Che fine ha fatto l’attenzione?

di  Nerio Vespertin

 

Qualche tempo fa, discutendo con un amico poeta, ci si interrogava sul fatto che la poesia fosse diventato o meno un genere di nicchia.

«Il problema della poesia? – sosteneva lui – La verità è che non la legge più nessuno». Commenti del genere non sono certo nuovi e a voler essere proprio pedanti, è dai tempi di Pascoli e di Montale che si parla di effetti della cultura di massa sulla poesia. Ma complice diversi bicchieri di vino, in quel momento non ero disposto a ridurre tutto a una questione di punti di vista.  Di poesia se ne parla molto di più adesso, invece – ho incalzato. «Forse se ne parla, ma non la si legge. E il motivo è molto semplice: perché richiede troppa attenzione. E noi, nella vita di tutti i giorni, il tempo di fermarci e tentare di capire cosa voglia dirci un poeta non l’abbiamo più. C’è sempre qualcosa di più urgente, più importante da vedere o da fare». In cuor mio, da ostinato romantico, non potevo accettare che la magister artium potesse essere relegata nel sottoscala delle lettere e per dieci, forse quindici minuti, ho sostenuto la mia difesa ostinata. Raggiunto il ventunesimo minuto però, devo confessare non senza qualche imbarazzo, che l’attenzione per il tema è scemato anche per noi. E senza grosso clamore, siamo passati a parlare d’altro. Altro argomento, altro topic.

Al di là dell’aneddoto e della serata alcolica, quello che resta della discussione è questa grande domanda: quando incide la mancanza d’attenzione sulla storia delle lettere nella nostra società? Perché a ben vedere, quello dell’attenzione non è un problema cruciale solo per la poesia moderna, ma anche in quasi tutte le scienze umanistiche. La ragione principale di questa situazione parte, ma non dipende esclusivamente, dalla sempre più massiccia distribuzione della tecnologia digitale nella vita culturale di tutti i giorni. Attenzione: questo non è un grido all’apocalisse, come vorrebbe il compianto Umberto Eco nel suo “Apocalittici e integrati”. L’innovazione tecnologica ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella trasformazione culturale del mondo, dando spesso il via a correnti artistiche di vitale importanza alla crescita culturale (vedasi, ad esempio, la nascita del movimento impressionista, come risposta provocatoria all’avvento della macchina fotografia).Tuttavia, è bene capire in quale misura la tecnologia del touch screen e del cosiddetto “internet delle cose” (o IOT) sia arrivata a influenzare le nostre facoltà psicoattitudinali e in particolar modo la fruizione dei testi.


Se avrete la pazienza (o forse dovrei dire l’attenzione necessaria) di seguirci nei prossimi passaggi, cercheremo di avvicinarci alla questione nel modo più scientifico possibile, tentando di rintracciare le conseguenze, dirette e indirette, di questo fenomeno nell’evoluzione della letteratura.

Cominciamo dunque con una mera valutazione fisiologica: in un articolo pubblicato nel 2014, la dottoressa Mary Potter pubblicava i risultati di un complesso studio neurologico, teso a valutare la risposta del cervello umano agli stimoli visivi. Secondo tale studio, la velocità media del nostro cervello nel riconoscere e catalogare un’immagine sarebbe di circa tredici millisecondi: un vero record, se si pensa che prima si credeva essere di circa cento millisecondi. Allo stesso tempo, la media di parole che il cervello umano è in gradi di processare in un minuto si attesterebbe a un modesto duecentoquaranta.

Per capire l’entità di questa differenza di numeri, consideriate che per leggere questo testo vi servirebbero in media cinque minuti. Lo stesso tempo che il cervello impiegherebbe per processare trentamila immagini. Anche ridotto in termini di pura aritmetica, questo confronto è sufficiente a farci capire la tempestività degli stimoli figurativi rispetto a quelli letterari: come specie animale ci siamo evoluti per rispondere prima di tutto ai pericoli visivi e solo in seguito, molto dopo, con l’avvento della scrittura, a quelli trascritti con simboli. In sintesi: la nostra fisiologia è il risultato di un complesso sistema di selezione e ottimizzazione naturale che ha premiato la risposta rapida, ovvero quella che non richiede una lenta decodifica per essere percepita.

