17 Giu Carla Lonzi. Per una filosofia della trasformazione. In dialogo con Annarosa Buttarelli
a cura di Gianna Cannì e Ivana Margarese
Da autentica stima verso Annarosa Buttarelli e i suoi studi e dalla passione per la filosofia di Carla Lonzi è nata questa intervista, che riportiamo con sincera gratitudine, mentre nel leggere le risposte sorgono nuove curiosità e la voglia di riprendere un dialogo, desiderio che probabilmente bene incarna lo spirito di quella filosofia della trasformazione che dà il titolo all’ultimo lavoro di Annarosa Buttarelli su Carla Lonzi.
Ivana: Comincio col fare riferimento a un episodio che citi nei ringraziamenti del libro ricordando Luisa Muraro e il suo averti detto: “Se c’è qualcuna che può scrivere di Carla Lonzi senza sopravanzarla con il protagonismo personale, quella sei tu”. Mi è parsa un’intuizione lungimirante e vorrei chiederti di dirmi qualcosa di più in merito.
ARB – Posso aggiungere qualcosa che ha legittimato anche il rigore con il quale ho curato le prime due riedizioni degli scritti di Carla Lonzi, evitando di accompagnarli con prefazioni, postfazioni, notazioni critiche. All’epoca in cui Muraro pronunciava la frase che hai riportato ero sua assistente all’Università di Verona e parlavamo del disagio che ci procurava l’attegiamento della critica filosofica o politica che iniziava a essere pubblicata. Carla Lonzi ha scritto chiaramente che non desiderava essere interpretata nel modo tradizionale che, in effetti, sopravanza l’autore o l’autrice, interponendo tra chi ha scritto e che legge la personalità accademica. Impropriamente, soprattutto nel caso di Carla Lonzi che aveva già pubblicato Autoritratto – prima di Sputiamo su Hegel – un’opera in cui aveva disfatto sia il narcisismo degli artisti sia il narcisismo della critica. Sono una convinta “allieva” dei testi che hanno la potenza della trasformazione di chi li legge e li rilegge. Perché possano fare il loro lavoro bisogna sopportare che non siano sopravanzati da agevolazioni critiche.
Gianna: Nelle prime pagine del volume racconti l’incontro con Sputiamo su Hegel e lo paragoni a una “conversione improvvisa”, a partire dalla quale hai iniziato ad essere donna: perché era quello il “filosofare che stavi cercando”?
ARB – L’istruzione filosofica accademica tradizionale non è una vera formazione, né per i maschi né tantomeno per le donne. Com’è ormai verificato, la filosofia di genealogia maschile è astratta, lo è ancora, è di “sorvolo” della realtà quotidiana, è narcisista e prosegue il supporto a una forma mentis dicotomica. Per una donna assumere una forma mentis estranea alla propria geneaologia di pensiero, occultata ancora oggi nelle università, significa a percorrere la vita senza pensare veramente. Maria Zambrano, una delle mie maestre, ha avuto un’esperienza come la mia mentre stava provando un drammatico disagio ascoltando una lezione sulla categorie aristoteliche. Anche da lei, successivamente alla mia fortunata conversione, ho imparato a coltivare una forma mentis che lavora a partire dall’esperienza, dalla realtà così com’è, a considerare che per interloquire con la trascendenza della realtà non si può e non si deve “sopravanzarla” narcisisticamente e astrattamente.
Ivana: Trasformazione, esperienza, autenticità e relazione sembrano essere parole chiave del pensiero di Carla Lonzi, che nel suo praticare un’esigenza rigorosa si avvicina alle parole e ai temi delle mistiche. Scrive Carla Lonzi: “Mi sono sempre piaciuti i libri autobiografici di sante. […] Ne leggevo in collegio tra i dieci e i tredici anni e ho continuato dopo a preferirli: li ho avuti presente soprattutto nei momenti di crisi, quando dovevo ammettere un’illusione e trovare la pace interiore da cui ripartire. A Storia di un’anima di Teresa Martin, cioè santa Teresa del Bambino Gesù, sono tornata più volte insieme al Libro della mia vita di Teresa d’Avila. Entrambi scritti su richiesta e per obbedienza, sono in prima persona ed esprimono fenomeni e stati interiori per me naturali e che non ritrovavo altrove. Era un conforto che altre donne li avessero provati e ne avessero parlato con semplicità. Sebbene [fossero] due personalità molto diverse, non vedevo limiti alle loro capacità di indagare e di dubitare: le risorse erano cercate dentro di sé pur nella coscienza che non esistono risorse adeguate”. Vorrei mi parlassi di questa affinità.
