12 Mag La malvelata
di Ale Ortica
Liliana e Salvatore continuavano a discutere come se lei non fosse presente, come se si trattasse di un gatto o un canarino, come se la cosa non la riguardasse perché la gravidanza è una cosa da grandi.
«Salvato’ parliamoci chiaro, questa ragazzina non può tenersi il bambino, non è una persona autonoma, responsabile, pensa quella creatura come potrebbe crescere con noi a fare da genitori e lei, che cosa? Una specie di sorella? Cugina? Amichetta? Cosa le facciamo fare? Togliti quest’idea.» incalzava la mamma.
«Metti che lei lo volesse tenere, che facciamo Liliana? La leghiamo e la portiamo in ospedale? È pure maggiorenne, dai, siamo seri!»
«A parte che essere maggiorenni non c’entra un ciuffalo se poi il ragazzino lo dobbiamo crescere noi, e comunque a diciott’anni sei grande solo per la legge, questa è una ragazzina imbecille che si fa mettere incinta dal primo stronzetto che passa» enfatizzando il pensiero con un ampio giro di braccia, come a voler evocare l’enormità del disprezzo che provava per la figlia.
«E va bene, se ci sarà da aiutare sta figlia lo faremo, santo dio! È sempre un nipote, che cazzo!»
«Intanto non ti permettere di nominare Dio in mia presenza, adesso ci manca solo un bestemmiatore in casa, oltre a tutto il resto» cenno esplicativo rivolto alla ragazza, un gesto di scatto con gli occhi severi che scintillavano come fuochi d’artificio a Capodanno, le mani chiuse a pugno strette sulla pancia.
«Ma se lei non vuole abortire…» cercava di imporsi lui,
«Lei fa quello che diciamo noi, punto. Se sei così cretina da farti ingravidare» una smorfia di disgusto le stava trasfigurando la faccia, «non puoi decidere una cosa così importante.»
Il padre si voltò di scatto, come se temesse di poter commettere un atto terribile continuando a fissare la moglie e con un tono grave, un ringhio minaccioso, misurò con grande fermezza le parole «è mia figlia», poi come una foglia che scivola in un fiume anche la sua fermezza vacillò e il tono divenne lamentoso «non te la lascio fare a pezzi.»
Sara era già a pezzi, la personalità ancora non completamente formata era devastata già da mille crepe che continuavano ad aprirsi durante ogni discussione dei genitori sul feto che portava in grembo. Tra le cose che una persona immatura e poco strutturata come lei non avrebbe mai ammesso c’era il fatto che la mamma aveva ragione: era stata stupida, non aveva pensato a nulla, preservativi manco considerati, le malattie veneree erano cose da film, e naturalmente il grande classico, il nero che va bene su tutto, lui sapeva quando fermarsi. Se avesse permesso a sé stessa di entrare in comunicazione con la profondità della propria coscienza, cosa che si guardava bene dal fare perché troppo dolorosa, avrebbe dovuto ammettere che ogni insulto di sua madre era meritato e per il padre stava provando una pena insopportabile. Anche lui pensava le stesse cose che pensava mamma, era ovvio, chi non l’avrebbe giudicata con la stessa severità? Però la difendeva e soffriva per lei, marchiata a vita, qualunque decisione avessero preso al posto suo.
Il giorno dopo avevano un appuntamento al consultorio per discutere con uno psicologo che avrebbe valutato lo stato emotivo di Sara, un assistente sociale che avrebbe fornito tutte le possibilità percorribili nel caso la ragazza avesse deciso di portare avanti la gravidanza, un ginecologo per una prima ecografia del feto e un volontario di un’associazione che si occupava di donne in difficoltà. Sara venne naturalmente accompagnata dalla madre, mentre il papà avrebbe atteso l’esito dei colloqui, pronto a sostenere la ragazza, qualunque decisione avesse preso.
Sara si sentì finalmente protagonista dopo quella prima settimana passata chiusa in casa a sentire le liti dei genitori e a subire il silenzio rabbioso della mamma che le rivolgeva la parola solo per poterle rendere palese il suo sconfinato risentimento per averla resa madre di un essere sporco.
Furono tutti molto cortesi con lei, la mamma fu invitata a restare in sala d’attesa, era la prassi, a meno che non fosse la ragazza a richiederne esplicitamente la presenza, e con un’esplosione di inimmaginabile forza d’animo Sara dichiarò subito di voler affrontare i colloqui da sola.
