Vulcaniani

di Ale Ortica

Era arrivata due settimane prima insieme a mamma, papà e il fratellino che sarebbe nato tra un paio di mesi. Tati era una scugnizzetta di otto anni, capelli riccissimi a formare un milione di treccine colorate che la madre aveva lavorato per ore, voleva farla contenta, farla ridere come solo lei sa fare. La bimba era di una bellezza imbarazzante, gli occhi neri che brillano come tizzoni e ti guardano dentro, capiscono subito chi sei e se è il caso di rivolgerti un sorrisetto furbo, piccola intrigantella che non conosce imbarazzo.

Guardava fuori dal finestrino e tutto le sembrava fantastico, panorami esotici, i vestiti leggeri e i capelli svolazzanti delle donne, la stupenda estate italiana con tutti quegli odori di cibo e profumi frizzanti lasciati nell’aria dagli adulti indaffarati, come stradine da seguire e godere. La birbante si infilava proprio in quelle scie di dopobarba e acque di colonia, di capelli appena asciugati e creme per il sole, camminava dietro le persone e le mangiava col naso, se le divorava tutte. Ogni volta le mani grandi di papà la riacchiappavano e la riportavano tra le braccia di mamma, oppure uno di quei signori italiani che lavoravano negli alloggi avvertiva i suoi passi leggeri, si voltava, si inginocchiava per guardala dal basso in alto, e tu chi sei piccoletta? Non ce la facevano mai a restare seri mentre Tati faceva le sue smorfiette col naso arricciato e spesso le regalavano una caramella o una mentina, qualunque cosa avessero in tasca, poi le prendevano la manina curata, un anellino di metallo con una lacrima brillante che le aveva regalato la nonna prima di partire e la riaccompagnavano dai genitori lasciando che si esibisse nei suoi allegri passi saltellati.

Ora si annoiava, era in autobus da due giorni e aveva visto passare paesini e città, una pioggia battente di notte aveva eccitato la sua fantasia, luci nel cielo elettrico e lei, la regina dei lampi, comandava le scariche e le indirizzava con la forza del pensiero, ma di giorno il paesaggio scorreva creando un effetto ipnotico e lei detestava stare ferma, era una piccola donna d’azione lei.

«Papà, perché non potevamo vedere Vulcano? Eravamo vicino, volevo andarci, quando ci andiamo?», chiese la monella assaporando il gusto di quella parola, Vulcano, che nome straordinario, che posto sarà mai quello? I vulcaniani vi abitano, un popolo antico, la terra è fertile e rigogliosissima, i bambini sono scuri in quanto impastati con l’amalgama di lava e cenere, altrimenti non si chiamerebbe Vulcano, non credete? Tutti scuri come lei, gli occhi neri e brillanti, il calore dell’accoglienza, per forza, altrimenti non si chiamerebbe Vulcano, ripeteva a sé stessa, il caso è chiuso.

«Non potevamo fermarci, dovevamo prendere l’autobus, te l’ho spiegato. Forse, un’altra volta, magari, chissà…» rispose il padre con un sorriso appena accennato, gli occhi stanchi.

Tati chiedeva spesso di andare a fare la pipì, più per fare due passi nell’autobus che spinta da un reale bisogno, la mamma invece doveva farla davvero spesso perché c’era il fratellino che premeva sulla vescica, così le aveva spiegato, e poverina non era stato facile quel viaggio, sul mare agitato per tanto tempo. Mentre la scugnizza guardava le onde grandi qualche adulto non sopportava di essere sbatacchiato e allora vomitava, si lamentava, alcuni li aveva persi di vista, ci stava pensando proprio durante il viaggio in pullman. Quel signore anziano di cinquant’anni che si era fatto male, non aveva più una gamba, succede, restava seduto tutto il tempo e quando l’umore era buono le raccontava storie magnifiche sui posti che stavano per visitare, anche se non le aveva mai parlato di quei profumi e quei dolcetti che sbucavano sempre per magia dalle tasche degli adulti, ma poi era sparito e neanche mamma e papà avevano saputo dirle dove era finito, forse sapeva volare, forse era arrivato a Vulcano. Ah Vulcano! Dopo aver visitato tutti quei bei posti lei si era ripromessa di non dare pace a papà finché non l’avesse portata a visitare quella terra promessa. Intanto però la gita sembrava interminabile, quel pullman non si fermava mai e faceva caldo.