ARB – Sostengo, in un capitolo del mio libro Carla Lonzi. Una filosofia di trasformazione (Feltrinelli), esattamente la verità radicale che è contenuta nelle righe che hai riportato: l’evoluzione mentale, sentimentale, politica di Carla Lonzi ha messo radici nelle pratiche filosofiche mistiche, specialmente femminili. Dopo avere compreso il passaggio interiore e mentale di Carla Lonzi, ho approfondito gli studi sulla filosofia mistica che, a mia volta, sento molto affine. Sono arrivata a scrivere un breve saggio (pubblicato sulla rivista “Religioni e società”) dal titolo “La mistica come forma mentis femminile”. Il percorso di Carla Lonzi e i miei approfondimenti sono abbastanza complessi e altrettanto impoortanti da non permnettermi alcun riassunto. Perciò rimando quantomeno sia al capitolo del mio libro, sia al mio testo sulla rivista citata.
Gianna: Nel Diario di una femminista – autentico crogiuolo di trasformazione per Carla Lonzi – appare un nuovo soggetto-donna, un soggetto imprevisto, rivoluzionario: da quali “strappi” nasce questo soggetto radicalmente nuovo?
ARB – Ho definito Carla Lonzi una donna “che sa andare via”. Se n’è andata dall’Università dove aveva una carriera assicurata, se n’è andata dalla curatela e dalla critica d’arte dove aveva già un prestigio conclamato, se n’è andata dal matrimonio e dalla vita della famiglia patriarcale, se n’è andata dal mercato dell’editoria, ecc. ecc. Sono strappi difficili, ma capaci di portare a una spogliazione da ogni compromesso e da ogni retorica stereotipata. Lei stessa ha indicato uno strappo tipico del percorso mistico: la deculturazione o deculturizzazione. La spogliazione ulteriore dai pregiudizi culturali, disciplinari, specialistici e, oggi diremmo, di ogni politicamente corretto. Tutto questo l’ha messa in condizione, attraverso l’autocoscienza con il suo gruppo, a intravedere e poi a consolidare l’esistenza del soggetto-donna, imprevisto e imprevedibile nella storia generale maschile. Un soggetto in grado di dire verità soggettive, imprescindibili e incontrovertibili, contropelo a tutto ciò che è pregiudicato e previsto dalla cultura cosiddetta dominante.
Ivana: Attraverso Carla Lonzi ho scoperto il valore del movimento delle Preziose in Francia, un gruppo di donne colte e coraggiose, che sentivano l’esigenza di uno sguardo nuovo rispetto ai codici che avevano ereditato. Quali sono gli elementi su cui Lonzi mette l’accento parlando di questo gruppo di donne?
ARB – Sappiamo che Carla Lonzi ha fatto studi molto approfonditi sulle Preziose e sul Preziosismo francese, ma non ha potuto completare il suo percorso poiché è mancata nel 1982, in piena ricerca. Stava preparando il libro Armande sono io, uscito postumo sotto forma di appunti, a cura della sorella Marta. Carla Lonzi stava decidendo la copertina e il titolo. Lo spunto per il lavoro sulle Preziose le era stato dato dalla feroce ironia che Voltaire aveva loro dedicato in un testo teatrale, Les femmes savantes. Passata l’indignazione, aveva compreso che l’impresa culturale e politica delle sorelle francesi era analoga alla sua: far nascere un nuovo soggetto politico, rinnovare il linguaggio pubblico, far lavorare l’autorità femminile per il bene di tutti e di tutte, ecc. Non ho la presunzione di aggiungere altro alle intenzioni di Carla Lonzi, visto che non ha potuto portare a termine il suo lavoro.
Gianna: il banco di prova del femminismo radicale, dopo la fuoriuscita dalla cultura androcentrica, è la pratica trasformativa dell’autocoscienza, la relazione tra donna e donna. Su questo Carla Lonzi ha molto da dire ancora alle femministe (e alle donne) di oggi, spesso invischiate in sterili chiacchiere sull’uguaglianza tra i sessi. Vuoi spiegare cosa ha rappresentato per Carla Lonzi la pratica dell’autocoscienza?
ARB – Credo che tutto ha inizio proprio con i processi mistici per arrivare a guadagnare quello che Carla Lonzi ha voluto chiamare autenticità. Poi c’è stato il soggiorno in America dove ha appreso dell’esistenza dei gruppi di “autoaiuto”. Bisogna mettere in conto anche la sua profonda conoscenza delle filosofia hegeliana in cui è centrale il lemma “autocoscienza”. Ha cominciato la sua pratica con i dialoghi confluiti in Autoritratto, una vera prova generale della trasformatività dell’autocoscienza, confluita poi nella pratica principale del gruppo di Rivolta Femminile. Poiché ha scritto Sputiamo su Hegel, possiamo comprendere che questa pratica prende tutt’altro segno rispetto all’invidualismo hegeliano: diventa una pratica relazionale, impossibile da realizzare se non tra donne riunite per arrivare alla verità soggettiva, all’autenticità. Ho approfondito in un testo, L’autocoscienza è rigorosa, pubblicato sulla rivista online Via Dogana della Libreria delle donne di Milano, che allego. Magari può accompagnare questa risposta. Grazie per avermi interpellato.