Le chiesero cosa desiderasse fare e Sara ripose che non avrebbe voluto portare avanti la gravidanza, grata del fatto che finalmente qualcuno l’avesse interpellata. Non argomentò la decisione e non le fu chiesto di farlo, ma se avesse dovuto discuterne avrebbe detto che non si trovava nella situazione giusta per crescere degnamente un figlio, non era autosufficiente, genitori oppressivi, no dico, avete dato un’occhiata a mia madre? Non posso permettere che un altro bambino venga cresciuto da quella donna, è una questione che riguarda il bene del bimbo (non dire “feto”).
Ma la verità non l’avrebbe mai rivelata altrimenti sarebbe stata rivoltata come un calzino in cerca di un sentimento materno che lei non lo sapeva ma da qualche parte doveva pur esserci, sei una donna, nasci con l’imperativo di desiderare la maternità, vediamo come estorcerti un po’ di umanità piccola stronza bastarda che non vuole adempiere ai propri obblighi biologici.
Si sentiva sbagliata come sempre, era una persona tutta sbilenca, male assemblata, magari i pezzi non erano originali, mannaggia a te madre che mi hai creata al risparmio e poi non ti sei presa la briga di accettarmi per l’obbrobrio che sono. Non lo voleva quell’impegno, inorridiva all’idea di passare da una prigione a un’altra, perché da quella cupola materna forse un giorno sarebbe evasa, ma dalla condizione di madre non sarebbe potuta mai più sfuggire e lei non voleva che ciò accadesse. Quando ebbe il sospetto di essere incinta non provò meraviglia e stupore, non si sentì una magnifica dea in grado di creare la vita da un pezzo di sé che sempre sarebbe stato più importante per lei della propria esistenza, no, scordatevelo.
Sara immaginò quel sacro progetto di liberazione dal proprio stato di prostrazione andare in pezzi, anzi, ebbe chiaro in testa quanto quel disastro avrebbe aumentato i suoi problemi. Adesso non desiderava spiegare le proprie ragioni, non aveva nessuna intenzione di provare a farsi comprendere e compatire, non si considerava neanche una vittima, non più perché stava prendendo una decisione e lo stava facendo per sé stessa, perché per qualcuno lei era importante, per Sara la propria vita valeva qualcosa e finalmente lo aveva ben chiaro.
Aveva sbagliato, grazie tanto fin qui ci siamo, e quell’agglomerato di cellule, quel progetto di uomo ancona abbozzato lei lo avrebbe amato, sissignore, lo avrebbe guardato un giorno come una emanazione di sé, quel sasso che getti lontano e non sai dove sei stato capace di spingerlo, ma appunto, forse lui ce l’avrebbe fatta, mentre lei sarebbe rimasta con le radici avviluppate nel pantano, senza aver potuto mai esplorare quello spiraglio di vita che aveva appena potuto sbirciare e le stava piacendo tanto.
Adesso sapeva come poteva essere dura e senz’appello la vita, si stava alzando da terra nonostante i calci che le stavano piovendo da tutte le parti e sapeva che se avesse tenuto duro sarebbe riuscita a ripartire da dove aveva interrotto. Adesso capiva che per lei studiare era importante, voleva essere brava e voleva imparare a guardare in faccia le persone quando le parlavano, desiderava far parte di qualcosa che fosse tutta per lei, non era disposta a condividere il proprio spazio vitale con nessun progetto di essere vivente. Lo capiva solo adesso perché dopo aver fatto il test di gravidanza valutò per un paio di giorni l’idea di uccidersi e quindi dialogò per diverse ore con la Morte, chiedendosi se dopo la vita che conosciamo ci fosse ancora un posto dove la coscienza potesse esistere. Interpellò la fede che sentiva di provare, la mise alla prova in un certo senso, era davvero così convinta che il suicidio le aprisse la possibilità di raggiungere uno stato migliore? No, non ne era sicura, non lo escludeva ma non ne era certa e più ci pensava, più si sentiva rinvigorita, desiderosa di tenersi questa esistenza il più possibile e di smettere di trattarsi male. Davanti a quell’ipotesi di annullamento totale ogni altra opzione non sembrava più così spaventosa, e quindi alla fine trovò il coraggio di guardarsi dentro e chiedersi con tutta la sincerità della quale era capace: cosa vuoi tu? Si rispose, voglio entrare in gioco, non desidero sacrificarmi, non credo che un figlio debba essere un simulacro che mi definisce come donna in base a quanto sono disposta a soffrire per lui, non mi immagino più felice con un figlio. Voglio essere felice e scusate se voi che non avete mai sbagliato meritate di avere questa aspirazione mentre io no, ma è questo che voglio e lotterò quanto e più di voi per ottenerlo.