La scugnizzetta sfuggiva spesso dalle braccia della mamma e passeggiava tra i sedili per sgranchirsi un po’ le gambette snelle e ben fatte da ballerina. Evitava però la terza fila di sinistra, c’era una ragazza con gli occhi spiritati e i capelli in disordine che non parlava, a volte emetteva dei lamenti, come un somaro ferito, aveva sempre le braccia strette al corpo, come se avesse freddo e quando qualcuno si avvicinava faceva degli urli da indemoniata, non voleva farsi toccare, ma nessuno la voleva toccare perché forse era caduta, aveva tanti segni sul viso, croste di sangue rappreso su gambe e braccia, nessuna mamma che la curasse, viaggiava da sola, a Tati faceva pena ma più ancora metteva paura, quindi girava alla larga da quei sedili. Gli altri viaggiatori, anche quelli che le sedevano vicino, avevano un’aria del tutto indifferente, guardavano fuori dai finestrini, si facevano i fatti propri. Sarebbero così gli adulti? Cioè, alla monella faceva paura quella ragazza ma era ovvio, lei era piccola, però un adulto grande come mamma e papà poteva anche aiutarla a pulirsi le ferite oppure chiamare un dottore per tutti quei segni brutti che aveva intorno alle gambe smagrite, era ruzzolata un bel po’. Comunque era odiosa quando ti fissava con gli occhi spalancati e sembrava volesse dire qualcosa ma non uscivano che lamenti da quella bocca, anche la notte era faticoso prendere sonno, all’improvviso lei urlava, sembrava la stessero sbranando i leoni e nessuno riusciva a farla stare calma.

Tati avrebbe lasciato quella comitiva al più presto possibile e si sarebbe diretta a Vulcano, anche da sola, e avrebbe camminato tra i vulcaniani senza paura di essere acchiappata di peso e portata in quegli alloggi minuscoli dove erano stati fino ad allora. Avrebbe saltellato in mezzo ai campi pieni di fiori di quella terra fertile e felice, dove tutto le somigliava, non si sarebbe sentita una straniera ma una vulcaniana acquisita, con gli occhi ardenti e brillanti come la lava che aveva formato l’isola.

Vulcano era un’isola.

L’aveva vista sulla cartina di papà prima di partire sulla barca e arrivarci vicino vicino, da Lampedusa alla Sicilia e poi di nuovo in barca e su quel pullman diretti su su, per vedere quanto è lunga l’Italia se la percorri dalla punta alla testa, fino a Genova.

All’alba del quinto giorno in pullman l’aria era pesante, un odore nauseabondo di carne marcescente e ferite esposte, la matta coi capelli in disordine non era l’unica a non stare bene ma era quella che faceva più confusione, mentre gli altri, anche i più giovani, restavano per lo più imbambolati come se non ricordassero più cosa dovevano fare o dove avessero riposto per sbaglio la propria vita, non la ritrovavano più.

Tati fingeva di dormire e ascoltava papà che bisbigliava delle cose all’orecchio di mamma, le dava istruzioni su nuovi itinerari, la incaricava di portare lei e il fratellino in qualche posto, non capiva dove. Ciò era inammissibile.

«Papà ma io non voglio andarmene dall’Italia, devo tornare a Vulcano» bisbigliò la scugnizza con aria d’importanza mentre sottolineava con una cantilena il nome “Vulcano”.

Il padre le mise una mano sulla bocca e spalancò gli occhi arrossati da milioni di anni d’insonnia «zitta Tati, non dire una parola.»

Mamma era sconvolta, si guardava intorno girando appena il collo, come se cercasse di fingersi morta ma dovesse intercettare un predatore.

Tati fece un segno di resa al padre e appena lui le liberò il viso gli si avvicinò abbracciandolo e sussurrò al suo orecchio «dove ci vuoi mandare e tu dove vai senza di noi?»

«Questa comitiva deve tornare in Libia», rispose lui con tutto il peso dell’universo sulle spalle.

«Ma siamo arrivati da lì e adesso stiamo andando nell’altra direzione, perché vuoi tornarci? Ti sei perso qualcosa in viaggio?»

Il padre la osservava con un misto di pietà e orgoglio per quella bimbetta monella dal carattere forte, che non si lasciava piegare da niente e nessuno. Aveva puntato tutto su di lei, aveva capito, sentito che quella piccola scugnizza sarebbe stata un grande sostegno per il resto della famiglia che stava per lasciare. Aveva superato tutto, o forse no, non si superano certe situazioni ma si impara a gestirle, si portano dietro come una malattia che non guarisce ma neanche uccide.

