Nomi di piume. Vite straordinarie di scrittori donne. In dialogo con Muriel Pavoni

 

a cura di Ivana Margarese

 

“‘Nomi di Piume” è un saggio narrativo che parla di venti scrittrici italiane realmente esistite, più una immaginaria. Qualcuna nata nell’800, altre nate nel primo ventennio del ‘900 che nonostante abbiano riscosso discreto successo alla loro epoca, non hanno avuto la risonanza dei loro colleghi uomini. Da Grazia Deledda, a Elsa Morante, a Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese, Cristina Campo, Alba De Cespedes, Dolores Prato e altre, l’autrice ha ricostruito il momento in cui hanno compreso che la scrittura era la loro vocazione.
Nel ricostruire i loro volti e la loro passione, Muriel Pavoni affronta problemi del corpo, della bellezza, della solitudine, della famiglia, componendo un mosaico di volti femminili capace di interpellarci.

 


“Mi sono interrogata a lungo sul rapporto tra donne e scrittura. Sono molte le autrici contemporanee che leggo abitualmente. La stessa cosa non può dirsi per le scrittrici del Novecento, secolo in cui si collocava, invece la metà dei miei autori preferiti, mentre l
altra era nata addirittura nel secolo precedente”.
Queste sono le considerazioni in apertura del tuo Nomi di piume. Vite straordinarie di scrittori donne, in cui metti già in chiaro come il libro nasca da esigenze personali. Ti domando dunque innanzitutto da quale percorso nasce questo testo e quanto tempo tu abbia impiegato a scriverlo.

Il libro nasce dalla mia esperienza di lettrice e dalla percezione di uno strappo, dalla mancanza che avvertivo riguardo al modo di raccontare un’epoca e i suoi protagonisti, la necessità di ascoltare altre voci, la voglia di trovarle. Fin dal principio però, se la pesca nelle acque profonde della letteratura del Novecento poteva rivelarsi un mero esercizio di stile, il percorso ha preso una strada insolita, che ha affiancato, alla febbre della ricerca,la passione per lettura, la scoperta e riscoperta di voci originali, prospettive nuove e vicine a me, punti di vista che mi hanno aperto mondi. Romanzi come Althénopis, Negli occhi di una ragazza, Un inverno freddissimo, Nascita e morte della massaia, La vigna di uve nere, sono stati incontri folgoranti, ma anche la scoperta di opere meno note di autrici amate come La fuga in Egitto e La vigna sul mare (Deledda) o Le voci della sera(Ginzburg) è stata entusiasmante. La gestazione ha richiesto tempo, per studiare, per digerire, per poi dimenticare e scrivere. Ho iniziato, tra alti e bassi, nel 2017, il libro è uscito lo scorso anno. In tutto questo tempo mi sono resa conto che, se all’inizio molte autrici erano irreperibili e fuori catalogo, negli ultimi tempi, grazie all’impegno di curatrici intelligenti e piccole case editrici, molte opere un tempo escluse stanno rientrando nei cataloghi. Un esempio tra tutti è quello di Alba De Cespedes, di cui a suo tempo ho trovato l’opera omnia in una piccola biblioteca di provincia che disponeva di vecchie edizioni, qualche anno dopo c’è stata ripubblicazione, quasi integrale, della sua opera da parte di Mondadori. Ma questo esempio vale per molte altre autrici: Fausta Cialente, Livia De Stefani, Laudomia Bonanni


Citi Anna Banti che dice che ad ogni modo una scrittrice e emarginata, semmai è grande tra le altre scrittrici, ma mai equiparata agli scrittori. È una considerazione che appartiene anche a Virginia Woolf, attenta nell’analizzare le sue dinamiche nei confronti delle altre scrittrici, come nel caso ad esempio di Katherine Mansfield, nel suo alternarsi di competizione e alleanza proprio perché lo spazio per le donne sembrava essere così angusto da non poterne contenere più di una. Al contempo le relazioni tra donne e in questo caso tra scrittrici sono state fondamentali per il venire alla luce di diverse opere. Qual è la tua esperienza in merito e cosa a tuo parere è cambiato oggi rispetto a queste riflessioni?

Ho voluto mettere in luce un sistema di alleanze (e qualche piccolo scontro all’insegna della stima reciproca) perché è indubbio che personaggi come Natalia Ginzburg, Alba De Cespedes, Anna Banti, Maria Bellonci (quest’ultima assente come protagonista, ma presente come comprimaria) abbiano giocato un doppio ruolo: quello di autrici e di promotrici dell’opera altrui; ma esistono anche relazioni amicali di scambio e sostegno reciproco come per esempio Masino per Ortese. Nella mia ricostruzione della memoria di un’epoca, forte risalto è dato alle relazioni, perché sono esistite e sono state determinanti, perché credo che anche oggi siano importanti. La mia esperienza di scrittura è fatta di relazioni che mi hanno arricchita e mi hanno fatto scoprire tantissimo della mia stessa scrittura. Non esiste lo scrittore appartato, la scrittura ha sempre una dimensione dialogica. Quando i libri vengono pubblicati diventano parte della memoria di qualcun altro, subiscono metamorfosi che sono bellissime, così come sono bellissime le persone che si incontrano nei vari percorsi di scrittura, non voglio fare nomi ma sono tutte qui con me (per citare un romanzo di Luisa Adorno).