Al consultorio fu messa in condizione di non subire quei colloqui come una violenza e Sara fu soddisfatta delle varie opportunità che le furono esposte. Uscì dall’ufficio dell’assistente sociale per raggiungere la madre che nel frattempo era riuscita a lamentarsi con tre operatori, due puerpere e alcune donne in attesa per fare esami di prevenzione, di quanto tempo stesse perdendo a causa della figlia, che detto tra noi è una sciagurata, una ragazzina che dio solo sa come si comporta coi ragazzi, e intanto quelli inguaiati sono i nonni che devono assumersi la responsabilità di crescere i nipoti, con figlie così irresponsabili, eh signora capita, non è una tragedia, pensi chi non ne può avere, «pensi che io ho il cancro e mi hanno messo in menopausa a trent’anni, io un figlio lo avrei voluto, ringrazi Dio!».
Sara si sedette vicino alla mamma subodorando di essere stata al centro di ore di pettegolezzi e cattiverie e con voce flebile la aggiornò sul da farsi «ho parlato con tutti, il dottore mi ha detto che va tutto bene, sono di sette settimane. Mi hanno fatto riempire dei moduli, adesso resta solo un altro incontro, uno che, boh, non ho capito, di un’associazione, non lo so.»
«Un volontario, è un operatore che ti spiega in che modo ti può aiutare se sei in difficoltà» si inserì una donna che era in attesa di una visita di controllo, «no, te lo dico perché io ho due figli e sono sempre stata seguita dal ginecologo del consultorio e ho fatto pure i corsi preparto.» continuò sorridendo, come un bambino che si immerge nel suo mondo di fantasia «che poi vabbè, col primo ho fatto tutta la preparazione al parto, il rilassamento, venivo qua col tappetino da yoga, speravo di imparare queste tecniche per non sentire tanto male, poi… oddio mica ti voglio spaventare, cioè qualcosa fa, poi per il secondo ho rifatto il corso giusto per stare insieme con altre mamme, per rilassarmi, capito? Comunque tranquilla, vedrai che pure quello passa e non ci pensi più.»
«Guardi che stiamo valutando un’interruzione di gravidanza» rispose la mamma, gelida, con due fessure spaventose al posto degli occhi e le labbra strette come una ferita.
«Ah…» rispose la donna paralizzata dalla vergogna e dalla consapevolezza di aver messo in difficoltà la ragazza, «comunque il dottore è bravissimo» aggiunse con poca convinzione.
Sara non si sentì affatto in imbarazzo, anzi, dentro di sé sorrise del fatto che invece era la mamma ad essersi messa nella condizione di creare imbarazzo a tutti i presenti. Quando sei in una situazione disperata cominci ad apprezzare certe piccole soddisfazioni.
Entrò in sala d’aspetto un signore arruffato, con la faccia rotonda e i capelli in disordine, di quelli che immagini siano sempre così, è il meglio che riescono a ottenere dal proprio aspetto e perciò ispirò subito una certa simpatia a Sara e una sorta di contenuta ostilità alla madre.
Si piazzò in mezzo alla stanza con una cartellina in mano, anch’essa aveva un’aria trasandata, sembrò cercare una stabilità allargando un po’ le gambe tozze e chiese «vediamo, c’è Sara?», la ragazza alzò la mano sorridendo come se fosse a scuola e lui la ricambiò con una risatina smorfiosa «eccoti, dai vieni, tocca a te. La signora è tua mamma? Venga signora, si accomodi». Sara non comprese perché sua madre dovesse essere invitata a quei colloqui che riguardavano solo lei ma in definitiva era l’ultimo, quello meno importante con un volontario di non si sa quale associazione alla quale non sarebbe mai ricorsa perché tanto aveva deciso di interrompere la gravidanza, dunque non aveva importanza.
Lo seguirono in un ufficetto piccolissimo e disordinato con una scrivania che sembrava una cattedra, forse lo era, con due sedioline di legno scrostato davanti che furono subito occupate dalle due donne. Lui si sedette in maniera informale sul bordo della cattedra, una gamba a terra e l’altra in bilico, come uno studente che esplora quel simbolo di potere durante il cambio dell’ora.
