente la Sicilia occidentale se non la sola Palermo. Fotografie del 1880 allocate nella stessa sala di altre del 1950, non si sa per quale motivo. Con buona pace della filologia che un museo di questo tipo dovrebbe comportare, si alternano elementi originali di alto valore, come i dagherrotipi opportunamente esposti – chiusi nelle loro custodie perché forse non si riesce a garantire un’adeguata conservazione degli stessi – e gli ambrotipi, sistemati in vetrina assieme a positivi di qualsivoglia natura o riproduzioni digitali, probabilmente per salvaguardare la delicatezza della fotografia riprodotta, come se gli elementi da tutelare fossero esclusivamente alcuni e non altri.
Eppure, mi chiedo, quale sarebbe la funzione del museo se non proprio quella della restituzione di verità e se vi sono opere d’arte, dal valore ben più consistente, esposte in altri musei regionali cittadini, non si capisce chi abbia mosso i curatori dell’esposizione a ricorrere a queste soluzioni finali, ingenerando smarrimento nel visitatore che, in tal modo, si ritrova incapace di comprendere la differenza delle emulsioni e dei processi tecnici, nonché l’evoluzione degli atteggiamenti estetici e di molto altro, come se di finzione e di realtà aumentate, che pure sono qui presenti, non ne avessimo già abbastanza. Insomma, non è chiaro dove si intenda arrivare, ma è chiarissimo dove ci si perda. Sembra che gli stessi autori del percorso si siano persi. Di questo itinerario direbbe mia nonna: “finì n’finennu” cioè finì non finendo. Al primo piano i criteri che, al piano terra sembrerebbero essere cronologici, si sovvertono per diventare quelli della narrazione storica delle famiglie dei fotografi, non adeguatamente affiancata, però, all’evoluzione della tecnica e alla descrizione delle varie età della fotografia che, appare come elemento subordinato al racconto degli usi o dei costumi o delle famiglie nobiliari.
La confusione regna sovrana, condita da inserti multimediali di indubbio valore didattico. La fotografia, e questo è sempre il rischio nel quale è facile inciampare se mancano le competenze, con prevalente valore ancillare, tesa a raccontare il mondo e non intesa come documento in sé, con un proprio peculiare linguaggio, specificità semantiche oltre che estetiche.
Non sono un’esperta di museografia o di museotecnica, e per questo urgerà, a mio avviso, il parere di esperti dei due settori, non mi piacciono però le cornici appese a scala per assecondare le prese e le canalette di conduzione dei fili elettrici, cosa che, onestamente non ho mai visto altrove: un impianto grossolano che offende in primis il decoro liberty e lo sguardo del visitatore.
Temo inoltre che la mancata schermatura alle finestre, specialmente di quelle del primo piano, metterà presto a repentaglio la conservazione degli originali se, con l’arrivo del caldo afoso non si porrà anche mano ad un’adeguata climatizzazione degli ambienti.
Per il resto armatevi di muscolatura robusta e di ginocchia salde che vi consentiranno di salire gli alti scalini tipici delle ville di una volta; non mi è sembrato, infatti, di ravvisare il minimo accenno ad un percorso idoneo per un pubblico di anziani o di disabili, cosa che vi costringerà, se siete fortunati, a piegarvi a ogni piè sospinto per leggere le didascalie poste sul piano delle vetrine al livello del pavimento o di sollevarvi sulle punte dei piedi per ammirare certe fotografie esposte molto in alto, con un non-criterio, sprezzante di ogni criterio al quale il buon allestitore dovrebbe attenersi.
L’ennesima occasione mancata per la politica culturale siciliana che, come troppo spesso accade, non è riuscita neanche stavolta a raccordarsi con le competenze espresse e l’esperienza maturate in passato. Un museo “del futuro”, forse, ma non del presente, che del passato non è in grado di raccontare niente.
P.s. Le opinioni espresse in questo articolo sono considerazioni strettamente personali dell’autrice e non riflettono pareri di altri enti o associazioni pubbliche o private.
(Nell’immagine di copertina: l’ingresso del Villino Favaloro, oggi Museo Regionale della Fotografia)
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