23 Apr Le donne in Fellini e Antonioni
di Giorgio Galli
In un articolo su Internazionale del 18 gennaio 2020 -dunque a quasi cent’anni esatti dalla nascita di Federico Fellini, avvenuta il 20 gennaio 1920- Goffredo Fofi dedica un’analisi rapida e tagliente ai personaggi femminili del regista: “Non parlerò” scrive “di quell’aspetto più ovvio – anche perché ci si è troppo insistito – che è il rapporto di Fellini con le donne: i personaggi femminili, le tettone, le saraghine, le ‘Anite-Ekberg’ dei suoi film, i manifesti giganti che prendono vita e ossessionano Peppino de Filippo eccetera, eccetera. Per quanto importantissima, questa zona è una zona un po’ rétro, rientra nel modo di vedere la donna che poteva avere un maschio della generazione di Fellini, e non è una visione, questa, molto profonda e neanche molto rispettosa. È condizionata da usi, costumi, abitudini molto discutibili, e Fellini, in fondo, in questo rimane un ‘vitellone’, e un po’ lo rimane fino alla fine. […] Può scattare nei maschi una complicità con Fellini, anche un po’ deteriore”.
Le donne di Fellini, in effetti, sono sempre proiezioni del desiderio maschile: del desiderio sessuale, la maggior parte delle volte, oppure di un desiderio di purezza di tipo stilnovistico nel caso di Gelsomina e Cabiria. Perfino Giulietta degli spiriti non è una figura autonoma, è una creatura frutto del rimorso del maschio infedele -insomma dell’uomo Fellini, con la sua insensibilità e il suo narcisismo. Scrive Fofi, infatti, che “I suoi film forse più ambigui, e che è più arduo amare e decifrare, sono proprio Giulietta degli spiriti e La città delle donne, che andrebbero rivisti e analizzati da donne che quasi sempre non li hanno amati, e non da uomini”.
Che Fellini rifletta, nella visione e rappresentazione delle donne, l’atteggiamento della sua generazione, è senz’altro vero: il maschio di Otto e mezzo non si riesce ad accettarlo e amarlo integralmente oggi -da adolescenti forse sì, perché in Fellini permangono accenti tipici della scoperta del sesso, della grandiosa stupefazione del maschio adolescente che fa conoscenza con la Donna- ma da adulti è più difficile: possiamo accettare Guido Anselmi con riserva, e amarlo perché lo distanziamo, perché mettiamo fra noi e lui il muro lieve ma inscalfibile del tempo.
Ben più moderno di lui fu il suo amico-rivale, l’altro grande regista che traghettò il cinema italiano fuori dalle secche del neorealismo, il quasi conterraneo Michelangelo Antonioni. Innanzitutto, il collega ferrarese dà ben più ampio spazio ai personaggi femminili nei suoi film, rendendoli non di rado protagonisti; inoltre, pur avendo otto anni più di Fellini, aveva in dote una visione -e una capacità di rappresentazione- più profonda e ricettiva. In lui troviamo figure di donne credibili e non liricizzate, mentre l’unico caso di personaggio femminile intero in Fellini è la moglie di Otto e mezzo -che tuttavia è un personaggio minore. Se guardiamo al cinema dell’epoca, troviamo senza difficoltà che l’Angelica del Gattopardo di Visconti e la Jill McBain di C’era una volta il west di Sergio Leone, entrambe interpretate da Claudia Cardinale, sono figure ancora datate, ancora in gran parte convenzionali -meno quella di Leone, e comunque il regista romano merita piena assoluzione in quanto i personaggi, nella sua drammaturgia, sono tutti mitologici, anche quelli, più psicologicamente sfumati, di C’era una volta in America. Non solo, ma la Claudia Cardinale di Otto e mezzo, benché reciti con la sua vera e non convenzionale voce, è un puro simbolo, un’immagine della purezza e dell’affettività sconosciute al protagonista. Tutt’altro peso hanno le protagoniste di Le amiche di Antonioni -a cominciare dalla protagonista assoluta, Clelia, splendida figura resa ancora più autentica rispetto all’originario racconto di Pavese- o i personaggi interpretati da Monica Vitti nella trilogia detta “dell’incomunicabilità” e in Deserto rosso, per non parlare poi del ruolo di motore della narrazione di Vanessa Redgrave in Blow up e del mistero aggiunto da Maria Schneider in Professione: reporter. Un ulteriore sguardo al panorama cinematografico dell’epoca rivela che anche le donne di Monicelli -dalla Carolina di Totò e Carolina alla dolente prostituta interpretata da Silvana Mangano ne La grande guerra fino a La ragazza con la pistola e alla moglie, muta e inorridita testimone delle sevizie inflitte da Alberto Sordi al giovane delinquente in Un borghese piccolo piccolo– anche le donne di Monicelli, dicevamo, sono più moderne di quelle di Fellini malgrado i cinque anni in più del maestro viareggino rispetto a quello riminese: si può dire che il cinema di Fellini rappresenti la punta più regressiva e infantile del cinema italiano nella rappresentazione del femminile. D’altronde, benché indicato spesso come genio anarchico, e malgrado le sue -mai troppo esibite- simpatie socialiste, Fellini fu uomo e artista intimamente reazionario. Nelle fotografie e nei video è un signore sempre in giacca e cravatta: può darsi che fosse quella la sua divisa da incantatore, da mago, quale egli amava presentarsi al mondo, oppure che questo tradizionalismo sartoriale nascondesse e compensasse una qualche forma d’insicurezza: sta di fatto che il suo atteggiamento rispetto ai problemi del suo tempo è sempre un atteggiamento regressivo, un battere in ritirata. Il Fellini anziano indulse ad atteggiamenti apocalittici nei confronti del progresso tecnologico e della televisione; Antonioni invece, in una bellissima intervista a Gian Luigi Rondi del 1985, mostra un’aperta curiosità verso il futuro, verso le sue possibilità espressive, e si spinge a prevedere che le storie dell’avvenire, la psiche e i sentimenti dell’umanità dell’avvenire saranno radicalmente diversi dai suoi: una profezia ben più corretta rispetto alle catastrofi, peraltro abbastanza retoriche, degli ultimi film felliniani, con invasioni di indiani armati di antenne televisive e TV berlusconiane rappresentate in modo così infernale e grottesco da annullare nel loro delirante barocchismo qualsiasi forza critica.
Tornando ai personaggi femminili, le donne di Antonioni, a differenza di quelle di gran parte del cinema italiano coevo, comunicano ancora con noi, sono figure credibili e palpitanti, che preludono alla straordinaria sensibilità con cui Krzystof Kieślowski tratteggia le sue protagoniste.
In copertina: fotogramma de La notte (1961) di Michelangelo Antonioni
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