Cosa intendi quando scrivi “Il problema del mestiere e dell’ambizione”?

Che una donna rivendicasse il proprio ruolo, come quello di scrittrice di cui parlo, fino al secolo scorso, era un problema. La cornice familiare tendeva a sminuire e sottovalutare questo tipo di ambizione, derubricandola al rango di vezzo o passatempo. Affermare di voler fare della scrittura il proprio lavoro, per le donne è stata una conquista lenta e difficile. Le autrici di cui parlo si sono dovute spesso occultare dietro nom de plume che nascondessero la loro vera identità, per non imbarazzare famiglie o mariti impegnati in professioniautentiche”, spesso di tipo intellettuale, dove però loro stessi avevano trovato immediato riconoscimento. Perciò alcune delle scrittrici che prendo in esame, quelle che avevano ben chiaro da subito che la scrittura fosse il loro mestiere come afferma Natalia Ginzburg nel celebre saggio Il mio mestiere hanno dovuto scontare una certa indifferenza e trattamenti iniqui rispetto ai loro colleghi maschi, per questo sono state costrette ad alzare la voce, risultando talvolta arroganti come nel caso Elsa Morante, diventando altre volte oggetto delle derisioni degli intellettuali dell’epoca come Grazia Deledda.


Tra le scrittrici di cui scrivi qual è stata quella che ti ha richiesto più pazienza e quella che invece più ti sei divertita a raccontare?

Marina Jarre proprio non la capivo, non riuscivo a concepire il suo riproporre, nella sua vita, lo schema della relazione che avevano avuto i suoi genitori, oggetto di tante sofferenze.
La sola differenza è che lei a suo marito resta legata, mentre la madre, appena ha potuto, si è liberata da un marito terribile. Jarre rimane in quella relazione, con un marito (sicuramente diverso dal padre che era uno scavezzacollo) piuttosto egoista, assente, geloso della propria indipendenza, che lascia lei a sobbarcarsi interamente del peso dei figli e della famiglia. Jarre è una donna che vive la sua esperienza di scrittura nei ritagli di tempo, che ha una vita di risulta, così me la sono immaginata. Nonostante fosse una scrittrice sopraffina, non ha mai raggiunto il successo meritato. Per questo mi faceva arrabbiare, tanto da non riuscire a raccontarla, poi ho trovato una chiave, quella di farla specchiare nella sorella, molto diversa da lei, forse più simile a me, con cui aveva un rapporto molto intenso; allora sono entrata in sintonia e sono riuscita a comprendere le sue ragioni per poterla raccontare.
Quella che mi sono divertita di più a raccontare è stata Natalia Ginzburg. Avevo saputo che aveva passato qualche tempo a Roma, dopo la morte di Leone, a lavorare per mantenere i figli, i quali stavano nel frattempo a Torino coi genitori. Mi è parso strano, dopo una tale tragedia, separarsi dai propri figli. Avevo anche letto di un suo tentativo di suicidio proprio in quell’anno. Poi ho trovato un suo racconto, dal titolo Estate, che parla di una donna che, dopo un periodo di distanza da tutto, figli inclusi, un periodo sospesoin cui finge di essere un’altra, tenta il suicidio. La donna, dopo una breve convalescenza, prende coscienza di quanto la sua vita le manchi, e decide di tornare dai figli. A quel punto ho solo unito i puntini, perché ero totalmente con Natalia, calata nel dolore di una donna che, dopo aver visto il marito morto a forza di botte, cerca di riprendere il controllo della sua vita. Mi sono sentita talmente vicina a lei che il racconto si è scritto da solo.

 

 

Infine visto che entrambe facciamo parte della SIL, ovvero della Società italiana delle letterate, mi piacerebbe mi raccontassi la tua esperienza all’interno di questa associazione di donne e le tue speranze in merito ai rapporti tra “letterate”. Grazie!

Osservo la SIL con grande interesse, non ho in realtà mai partecipato attivamente, ma leggo con grande attenzione i materiali (preziosissimi), ascolto i podcast e osservo tutte le iniziative, la Società italiana delle Letterate è una grande ricchezza, va preservata e seguita, mi auguro, in futuro, di essere una socia più attiva.

 

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