02 Lug Lady cinema. In dialogo con Valentina Torrini
a cura di Ivana Margarese
Lady cinema è un viaggio attraverso la rappresentazione delle donne nel cinema. Già nel lontano 1929 in Una stanza tutta per sé Virginia Woolf si era già posta la questione della rappresentazione delle donne in letteratura: «E cercavo di ricordare qualche caso, nel corso delle mie letture, in cui due donne venissero rappresentate come amiche. […] A volte sono madre e figlia. Ma, quasi senza eccezione, le donne vengono presentate in rapporto agli uomini. Era strano pensare che tutte le grandi donne della letteratura erano state, fino all’epoca di Jane Austen, non solo viste dall’altro sesso, ma viste soltanto in relazione all’altro sesso. E che piccola parte della vita di una donna è questa! E anche di questa, quanto poco può saperne un uomo, quando la osserva attraverso gli occhiali scuri o rosei che il proprio sesso gli ha messo sul naso». Da cosa è nata l’esigenza di questo libro e come sei arrivata al titolo?
Non vorrei peccare di immodestia paragonandomi alla grande Virginia Woolf, ma la genesi di Lady Cinema nasce proprio da un’esigenza personale: quella, da amante del cinema, di provare a capire come e quali narrazioni filmiche raccontino l’esperienza femminile (ma non solo) in maniera reale e profonda e, per quanto mi riguarda, femminista. Da questa domanda è scaturita una ricerca, una rimessa in discussione di ciò che avevo studiato (e di tanti film che ho amato e con cui sono cresciuta) e, in maniera giocosa e ironica, la struttura di questo saggio breve. Per il titolo, insieme alle editrici, abbiamo giocato con ironia, cercando l’assonanza con un film. Abbiamo scelto Lady Bird, di Greta Gerwig, che è una storia di formazione con una personaggia molto originale ma anche molto vera nella sua imperfezione, che sceglie come vuole essere chiamata e quindi, in qualche modo, dandosi una sorta di auto legittimazione.
Il tuo saggio è anche una guida pratica, in cui si trovano schede di film o di figure femminili del mondo del cinema e ci sono vari consigli su cosa provare a vedere con “lenti femministe”. Puoi parlarmi del metodo che hai adottato nella scrittura?
Il tono del libro vuole essere molto accessibile, come fosse una chiacchierata con un’amica appassionata di cinema e che dispensa consigli su un bel film da vedere o da recuperare. Nella prima parte ho voluto gettare un po’ le basi della storia del cinema, ma focalizzandomi su quella parte rimasta nascosta o addirittura cancellata, cioè il lavoro delle donne che, oltre che grandi dive, sono state anche registe prolifiche (una fra tutte Alice Guy) e spettatrici curiose (son loro le prime fruitrici di cinema). La seconda parte invece è più scherzosa e provocatoria, con una serie di strumenti per attivare, appunto, le proprie lenti femministe, con test da applicare mentre si guarda un film, come il Principio di Puffetta o il Clit test (no spoiler, eh eh eh!).
Nella prima parte del libro a proposito del cinema classico, americano ed europeo (dagli anni Venti agli anni Cinquanta) e del suo stampo patriarcale scrivi: “Le donne, al cinema, diventano figure mitologiche, da una parte monocordi e semplificate, dall’altra innalzate a simbolo perfetto ed eterno. L’impronta sessista nel cinema, infatti, non tende tanto a sminuire i caratteri femminili, ma piuttosto a glorificarli e insieme marginalizzarli; li rende entità assolute e astratte, poste al di fuori della storia. In poche parole, ne fa (s)oggetti eterei, irreali, infallibili, un simbolo a cui aspirare che non ha, però, nulla di vero, in cui non ci si può realisticamente immedesimare. Un falso creato dal desiderio maschile”.
È una riflessione che ho trovato interessante anche perché rende manifesta una prassi non del tutto superata. Mi piacerebbe mi dicessi qualcosa in merito.
