26 Mag La pillola
di Valentina Riva
Alnoir si trascinò fino al ponte per prendere aria, ma il vento aveva deciso di assopirsi dietro le colline, tra le onde infuocate che si muovevano nel cielo. Avrebbe voluto piangere tutte le gocce del mare denso che premeva contro il suo petto, ma gli occhi erano già gonfi dei lunghissimi capelli della sua amata: ondeggiavano nell’aria statica brillando dei colori del tramonto. Era su quel ponte che l’aveva conosciuta. «La vita è morte senza Saline!» urlò sopra il respiro dell’acqua. Si voltò verso suo fratello, che lo seguiva a distanza accompagnato dal cane, e placò la sua voce: «Ti prego Arenó, solo tu puoi aiutarmi. Dammi le tue pillole, altrimenti… »
Arenó raggiunse il fratello con passo lento e claudicante: «Te l’ho detto tante volte. Ci vuole tempo per la sperimentazione. Un giorno, se tutto andrà bene, potremo usarle. Ma ora no».
La notte calò, brusca e pesante come una tenda di velluto alla fine di uno spettacolo, mentre la luna si faceva sottile, un occhio socchiuso su un volto blu celeste. E saranno state le lacrime che tremolavano sulle pupille, ma ad Alnoir sembrava che le stelle vorticassero dietro le ombre fruscianti dei pini di mare. Di Saline, ora era il volto a riempire i suoi pensieri. Rivedeva la salsedine sulle labbra e l’acqua di mare che scendeva dagli occhi socchiusi, fulva della luce violenta del mezzogiorno di agosto. Nella mente di Alnoir, Saline scivolava nella morte una, due, tre… infinite volte. E infinite volte, gli appariva con le dita bianche intrecciate sul petto fasciato dal vestito da sposa, lucido e morbido come i cuscini che imbottivano il letto di legno dove l’aveva lasciata a dormire per sempre.
L’occhio della luna si aprì e rischiarò il tavolo attorno al quale sedeva Alnoir, di fronte a tre spicchi di mela che arrugginivano alla luce stanca, mentre le falene continuavano a girare intorno alla lampada, ostinate come le sue ossessioni. Anche quella sera Alnoir scrisse poesie; parole buie, succubi della sua angoscia, perché da sempre scriveva una rima al giorno, impregnando le parole delle sue emozioni più forti. Ai suoi piedi c’era il cane, con la testa abbandonata sulle zampe incrociate, afflosciato sulle ciabatte della padrona scomparsa, accanto alla ciotola piena. «Mangia Azúr, almeno un po’», ma il cane guaiva e scansava il muso.
Arenó rimaneva in disparte, al lato del caminetto, con l’ombra rossastra della fiamma che, tremando sul suo volto, nascondeva il pallore. Sedeva ogni sera più curvo, dopo una giornata passata in laboratorio, tra polveri e acidi. All’improvviso premette una mano contro il petto, mentre chiudeva le spalle e strizzava le palpebre. Poi guardò il fratello e forzò un sorriso: «Sto bene, non è nulla».
Alnoir scattò in piedi, lasciando la sedia balzare indietro: «Il tuo cuore va sempre peggio. Vado a chiamare un dottore».
«No, non ce n’è bisogno. Mi serve solo di un po’ di tranquillità.»
Ma quella notte, Alnoir la passò a fissare un angolo della parete, tra il dolore di quello che era già successo a Saline e quello che sarebbe potuto accadere ad Arenó, affetto sin dalla nascita dalla sindrome del cuore lento.
Quando finalmente si assopì, sordo anche al canto del gallo, Alnoir fu svegliato dalla lingua di Azúr che bagnava la sua guancia. Il cane scodinzolava con le zampe appoggiate sul letto; poi balzò a terra, girò su se stesso e corse in cucina. Alnoir si stropicciò gli occhi e lo seguì. La ciotola accanto ai piedi del tavolo era vuota. «Sembra funzioni», con un’ampolla di vetro in una mano e una pillola verde nell’altra, Arenó sorrideva sulla soglia del suo laboratorio. «Non è più triste», continuò, tenendo lo sguardo fisso su Azúr che continuava a saltellare e ad agitare la coda. Alnoir bloccò il flusso del suo respiro e si avvicinò al fratello, con la mano tesa, aspettando che la pillola gli fosse consegnata sul palmo. «No, non ancora Alnoir. Non conosciamo gli effetti a lungo termine».
Ma il tempo era liquido e niente e nessuno sarebbe mai riuscito a rallentare la velocità con cui scorreva. Il dolore, invece, rimaneva fermo, aggravato dalla tristezza degli eventi passati e dalla paura di quelli futuri.