«Allora, Sara, ho sentito che stai pensando di interrompere la gravidanza» disse alla ragazza che annuiva abbassando gli occhi inscenando una posa di tristezza per l’ineluttabilità di quell’evento. Non voleva essere risucchiata nella triste e ben nota posizione di chi si deve giustificare, come ogni volta che tradiva le pur bassissime aspettative dei genitori e si sentiva come una bambina che nascondeva dietro la schiena le mani sporche di cioccolata, sei stata tu, dillo che sei stata tu, perché lo hai fatto? Voglio sentirtelo dire ad alta voce.
«Non voglio certo convincerti a fare ciò che non vuoi», disse lui buttandole addosso due occhi pesanti, carichi di comprensione, con una voce flautata, un sorriso appena accennato, «sono qui solo per mostrarti le varie opzioni che forse non sai di avere», si spinse in avanti con la schiena invadendo lo spazio vitale di lei «ma solo se tu mi chiederai di elencartele, sai, non voglio che tu ti senta sotto pressione.»
Per sottrarsi alla stretta di quell’invasione di campo Sara si girò verso la madre e la vide assorta, come se stesse cercando di ricordare qualcosa, e intanto fissava quell’uomo con un interesse inedito.
Liliana fece un gesto improvviso, un rapido movimento delle pupille verso l’alto, c’era quasi, ci stava arrivando, e poi disse con una nota di entusiasmo spontanea e irrefrenabile «lei è… il signor, scusi, professore? È Pervita, giusto? L’ho vista anche ieri, era sul quarto canale se non sbaglio, giusto?»
«Non si sbaglia signora» rispose lui spalancandole un sorriso che sembrava fin troppo grande per il suo viso, Sara si chiese come faceva a starci tutto dentro. Liliana aveva cambiato totalmente atteggiamento, sembrava che la giornata carica di nubi funeste fosse appena stata illuminata da un tiepido sole di primavera.
«Guardi, è stato interessantissimo il discorso sui pacchi alimentari da donare alle sciagurate che restano incinte senza un marito, anzi, guardi, vorrei partecipare offrendo una spesa, come si fa?»
«Poi le lascio del materiale con tutte le nostre iniziative, cara signora, dobbiamo proteggere la vita sempre e comunque, ogni creatura è importante,» continuò a ostentare quel sorriso innaturale mentre tornava a fissare Sara «ma oggi, cara, siamo qui per te. Mi è stato affidato l’onere di illustrarti quali scenari comporterà la tua decisione di privarti del bene prezioso della maternità, anche se sono sicuro che nelle prossime settimane avrai modo di ragionare con maggior lucidità e informazioni e saprai essere saggia e matura, nonostante la tua giovane età» continuò con un tono accondiscendente e mellifluo.
Pervita offrì a Sara un dépliant pieno di immagini che a prima vista potevano sembrare mete turistiche, fotografie a tutta pagina su carta lucida con piccolissime didascalie che potevano essere panorami campagnoli di piccole baite in riva al lago, venite a passare l’estate da noi, è fresco, l’affitto è conveniente, grandi sconti, i piccoli non pagano.
La ragazza cominciò a sfogliare con poca attenzione quella pubblicazione profumata di fogli lucidi, piena di verde, mentre Pervita la fissava sorridente, studiandone le reazioni, in attesa di un barlume di discernimento, come se fiutasse l’odore del disagio e se ne cibasse. Era in attesa di una reazione che però arrivò da Liliana che quasi fu scossa da una specie di tremito e esclamò a mezza bocca «Signore mio Dio, ma questo è un… o mi sbaglio?» non osava dirlo e il signor Quarto Canale non aveva intenzione di rubarle le parole di bocca, dillo che sei stata tu, perché lo hai fatto? Voglio sentirtelo dire ad alta voce. La guardava compiaciuto, annusava l’odore del raccapriccio e ne godeva. Liliana prese fiato e espresse con tono incredulo una domanda implorante «è un cimitero questo che sto vedendo?»
«Ma certo, cara signora, certo. È il modo in cui noi persone civili elaboriamo il lutto e continuiamo a stringere a noi, in qualche modo, le persone che purtroppo abbiamo perso. Ogni aborto non è altro che la separazione terribile tra una mamma e il suo piccolo bimbo e quella creatura innocente ha pur diritto a una sepoltura in terra consacrata, non crede?»
«Beh credo che…» rispose lei incerta, confusa, cercando non tanto le parole quanto di capire se ciò che stava guardando le sembrasse normale.
«Intendo, lei creeede?» enfatizzando il verbo, «lei è una donna di fede, cara signora?»