L’AUTOCOSCIENZA È RIGOROSA
di Annarosa Buttarelli
L’entusiasmo generale per la circolazione rinnovata dei testi di Carla Lonzi rilancia anche l’interesse per la pratica dell’autocoscienza, ma non si tratta solo del ritorno di questa “madre di tutte noi”, perché la parola “autocoscienza” non se n’è mai andata veramente dall’ambiente femminista da quando se ne sono sentiti gli effetti politici e soggettivi, a partire dagli anni ’70 in poi. Tuttavia, ci si chiede se si sa veramente praticare quell’autocoscienza che è diventata quasi un oggetto mitico del cammino femminista. Non so come veniva pratica dal gruppo di Boston che ha scritto Noi e il nostro corpo, ma so come è stata praticata radicalmente nella comunità in cui ho vissuto molti anni della mia vita, la Comunità Filosofica Diotima, ed è per questo che sono perplessa a sentirne parlare con una certa superficialità da alcune, da altre con il giusto tentativo di attualizzarla, da altre ancora non sapendo proprio di cosa stanno discutendo. Se c’è un atteggiamento che non si può tenere di fronte alle pratiche, a tutte le pratiche degne di essere tali, è quello dell’opinione, del “per me è così, per noi è colà”. Le pratiche di cui è intessuta la politica delle donne sono ricavate da osservazioni dell’esperienza, da sistemazioni teoriche elaborate in relazione, dalla possibilità di replicarle in contesti scelti e dalla comprovata efficacia trasformativa.
Ho già toccato il punto cruciale: le pratiche politico-filosofiche sono tali perché hanno la potenza trasformatrice desiderata nei contesti e nelle relazioni in cui si svolgono concretamente. Hanno la potenza di smuovere i blocchi, di tenere in ordine le relazioni, di accompagnare le circostanze nelle quali si mostrano adeguate. Si possono perfezionare, correggere, potenziare, ma con il discernimento necessario. L’opinione proprio non c’entra, letteralmente. Scriveva anni fa Manuela Fraire, psicoanalista, nel Lessico politico delle donne: teorie del femminismo (Fondazione Badaracco-Franco Angeli): “Con pratica dell’autocoscienza facciamo riferimento al principale strumento che il Movimento femminista si è dato in questi anni per un’analisi e un intervento nel reale… L’esperienza dell’autocoscienza non è un processo linearmente codificabile e teorizzabile. È piuttosto un quantum di pratiche da cui possiamo osservare come la presa di coscienza passi attraverso la costruzione di una teoria (non separata da una prassi specifica), che si trasforma attraverso le fasi storiche e le diversità delle donne che si aggregano in uno spazio collettivo, e che non vuole essere perciò solo miglioramento della vita personale di ciascuna.”
Questo avvicinamento alla complessità di pratiche che compongono l’autocoscienza è esattamente corrispondente alla mia particolare esperienza di “costruzione di una teoria non separata da prassi specifiche” in Diotima. E, naturalmente, dalle indicazioni di Manuela Fraire si ricava anche la vocazione politica dell’autocoscienza riguardante la capacità di leggere la realtà e agire in essa, scongiurando la riduzione a cui andrebbe incontro l’autocoscienza se servisse solamente al “miglioramento della vita personale”. Da tutto questo mi pare si ricavi chiaramente il rigore da tenere nella pratica dell’autocoscienza, e che questo rigore debba essere custodito da una donna a cui si riconosce l’autorità necessaria a orientare il lavoro, durante il quale occorre orientare anche i conflitti eventuali perché non diventino distruttivi. È quello che ha tentato di fare Carla Lonzi agli albori dell’autocoscienza in Italia, nel contesto di un gruppo di Rivolta in cui però allignava quell’atteggiamento distruttivo che lei ha nominato come auto–inferiorizzazione. A questo punto, dovrebbe essere più facilecomprendere perché l’autocoscienza femminista richiede radicalità e rigore: non conduce solo alla conoscenza di sé, non indica questo l’ingannevole “auto”, ma piuttosto conduce alla trasformazione della relazione con la realtà data, fino a che anch’essa possa trasformarsi grazie alla presenza del soggetto politico imprevisto: le donne che sanno fare autocoscienza.
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