Ma cosa c’entra l’attenzione con queste valutazioni di carattere fisiologico e con l’effetto dell’integrazione digitale? Il punto dell’intera questione sta nell’effetto collaterale costituito dall’utilizzo preponderante d’immagini rispetto alle parole. Perché se è vero che l’invenzione della scrittura è relativamente recente nella storia dell’uomo sulla terra (“soli” 6000 anni rispetto alla comparsa dell’homo sapiens, di circa 200’000 anni fa), è altrettanto vero che la densità di dati elaborati dall’umanità ha subito un’impennata esponenziale nei soli ultimi sessanta anni.

Punto cruciale per l’evoluzione della conoscenza dell’essere umano è prima di tutto l’evoluzione della teoria dell’informazione. Senza scomodare troppo le recenti teorie dell’informatica, ricordiamo infatti come la differenza fra un dato grezzo (“il cielo è blu”) e un’informazione utile al cervello (“la rifrazione dei raggi luminosi attraverso l’atmosfera filtra lo spettro visibile al colore blu”) sta nella possibilità di organizzare i dati in modo organico, mettendo in evidenza la relazione fra questi e il resto del mondo: è l’organizzazione logica a trasformare una constatazione in una cognizione. Seguendo questo principio, diventa chiaro perché le grandi conquiste della nostra specie su questo pianeta siano state raggiunte solo negli ultimi secoli: non sono state le sole immagini, percepite dai nostri antenati come anche noi oggi, a farci fare un balzo evolutivo, ma l’uso di un complesso sistema di catalogazione e organizzazione delle idee. Un sistema che senza l’invenzione delle parole e della scrittura, non sarebbe stato possibile.

Ma come? Possibile che anche una sequenza d’immagini (una galleria di foto, un film o un video) non possa tradursi in elementi cognitivi? Prima che gli amanti delle galleries ci saltino alla gola, è interessante notare come anche nella tradizione filmica contemporanea sia sempre possibile trovare un elemento di linguaggio mediato. Come suggerito ad esempio da G. Pescatore, nel suo ormai accademico saggio “Il narrativo e il sensibile”, a differenza dell’immagine pura, che risulta dotata di senso immediato, diretto e inequivocabile, l’immagine filmica traduce un messaggio narrativo che usa le immagini come sequenze di simboli, rappresentando quindi un sottotesto con le sue regole “grammaticali” e linguistiche. Niente da fare: anche nel caso dei film più criptici, non si può rinunciare all’affidamento di un testo (o sotto-testo) per mediare il messaggio del regista.

Ecco, dunque, perché non possiamo fare a meno della letteratura, anche quando parliamo di arti visive: per tornare alla nostra distinzione fra dato (immagine) e informazione (narrazione dell’immagine), quando ‘interpretiamo’ un’opera d’arte, non possiamo fare a meno di compiere un’operazione fondamentale per l’interpretazione del messaggio, ovvero un’astrazione. Distaccarci dal caso particolare (quello che sto vedendo) per raggiungere un principio universale (quello che succede dentro e fuori di me). Distacco che, a meno di un passaggio letterario, le immagini da sole non sono in grado di realizzare.


Un’a
ltra ragione per cui i testi letterari si distaccano, elevandosi, rispetto ad altre forme di dati organizzati, è la cosiddetta sintesi critica. Quest’ultima è la capacità che hanno i testi di fornire non soltanto informazioni, ma anche un metodo di interpretazione adeguato, da poter adoperare su più ampia scala. Dopo aver letto un testo critico, non possediamo semplicemente più informazionirispetto a prima, ma siamo anche in grado interagire con la nostra esperienza quotidiana in modo nuovo. L’organizzazione del testo ci ha fornito anche un’organizzazione mentale, proprio a causa della ‘fatica’ che abbiamo fatto, accendendo il motore dell’astrazione. Anche in questo caso, come sopra, le sole immagini non sono in grado di fornire uno strumento altrettanto potente ed efficace.

Ecco, in sintesi, che cos’è un testo letterario: un testo critico. Il pensiero dell’autore è organizzato secondo uno schema progressivo di causa effetto, tale da trasmettere il corpus dei dati in una sequenza logica, insieme spiegando come interpretarli. E a veder bene è davvero un ‘grande’ lavoro per le nostre sinapsi! Ogni volta che leggiamo dobbiamo eseguire varie operazioni di codifica, una più articolata dell’altra: prima dobbiamo codificare i simboli (stampati in parole o fonemi) interpretandoli in parole, poi dobbiamo codificare le parole in regole grammaticali e linguistiche, quindi interpretare il significato logico del testo e infine, non ultimo, aggiungere tutte quelle altre informazioni indirette, ovvero il contesto culturale, storico e geografico. Vista sotto questa luce, la media di 240 parole al minuto non è poi poca. Purtroppo, non sufficiente a far prediligere, sempre più spesso, la facilità di visione di immagini invitanti e convenienti, disponibili con un click/touch.