La ragazza impazzita cominciò con i suoi urli e i deliri, alcuni italiani che viaggiavano insieme a loro con lo scopo di vigilare sul carico residuale, così si definivano talune persone in lingua italiana, si avventarono sulla scheletrica folle e le impressero venti italianissime impronte su due millimetri di pelle attaccati a ossa e tendini, su ciò che una volta erano stati braccia e gambe umane. Gli altri continuavano a guardare fuori dai finestrini, pensando ancora a quella vita che si erano dimenticati di portare con sé prima di intraprendere quel viaggio.

Tati non capiva perché il papà volesse tornare in quella terra dove avevano conosciuto solo dolore e c’erano alieni a forma di uomini che prendevano le persone e le studiavano per prendere il loro posto sulla Terra. Non lo sapevate vero? Tati lo aveva capito. C’erano gli alieni buoni, ebbene sì, i vulcaniani, quelli nati dalla lava e dalla terra fertile e gli alieni mostri, quelli che si mascheravano da umani e li catturavano per fare esperimenti. La pazza era stata analizzata da giù verso su, le avevano guardato dentro le viscere e da sotto le gambe ne uscivano un po’, lo aveva visto la bambina coi suoi occhi quando avevano portato anche lei nel laboratorio e le avevano fatto un male atroce dentro, passando dal sedere e lei se l’era fatta addosso, puzzava dei suoi stessi escrementi quando gli alieni libici l’avevano rigettata come vomito nella gabbia da dove l’avevano strappata dalle braccia di mamma. Stai tranquilla ma’, le aveva detto, non riusciranno a costruire una bambina uguale a me, gli ho sparato la cacca addosso quando quelli mi si sono infilati tra le gambe, quelli la faranno di cacca e tutti si accorgeranno che non è vera.

Una delegazione di grandi potenti italiani era venuta a farsi foto e tanti discorsi insieme agli alieni mostri che si mimetizzano bene e la Presidente che è mamma, aveva saputo Tati, non aveva capito quello che fanno nei laboratori. Lei voleva dirglielo ma non parlava la stessa lingua e quella Presidentessa abbracciava i bambini e si faceva fotografare con loro, non sapeva e non capiva niente, povera Presidentessa Mamma.

Poi i politici se ne andarono e la sua famiglia pagò agli alieni una certa cifra per organizzare quel viaggio in Italia. Nella notte un gruppo di carico residuale si imbarcò verso Lampedusa, papà aveva una cartina che esaminava da settimane, Tati sbirciava con quegli occhi intelligenti e si raccontava la storia dei vulcaniani, si costruiva una rotta di speranza e sceglieva con risolutezza il suo destino.

«Perché vuoi tornare dagli alieni cattivi, papà?» gli chiedeva adesso con un’espressione di angoscia e rimprovero.

«Perché ci vogliono riportare tutti lì, ma tu prenderai tua madre e la porterai dove ti dirò io, poi vi raggiungerò, tu però devi portare via mamma e il fratellino mentre io farò in modo che nessuno vi segua.»

«Posso portarli a Vulcano?»

«No tesoro, non puoi restare in Italia, ci sono troppi alieni cattivi anche qui, fanno le foto con te ma ti hanno già venduto a quelli che fanno gli esperimenti.»

«Ma gli italiani non sembrano non-umani, come è possibile? Me ne sarei accorta!»

«Non lo sono, ma gli alieni sono furbi, si sono inseriti fra quelli che decidono e fanno le leggi, raccontano bugie e ci chiamano in quel modo.»

Carico residuale, lo aveva sentito dire tante volte Tati e pur non capendo cosa volesse dire, aveva intuito che non doveva essere una bella cosa, forse una parola in codice degli alieni cattivi.

Due settimane dopo arrivarono a Genova, scaricarono alcune persone morte durante il tragitto e si organizzarono per realizzare alcune foto, mettetevi in posa, il ministro davanti, i bambini tutti qua vicino, gli storpi no per l’amor di Dio, levatemi quella pazza urlante che non se ne può più…

Un rombo, uno scoppio, come se il cielo dovesse venir giù, una luce accecante dall’autobus, un fungo di lava sembrava librarsi dalla vettura, papà non si vedeva, non era sceso, ma era quello il segnale per Tati.

Scappa.

Ale Ortica è lo pseudonimo dell’autrice di diversi racconti. Collabora con la rivista “Sdiario”. Ha collaborato con “Faremusic” di Alberto Salerno e “Syndrome Magazine”. Alcuni suoi articoli compaiono nel libro “Syndromi a caso e come curarle”. Il suo romanzo #chemioGirl è uscito per Giovane Holden Edizioni.

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