Eh già! Questa è la trappola del cosiddetto male gaze, lo sguardo maschile, un termine coniato dalla studiosa femminista e regista Laura Mulvey nel 1971. Si tratta della prospettiva con cui veniva (e viene!) fatto il cinema dagli uomini (che in linea di massima detenevano il potere e le produzioni) per gli uomini. In moto film infatti i personaggi femminili restano al margine della storia e sono solo un oggetto del desiderio, un premio per il protagonista maschile, e mai le creatrici del loro percorso. In questo modo i caratteri femminili sono idealizzati, resi dei simboli, in cui è difficile identificarsi. Hai mai fatto caso a come, nei film degli Quaranta, i volti delle attrici ripresi in primo piano sono avvolti come in un’aura di luce? Ecco, questa è una delle caratteristiche visive del male gaze.
Mi ha molto incuriosita la figura di Dorothy Arzner. Potresti parlarmene?
Dorothy Arzner è stata la prima regista a ottenere un contratto a Hollywood ed era dichiaratamente lesbica: una vera bomba a orologeria per il sistema! E’ stata una delle prima a portare uno sguardo femminile nel cinema e scoprì lei il talento di Katherine Hepburn. I suoi personaggi femminili sovvertivano tutte le regole del male gaze, con caratteri intraprendenti e ribelli. La falena d’argento, del 1933, è la storia di un’aviatrice spericolata e impavida (interpretata da Hepburn) che intreccia una liaison clandestina con un uomo sposato. Arzner girò più di 100 film. Eppure non si studia nei libri… anche questo è patriarcato.
Fai a un certo punto un excursus sui personaggi femminili del mondo Disney mostrando man mano il superamento di stereotipi e rigidità dicotomiche come la netta separazione tra bene e male. Qual è a tuo parere o meglio quali sono oggi i modelli femminili proposti ai più piccoli in ambito cinematografico?
Sicuramente un ottimo esempio sono i film di animazione de regista giapponese Hayao Miyazaki e dello Studio Ghibli, che li produce. I personaggi di questi film, oltre a essere esteticamente non aderenti a stereotipi di genere, presentano sempre dei caratteri complessi che non sono mai del tutto “buoni” o del tutto “cattivi”, come accade proprio alle persone reali, ma hanno luci e ombre e un mix di aspetti positivi e negativi.
In generale comunque, nonostante persistano, soprattutto nei cartoni animati per l* più piccol*, una netta distinzione tra ciò che è da maschi e ciò che è da femmine) stiamo assistendo a una certa apertura nei confronti dell’espressione di genere e alle storie che raccontano le minoranze marginalizzate. Due begli esempi sono, a mio avviso, la nuova versione in live action de La Sirenetta, con un’attrice nera, e il film Nimona, disponibile su Netflix. Il potere della rappresentazione e dell’immedesimazione sono per me alla base dell’importanza delle narrazioni.
A un certo punto del testo scrivi: “Approfittiamo di questo transfer cinematografico: potrebbe rappresentare per noi un momento catartico per salvarci da un’altra sindrome, quella della superdonna. Mi rendo conto che per quanto riguarda questo strumento di analisi, le lenti femministe sono difficili da attivare, potrebbe essere addirittura doloroso farlo: il mio consiglio in questo caso è di seguire la propria sensibilità e il proprio vissuto. Se il film e la sua eroina ci parlano, allora vuol dire che hanno un significato anche per noi. Il dibattito, in fondo, è uno dei terreni più fertili per la crescita”.
Ecco che il film al di là degli stereotipi può essere per chi lo guarda strumento di conoscenza e di libertà nell’immaginarsi in molteplici modi. Vorrei in conclusione riflettere con te su questo.
Prendo in prestito per questa chiusa, le parole che Marina Pierri ha usato nella prefazione del libro e che spesso leggo nelle presentazioni: «La lotta per la parità ovviamente non tocca solo la rappresentazione, ma la rappresentazione è uno dei gangli fondamentali di una società nella quale essere libere. Non siamo solo eterosessuali, non abbiamo solo corpi filiformi, non siamo solo abili, non siamo solo bianche e benestanti. Siamo grasse, nere, con disabilità, neurodiverse, non-binary, lesbiche, bisessuali, trans, madri, non madri. Non siamo disposte a subire il ricatto della forza e del “dovresti essere”».
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