Ed è proprio qui che comincia, forse, il punto di rottura della nostra evoluzione come specie intelligente: nella crescita incontenibile dei dati degli ultimissimi vent’anni. Secondo l’ultima stima prodotta dalla società Domo, impegnata da anni nell’elaborare il volume dei dati prodotti dalla rete globale, ogni giorno sono quasi 4,5 miliardi le persone che si affacciano alla rete globale, inviando circa 2,8 milioni di messaggi al secondo, per un totale di quasi 2,5 quintilioni di gigabyte di dati prodotti ogni giorno. Una mole così massiccia che (inutile farlo notare) supera ogni anno il record di informazioni mai catalogate dall’esser umano. Informazioni che, per la peculiarità evolutiva del nostro cervello che risponde prima agli stimoli immediati, piuttosto che a quelli codificati e ‘lenti’, sta generando una sempre più diffusa visione compulsiva.

In uno studio pubblicato di recente sul National Library of Medicine, il cosiddetto doomscrolling, ovvero la visione frenetica di immagini e brevi contenuti audio visivi, si è affermata a buon diritto nello spettro dei disturbi d’attenzione (ADHD): recita la statistica dell’ultimo anno, il consumo compulsivo quotidiano di immagini/video è un’attività che occupa circa due ore della vita di un individuo adulto, contro le quattro per persone al di sotto dei 18 anni.

Ancora una volta, lo ricordiamo, la finalità di questa analisi non è quella di gridare alla fine del mondo, di suggerire una rivolta luddista contro i prodotti digitali. Semmai, davanti all’impossibilità di controllare e prevedere gli effetti della nuova rivoluzione digitale che stiamo vivendo, è importante prendere atto dell’ineluttabilità della trasformazione e guidarla secondo un criterio di conservazione di ciò che è meritevole.

Perché in fin dei conti la disponibilità di dati freschi, facili e accessibili a tutti, non è affatto una tragedia. Anzi. Se si pensa che le risorse principali per la produzione letteraria erano un tempo beni limitati e appannaggio di pochi, ci troviamo ora davanti a una nuova El Dorado delle lettere.Dalle pelli di animali, che nel periodo rinascimentale erano necessarie alla produzione di pergamene e rilegature, alle polpe vegetali del periodo preindustriale, necessarie per stampare volumi con presse a caratteri mobili, oggi tutto ciò che ci serve è un po’ di corrente elettrica e un dispositivo elettronico da poche decine di euro per scrivere e produrre letteratura. Eppure, a pensarci bene, la vera risorsa limitata al giorno d’oggi non è né la carta, né la pagina elettronica, bensì l’attenzione.

Una risorsa sempre più limitata e che ha costretto la persona di lettere ad adottare tecniche all’avanguardia in materia di narrazione e intreccio.

Alla luce di queste riflessioni, che effetti ha avuto, praticamente, il ridursi dell’attenzione media nella vita di uno scrittore/una scrittrice?

Ovviamente, analizzare con la dovuta perizia un tema così complesso e contemporaneo richiederebbe spazi e tempi ben diversi da quelli di questo articolo. Volendo provare a rispondere, ci limiteremo ad analizzare alcuni casi letterari celeberrimi, tentando di delineare quanto più possibile una tendenza comune.