«Oh, certo, ecco, ma sì, naturalmente, siamo una famiglia per bene sa? L’errore di mia figlia è stato dettato dalla giovane età, una terribile sciocchezza compiuta per ingenuità, non pensi che la ragazza vada in giro a intrattenersi con chissà chi, insomma, crediamo, crediamo tutti.» sottolineò Liliana con una veemenza isterica.
Gli occhi di lui continuavano a cercare una reazione di Sara.
«Capisci cara, questo è il luogo dove il tuo bimbo verrà sepolto, con la sua piccola lapide, e noi dell’associazione Per-Vita, che è un gioco di parole naturalmente, perché l’ho fondata io, sapete?» fece una panoramica sui due visi abbandonandosi a quella digressione espressa in tono lascivo «dicevo, noi dell’associazione ci impegniamo a tenerla a posto, la scritta del nome ben visibile e fiori e giocattoli ogni mese.»
«Ma non ha un nome, è un… feto… che nome?» Sara si scosse dallo shock iniziale e cercò di comprendere quella situazione assurda.
«È un bimbo cara, molto piccolo ma in tutto e per tutto il tuo figliolo e certo, se tu fossi così avventata da prendere una decisione deeefinitiva» rispose lui enfatizzando l’aggettivo, «non riusciresti a dargli neanche un nome, è ovvio, povero piccolo, ma stai tranquilla, ci pensiamo noi dell’associazione a dargliene uno e naturalmente sulla tomba scriveremo, non so, Benedetta figliola di Sara, col tuo cognome, in modo che tu e i tuoi parenti non possiate mai confondervi in quel ginepraio di piccole tombe d’infanti, voi capite.»
«Che idea caritatevole» rispose Liliana «fate tutto questo per aiutare le povere infelici senza testa, ma come fate a tenere a posto questi luoghi compassionevoli? Chi vi sovvenziona?»
«Lo Stato cara signora, questo è il vero welfare, il servizio al cittadino. A mio modesto avviso è obbrobrioso che un innocente e indifeso cittadino venga strappato dal ventre materno coi soldi del contribuente, ma naturalmente lungi da me mettere in discussione la legge sull’aborto, ci mancherebbe, noi siamo per la libertà e per una responsabile scelta di vita. Se poi una donna decide di porre fine alla vita del suo bimbo e badi che secondo me ciò accade perché i servizi sociali non informano in maniera appropriata su tutte le meravigliose alternative a…» si chinò stavolta in direzione di Liliana e abbassò la voce, con atteggiamento complice «all’assassinio di un figlio», la donna annuì in segno di approvazione e comprensione «allora noi aiutiamo le famiglie ad affrontare il triste trapasso» disse lui tornando a una postura eretta.
Sara avvertì un senso di disgusto osservando come da un buco della serratura quell’orrendo amoreggiare tra la madre e quell’uomo che sorrideva come un gatto, con denti aguzzi e le pupille dilatate, sembrava proprio che si stesse cibando del raccapriccio di lei.
«Io non voglio che il mio nome sia esposto su una lapide e neanche che qualcuno gli dia un nome» aveva detto “gli dia”, lo stava oggettivando, se ne rese conto dopo qualche secondo mentre il sorriso di Pervita mostrò un tremore, un fremito di piacere e, mio dio, di cupidigia. Lui la stava letteralmente succhiando.
«Mia cara ma è la legge, siamo riusciti a far approvare questo provvedimento di civiltà dopo anni di lotte politiche e finalmente una mamma ha diritto a una tomba su cui piangere la sua creatura mai nata a causa dei condizionamenti sociali ai quali voi giovani siete esposte, non è vero mia cara signora?» disse voltandosi improvvisamente verso Liliana, «ma infatti, certo, queste scioccherelle sono soggiogate dai social, dagli spot pubblicitari e santo cielo, dalla musica pornografica che ascoltano e poi si arriva a questo, e per fortuna ci sono bravi cristiani come voi che dedicano la vita ad aiutare queste stupidine sventurate.» Liliana aveva ormai ripreso forza e vitalità.
«Mamma ti ricordi che sono due settimane che litighi con papà perché hai preso la decisione di farmi abortire, senza neanche chiedere cosa volessi io? E comunque io non voglio proseguire con la gravidanza.»
«Era una possibilità da considerare, cosa deve fare una madre davanti a una situazione del genere, cosa?» rispose Liliana con tono implorante, rivolta a Pervita, come se lo pregasse di giustificarla.
