03 Mag Protesi d’Onore: Anna Coleman, o l’arte al servizio dell’uomo
di Elsa Flacco
La storia di Anna Coleman Ladd ha conosciuto negli ultimi anni una notorietà inaspettata, ripresa in articoli, saggi, perfino in un recente romanzo1.
Quale la ragione di una simile attenzione per questa vicenda d’altri tempi?
Sappiamo che a far scattare l’interesse e a far appassionare il pubblico sono le storie che emozionano, che trasmettono un sentimento di umanità capace di sorvolare il tempo e giungere intatto fino a noi, per scuoterci e penetrarci l’anima. E cos’ha di speciale questa piccola donna giunta in Francia dagli Stati Uniti durante la prima guerra mondiale, portando con sé la sua arte di scultrice?
Quello che colpisce di lei è ciò che la distingue dalla stragrande maggioranza dei suoi simili e che la porta su una strada che non ci aspetteremmo, divergente rispetto a quel tentativo di affermazione personale in campo artistico che è quello che avrebbe avuto tutto il diritto di perseguire, per quanto nelle sue possibilità. Anna sceglie invece una direzione diversa, decidendo di intraprendere un cammino che porta non al successo, ma alla ricerca, all’ascolto, all’aiuto.
Quando giunge in Europa nel 1917, in piena guerra, con l’uomo che aveva sposato nel 1905, il medico di Boston Maynard Ladd, incaricato di dirigere la sede della Croce Rossa americana a Toul, in Francia, Anna Coleman ha due figlie ed è un’artista affermata, scrittrice, pittrice e scultrice. Nata nel 1878 nella cittadina di Bryn Mawr, presso Filadelfia, dopo aver studiato scultura alla Pennsylvania Academy of Fine Arts, si era perfezionata a Parigi e Roma, prima di tornare in America. In questo suo secondo viaggio europeo incontra a Parigi il medico inglese Francis Derwent Wood, che aveva creato l’anno prima a Londra il Dipartimento di maschere per volti sfigurati, un aiuto per quei tanti soldati che avevano subito in battaglia ferite e mutilazioni al volto. Con il suo aiuto, Anna metterà su un analogo servizio per la Croce Rossa americana, dedicando a questa missione gran parte della sua vita.
Ma cosa spinse Anna Coleman a sacrificare una carriera artistica ben avviata per occuparsi dei mutilati di guerra, e soprattutto delle mutilazioni più raccapriccianti e spaventose, quali quelle che deturpavano irrimediabilmente i visi di migliaia di reduci dal fronte?
Quello che colpì allora Anna e che rende ancora oggi la sua storia così affascinante risiede proprio nella natura delle lesioni che la sua arte contribuì ad alleviare e nelle loro conseguenze sulla vita e sulla psiche delle giovani vittime. Un volto sfigurato non provoca gli stessi effetti di una mutilazione agli arti o di un’invalidità permanente, anche se potrebbe sembrare addirittura meno grave, se non compromette la deambulazione e lo svolgimento delle comuni attività quotidiane.
Ma sappiamo tutti che non è così. Le conseguenze psicologiche e sociali di una faccia che suscita repulsione agli sguardi possono essere molto più devastanti della convivenza con una mutilazione anche grave. Non facciamo fatica a comprenderlo, così come anche Anna sentì che quella che credeva fosse l’arte che le avrebbe dato la fama, da quel momento in poi sarebbe stata consacrata ad alleviare la sofferenza di quegli uomini dalla vita distrutta, che non di rado sceglievano il suicidio, pur di porre termine all’emarginazione e all’esclusione sociale. La chirurgia estetica era ai primi passi e spesso si limitava a lavori di ricucitura sommaria che potevano portare a risultati ancora più devastanti della situazione precedente. È per questo che il tentativo più efficace di rimediare a danni irreparabili e restituire un aspetto socialmente accettabile passava per la realizzazione di maschere che riproducessero le esatte fattezze del volto danneggiato.