Partendo dai cosiddetti ‘casi letterari’, non è un caso che la maggior parte dei successi degli ultimi vent’anni abbiamo verificato una preferenza sempre più spiccata per un’organizzazione in capitoli brevi, sempre più brevi, meno di quindici, dieci pagine, con intestazioni ampie e poco dense. Per il solo amore della statistica e per rapidità di valutazione, consideriamo i vincitori dello Strega dal 1947 ad oggi e rapportiamo il numero di pagine per capitolo di opere celeberrime come “Tempo di uccidere” di E. Flaiano (vincitore nel 1947), con una media di 44 pagine, contro “La bella estate” di C. Pavese (vincitore nel 1950), con 34 pagine, contro “La ragazza di Bube” di C. Cassola (1960), con 28 circa, fino a scendere a 26 ne “La chiave a stella” di P. Levi (1979) e 20 ne “La grande sera” di G. Pontiggia (1989). Man, mano che si visionano i titoli altisonanti di questo esempio di premio di successo nazionale, si assiste a una specie di cronologia della riduzione del volume di pagine per ‘sequenza narrativa’ e se si vuole considerare ogni titolo come un buon (se non il migliore) esempio di lettura favorita nel nostro paese in un certo anno, è facile constatare come la propensione dei lettori sia per spazi ristretti di concentrazione. L’apoteosi di questo calcolo lo si può riscontrare a maggior ragione presso i casi letterari dei nostri culturalmente ‘vicini’ scrittori statunitensi, dove i cosiddetti bestseller firmati Ken Follet o Dan Brown, giusto per citare i più noti, lasciano a ogni capitolo uno spazio di non più di quindici pagine.

Altra nota caratteristica delle opere contemporanee è l’uso strategico di metodi narrativi incalzanti, frenetici. Nel suo immancabile “La sceneggiatura. Il film sulla carta” Syd Field tracciava già nel 1991 le regole d’oro di una sequenza narrativa di successo: ogni ‘capitolo’ del film deve chiudersi con un’apertura al successivo, creando un senso d’attesa e di tensione per quello che succede ‘dopo’. L’attenzione dello spettatore (lettore, in questo caso) viene accalappiata con una sequenza ben testata di sviluppi, intrecci e colpi di scena che hanno lo scopo di mantenere costante il senso del mistero o più in generale della ricerca del protagonista. Dalla sceneggiatura alla letteratura il passo è breve: l’uso strategico dell’interruzione, il richiamo sistematico di elementi narrativi minori che di capitolo in capitolo diventano risolutivi, la caratterizzazione progressiva dei personaggi al posto di una loro introduzione super dettagliata all’inizio, non sono che tracce di un cambiamento narrativo profondissimo in corso nella nostra letteratura. Non è un caso che sempre più spesso opere letterarie di gran seguito, si trasformino rapidamente in serie televisive, con traduzioni fedelissime di tempi e sviluppi scenici, da pagina a cellulosa (vedasi nomi del calibro della Ferrante, “L’amica geniale” e della Di Pietrantonio, “L’arminuta”, giusto per citare i più clamorosi).

Dunque, la riduzione dell’attenzione del lettore medio sta davvero riducendo i nostri grandi capolavori umanistici in blande sceneggiature?

Tutt’altro. Ricordiamo quanto detto proco sopra: la lettura è astrazione, quindi volo fantastico dal particolare all’universale. Questo significa che il vantaggio principale dell’opera letteraria rispetto a quella filmica o immaginifica, non può che essere l’accesso all’iperuranio delle idee e delle rappresentazioni introspettive, quella realtà unica dove ogni possibilità è realizzabile. In termini letterari questo ha significato un’altra grande trasformazione, con testi che hanno rinunciato sempre più spesso alla descrizione esaustiva e fedelissima della realtà, a favore di rappresentazioni essenziali e minimali delle situazioni. Volendo considerare un altro caso emblematico, scopriamo che già nel 1963, con un’opera dal taglio squisitamente piscologico e sociologico come “Lessico familiare” la buona N. Ginzburg dava il via ad un filone letterario definito essenzialistico, dove la rappresentazione delle interazioni fra personaggi viene sempre più rimandata alle sfumature dei dialoghi o delle pose, rispetto a descrizioni pedanti ed eccessivamente cerebrali. Anche qui, volendo raccogliere la sfida a identificare una tendenza, è facile riconoscere come le opere letterarie, proprio perché sconfitte nella competizione “rappresentativa” delle immagini, si siano rifugiate in quell’ambito dove né i film né qualunque rappresentazione visuale può arrivare, ovvero il mondo della psiche. L’introspezione come campo libero dell’opera scritta, la narrazione psichica e il flusso di coscienza come apripista dell’identità letteraria.