Dopo averla risucchiata, il mare aveva restituito Saline insieme a un po’ di schiuma e a una manciata di conchiglie. Alnoir ricordava i capelli che andavano e venivano insieme all’acqua, come alghe rosse. Ogni volta che si fermava a pensare, sentiva quella chioma folta riempirgli lo stomaco. Di Arenó, invece, riusciva a udire il battito del cuore, che pure aveva il suono delle onde che morivano sulla sabbia. Shh, Shh, Shh… e poi più nulla. E in quel nulla, Alnoir sussultava; perché a volte il silenzio che irrompe nel rumore fa più paura del rumore che irrompe nel silenzio. Le poesie di quei giorni riflettevano tutta l’angoscia del poeta.
Di notte, i pensieri di Alnoir si facevano più truci: se la luce dentro è già spenta, quando cala anche il sole, il buio è completo. E fu di notte, allora, che Alnoir si alzò. Si spinse nella penombra, fino ad arrivare al laboratorio. Aprì il cassetto della scrivania, le ante degli armadi e i barattoli di vetro, ma era nella scatola di ferro che le pillole erano conservate. Ce n’erano centinaia. Ne ingoiò una e si sedette a fissare il riflesso tondeggiante della lampadina sulla finestra. Niente. La disperazione circolava ancora nel suo sangue. Lasciò il laboratorio e le sue speranze, e tornò in camera.
Ma quando la mattina si svegliò, sentì qualcosa di luminoso dentro e fuori di lui. Il suo letto era più morbido e caldo del solito; calda e morbida era anche la luce che lo abbracciava dalla finestra. Alnoir si affacciò e respirò l’aria che sapeva di limoni, nonostante fosse Novembre; con Azúr al suo fianco, uscì in giardino e camminò a piedi nudi fino al mare. I granelli di sabbia si sgretolavano sotto il suo peso come una carezza fresca e ruvida. Alnoir sorrise all’acqua, che aveva smesso di essere una minaccia ed era diventata una sirena.
Solo con l’arrivo della sera, il suo dolore cominciò di nuovo a infiammarsi e a crepitare, come brace sotto un pezzo di legno secco. Aspettò che Arenó andasse a dormire e prese una nuova pillola. E al mattino, la luce tornò ad abbracciarlo, la sabbia ad accarezzarlo e il mare a cantare per lui. Giorno dopo giorno, pillola dopo pillola, i suoi versi cominciarono a virare verso toni sempre meno torbidi.
Alnoir passava le sue giornate all’aperto, mentre il fratello continuava a lavorare al suo progetto, producendo e analizzando centinaia di pillole contro il dolore dell’anima.
Intanto, i rami dell’uva spina si erano riempiti di piccoli nodi rossi che da lì a qualche giorno sarebbero sbocciati, mentre i peschi cominciavano a riempirsi dei nidi delle upupe.
Dalla cima degli scogli, Alnoir fissava i gabbiani in volo. Le sue pupille seguivano le macchie bianche in movimento, da ore. Non si curava del vento che si era alzato per soffiare acqua sulle sue gambe e sul quaderno che aspettava di essere riempito con i versi della giornata. Un guaito: il mare aveva rapito Azúr. Il cagnolino scendeva e risaliva dal blu, mentre Alnoir restava seduto a guardarlo, stringendo il quaderno sciolto dall’acqua. Era immobilizzato da una specie di calma a metà tra pigrizia e stanchezza. Poi, scosso da un filo d’ansia che balenò nelle sue vene, allungò una mano e tirò Azúr fuori dall’acqua; agitato ma salvo.
Nella notte di trenta giorni dopo, le stelle erano così grosse da sembrare fiori di tarassaco sbocciati su un letto d’erba blu. Alnoir si muoveva piano nel laboratorio, come al solito. Prese tra le mani la scatola di ferro e sollevò il coperchio. Per la prima volta, il contenitore era vuoto. Alnoir, si precipitò ad aprire i cassetti, le ante degli armadi, senza badare al rumore che stava alzando. La voce di Arenó lo raggiunse alle spalle. «Perché mi fai questo? Ti avevo detto che le pillole non erano pronte». Alnoir non rispose, fermo accanto al banco ricoperto di polveri e ampolle. «Da quanto tempo le prendi? Ho paura degli effet_». Arenó cadde a terra con le mani strette sul petto, mentre dalla sua bocca uscì un sibilo: «Chiama un dottore». Ma Alnoir non cambiò espressione. Scavalcò il fratello che giaceva sulla soglia e, con calma, andò a sedersi di fronte al suo quaderno delle emozioni.
Aprì le ultime trenta pagine: tutte bianche.
*
Valentina Riva vive a Dublino da diversi anni. È laureata in Scienze della Comunicazione e in Economia. Di giorno lavora come Finance Manager, di notte scrive. Ha pubblicato il suo primo racconto con Historica Edizioni e ha seguito un corso di scrittura presso La Scuola del Libro. Il suo cassetto nasconde un romanzo in fase di editing, storie varie e pensieri sparsi.
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