La determinazione con cui Anna si getta in quest’avventura è commovente: fonda a Parigi, nel Quartiere Latino, lo Studio per le maschere-ritratto, un laboratorio sul modello di quello londinese di Derwent Wood, e con quattro assistenti inizia ad accogliere soldati con gravi mutilazioni al volto, con l’intento di aiutarli a superare il trauma delle deturpazioni e a reinserirsi nella vita sociale. Lo studio è ampio e luminoso, con vasi pieni di fiori: l’intento è di creare un ambiente accogliente e confortevole, che non intimidisca ma incoraggi e rassicuri.
Le maschere-ritratto vengono realizzate con una lamina sottilissima di rame zincato partendo da un calco in gesso (talvolta anche argilla o plastilina) modellato direttamente sul volto del soldato, e possono pesare tra i 100 e 250 grammi a seconda della porzione di viso che devono coprire. Per dipingerle, inizialmente la Ladd utilizza colori ad olio, ma il risultato non la convince, e allora ripiega su uno smalto color carne dipingendo la maschera già indossata sul volto, in modo da riprodurre il colore della pelle più simile all’originale. Il lavoro è completato dall’aggiunta di sopracciglia, ciglia e baffi, secondo necessità, ottenuti da capelli veri, e da speciali elastici o occhiali realizzati ad hoc per fissare la maschera al volto.
Immaginare oggi queste protesi metalliche fisse in un’espressione stereotipata, non in grado di rivelare i moti dell’animo nella mobilità del volto, può suscitare reazioni scettiche o addirittura divertite; a chi, come noi, è assuefatto ai risultati delle attuali tecniche di chirurgia plastica o restitutiva, può apparire ridicola l’idea di indossare una maschera per nascondere deformità o mutilazioni semplicemente coprendole. Ma se consideriamo che l’alternativa all’epoca era quella di passare il resto della vita vergognandosi del proprio aspetto, tremando a ogni sguardo altrui, a ogni nuovo incontro, rifugiandosi spesso in una clausura volontaria, incapaci di rassegnarsi a una realtà dolorosa e inesorabile, riusciamo a comprendere quale sollievo e consolazione potessero rappresentare le maschere di Coleman Ladd per le decine e decine di soldati che ebbero la fortuna di poterne ottenere una. Talvolta qualcuno di loro le scriveva per ringraziarla con parole commosse: “Grazie. Finalmente avrò una casa. La donna che amo diventerà mia moglie”. C’è anche una foto di un gruppo di soldati che festeggia il Natale del 1918 nello studio di Parigi.
Delle oltre 180 maschere realizzate da Anna in meno di tre anni poche sono sopravvissute, finendo le altre probabilmente sepolte insieme ai soldati. La durata media di una maschera oscillava tra uno e due anni, a seconda dell’utilizzo; in uno dei suoi diari, Anna racconta di aver rincontrato uno dei suoi primi pazienti che ancora indossava la maschera originale ormai completamente rovinata e orribile a vedersi.
Nel 1920, firmato l’armistizio, lo studio di Parigi inizia ad essere smantellato e Anna Coleman Ladd ritorna negli Stati Uniti, dove continua ad occuparsi di arte raccontando in innumerevoli interviste dello studio parigino e delle sue maschere. Grazie alla sua fama, nel 1932 sarà nominata Cavaliere della Legion d’Onore francese. Morirà a Boston nel 1939, pochi mesi prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Nello stesso periodo, ispirate da queste esperienze e dall’esempio di Anna Coleman, si sviluppano tecniche di chirurgia plastica ricostruttiva con l’obiettivo di intervenire in modo sempre più efficace sulle devastanti menomazioni e ustioni prodotte da armi da guerra sempre più micidiali.
1 Michele Caccamo, Fili di rame e d’amore. Dal diario inesistente di Anna Coleman Ladd, Elliot, 2021.
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