Ma non solo. La trasformazione non è soltanto nello stile e nei tempi della narrazione, ma anche nella scelta dei temi e delle ambientazioni. Dal secondo dopo guerra a oggi si è affermata prepotente la voglia di rompere gli schemi ingessati di una narrativa ‘archetipata’, fatta di luoghi comuni e di situazioni canoniche. Complice il fermento sperimentale degli anni ’60 e ’70, da Pasolini a Biancardi, da Sciascia a Saviano, in Italia si è definita con prepotenza una cultura di realismo popolare, una riscoperta profonda della cultura popolare che non teme di creare scandalo e di farsi sentire. Lungi dal cercare d’identificarsi in situazioni complesse e articolate, fatte di artifici e di sospensioni della credibilità, il lettore moderno sembra aver ubbidito a un bisogno di liberare la sua storia e il suo vissuto dai limiti della località, portandoli nell’opera letteraria internazionale. Un salto che in alcuni felici casi è riuscito persino a valorizzare, trasponendola su contesto scritto, la forma linguistica dialettale (vedasi opere come “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di C.E. Gadda o “Ragazzi di vita” di P. P. Pasolini). Se da un lato queste scelte possono sembrare delle concessioni alla sottocultura del volgo e della provincia, è bene osservare come il risultato è quello di valorizzare, testimoniandola, la dignità di una realtà fino a un certo momento considerata trascurabile, se non addirittura censurata. È il mondo del lettore e non quello dell’intellettuale, con i suoi salotti e le sue aule d’accademia, a essere descritto e offerto all’attenzione di tutti. E l’attenzione è davvero il premio che viene riconosciuto a tali opere.

Come avevamo promesso, questo non è un grido dall’allarme all’apocalisse. Semmai un tentativo di scoprire i vantaggi della fine del mondo, tracciando con pochi passaggi le buone ragioni del cambiamento e della trasformazione. Come recita la regola darwiniana dell’evoluzione, non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, bensì quella che si adatta più rapidamente ai cambiamenti. La nuova rivoluzione tecnologica in cui siamo immersi impone mai prima di ora una riflessione doverosa e profonda a chiunque si approcci al mondo delle lettere. Viviamo in una realtà dove quello che accade in un piccolo centro rurale di una remota regione della Cina ha impatti immediati e completi in tutte le parti del globo. La velocità di trasmissione delle notizie, così come quella delle menzogne, viaggia sull’ordine dei secondi. Il gesto di un balordo o di una persona responsabile non è più limitato alla testimonianza dei pochi, ma con un semplice click si trasforma in un trend virale, capace di viaggiare a migliaia di chilometri di distanza. Mai come oggi, la realtà che ci rappresenta è fortemente interconnessa, interculturale e inter-testualizzata.

Abbiamo sempre più bisogno di storie, di contesti che ci rappresentino e che ci facciano sentire meno soli davanti al mare sconfinato delle informazioni che ci circonda. L’attenzione del lettore è sempre più limitata e proprio per questo, sempre più viva e affamata di spiegazioni esaurienti e profonde.

La verità è che non legge più nessuno –insisteva l’amico poeta, nel corso della nostra ultima accesa discussione. Forse questo vuol dire solo una cosa, ovvero che la sfida alla ricerca e al rispetto dell’attenzione del lettore è ancora aperta. Forse vuol dire solo che non sono ancora state prodotte le storie, le poesie e le opere capaci di raggiungere e guidare l’attenzione del lettore verso la spiaggia sicura della comprensione. Forse, vuol dire solo che il nostro lavoro, come scrittori o come letterati, non è mai stato più necessario e utile di oggi.

Note bibliografiche:

Umberto Eco, Bompiani (2001), Apocalittici e integrati.
Potter, M.C., Wyble, B., Hagmann, C.E., & McCourt, E.S. (2014). Detecting meaning in RSVP at 13 ms per picture. Attention, Perception, & Psychophysics, 76(2), 270-279. DOI 10.3758/s13414-013-0605-z
Guglielmo Pescatore, Alberto Perdisa Editore (2001), Il narrativo e il sensibile. Semiotica e teoria del cinema.
Domo, Data never sleeps – rapporto annuale sul volume dei dati prodotti dalla rete globale (https://www.domo.com/learn/infographic/data-never-sleeps-8)
Seydi Ahmet Satici,Emine Gocet Tekin, M. Engin Deniz. Doomscrolling Scale: its association with Personality Traits, Psychological Distress, Social Media Use, and Wellbeing
Andrea Bernardelli, Intertestualità, Firenze, La Nuova Italia, 2000
No Comments

Post A Comment