«Ma naturalmente signora, cosa può fare una nonna se non accompagnare con comprensione e affetto il percorso di consapevolezza e crescita della futura mamma? Lei, mia cara nonna, non ha sbagliato nulla, anzi, io la vorrei abbracciare.» rispose scendendo dalla cattedra e protendendosi oscenamente verso la donna che quasi esplose in un pianto adorante e si lasciò avviluppare da quella massa di caparbia e appiccicosa volontà predatoria.
Pervita si ricompose e rimase in piedi, solamente appoggiato alla cattedra, incombendo su Sara, seduta sulla sua sediolina da alunna con quell’osceno dépliant in grembo.
«Comprendo il tuo stato d’animo adesso che ti rendi conto di cosa voglia dire davvero uccidere un bambino, cara ragazza. Purtroppo, questa consapevolezza si raggiunge solo guardando coi propri occhi cosa vuol dire seppellire un figlio. A proposito, per aiutarti a capire meglio quale miracolo meraviglioso si stia verificando nel tuo corpo, abbiamo qui una cosa per te» le disse con una piccola esplosione di entusiasmo, come se le avesse appena rivelato che era la vincitrice della lotteria di Capodanno, evviva, guarda il maxi-assegno!
Si incamminò verso un angolo della stanzetta alle spalle delle due donne che si voltarono e videro un macchinario dall’aspetto antiquato, parcheggiato su un carrello da tv. Pervita lo trascinò accanto a Sara e con un gesto teatrale lo indicò allungando un braccio «mia cara ragazza, questo è l’ecografo per sentire il battito del cuore della tua creatura. Non sei emozionata?»
«Cristo, no!» sobbalzò la ragazza inorridita e sorpresa.
«Sara, non ti permettere! Che linguaggio è questo? Mi scusi, io sono veramente imbarazzata!» si schernì Liliana non riuscendo a sostenere lo sguardo di Pervita.
«Ma no, è normale, è l’emozione, gli ormoni, la gravidanza, la viiita!» rispose lui con la consueta teatralità, «e soprattutto è la legge, mia cara ragazza. Abbiamo chiesto che questa pratica venisse resa obbligatoria per controllare che mamma e figlio stiano bene, che tutto proceda nel modo migliore, non vorrai rischiare di avere le fibrillazioni tesoro?»
«Ma certo, dobbiamo fare questo esame, dobbiamo sentire se va tutto bene, o mio Dio che emozione, ma adesso? Lo facciamo adesso?» chiedeva Liliana con l’entusiasmo di una bambina e Pervita le prendeva le mani e la guardava come un innamorato «certo mia cara nonna, non vede l’ora eh? È entusiasta vero? Non è magnifico?»
«Sì, certo, è fantastico, stiamo per sentire il battito, o mio Dio che emozione, non sei eccitatissima?» chiedeva a Sara continuando però a guardare gli occhi di lui come se non potesse più sottrarsi.
«No, non voglio…» Sara stava per crollare, sentiva già le lacrime che bruciavano gli occhi, no, lasciatemi stare, non voglio, continuava a rispondere nella sua testa senza riuscire più a parlare.
«È la legge, vedrai che emozione, adesso stai tranquilla» rispose l’osceno individuo mentre si permetteva di metterle le mani addosso, la toccava, le mani che frugavano tra la felpa e i pantaloni per trovare un’apertura. Si divincolava Sara, non voleva essere violata da quelle mani immonde, mi aiuti signora, facciamo in un attimo, e Liliana che le intimava di lasciar fare, in un attimo le furono sopra come un branco di bestie necrofaghe che si avventano sul corpo fatto pasto, se lo contendono, ne fanno scempio.
Un suono ritmico, velocissimo, il battito accelerato, rilassati cara, tra poco sarà tutto finito, sarà tutto finito, o sarai finita? Cosa dicevano le fiere mentre lei boccheggiava e sentiva solo il dolore e l’umiliazione di artigli ferini dentro la pelle, la membrana della sua volontà squarciata, la paura e la vergogna sulla pelle come perle di sudore.
Calma tesoro, sarà presto la fine.
*
Ale Ortica è lo pseudonimo dell’autrice di diversi racconti. Collabora con la rivista “Sdiario”. Ha collaborato con “Faremusic” di Alberto Salerno e “Syndrome Magazine”. Alcuni suoi articoli compaiono nel libro “Syndromi a caso e come curarle”. Il suo romanzo #chemioGirl è in uscita presso Giovane Holden Edizioni.
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