10 Set Dell’ipocrisia, e di un dolore che esplode dagli occhi: riflessioni su “La prima notte di quiete” di Zurlini
di Giorgio Galli
Qualche notte fa non riuscivo a prender sonno e ho guardato La prima notte di quiete. Ammetto che non lo avevo visto prima. A sollecitarmi erano stati soprattutto i post sui social successivi alla morte di Delon, che rilanciavano scene di questo film. E poi, essendo un bastian contrario, mi innervosiva il livore contro un uomo appena morto per il fatto che aveva idee di destra o perché aveva abbandonato suo figlio. Sulla pagina privata non metto bocca, quello che so di quell’uomo malinconico non mi autorizza a giudicarlo, su quella pubblica vorrei spendere due parole: viviamo in un Paese che vistosamente e con conseguenze disastrose non ha fatto i conti col suo passato fascista, e non li ha fatti non da adesso ma dall’immediato dopoguerra: non sta a me ripercorrere una storia fatta di amnistie Togliatti, di partigiani schedati e di manifestazioni contro il governo Tambroni represse con la violenza: chi vuole può consultare un libro di storia. Si citano dichiarazioni supposte omofobe di un uomo nato nel 1935 che è stato amico dell’omosessuale Luchino Visconti, e si passa tranquilli sopra le affermazioni ben più gravi che circolano nel mondo del calcio, come se l’indignazione si dirigesse solo contro chi non fa –o non fa più- business. Ma questa è solo miseria umana, e non mette conto occuparsene. Dato che Alain Delon non era un pensatore, ma un attore, si può lasciarlo in pace. Per me è stato un grande attore e chiunque lo abbia conosciuto -ma è visibile anche dalle interviste- lo descrive come un uomo autentico, con i suoi errori anche enormi, le sue grandi amicizie a cui è stato fedele per la vita, i suoi grandi amori a cui non sempre è stato fedele -ma a Romy Schneider pensava ogni giorno- e le sue idee controverse. Era autentico e infatti rifiutava del tutto il nostro tempo falso. Così, ho deciso di dedicare una notte inquieta a questo film, trovandolo meraviglioso: la fotografia di Dario Di Palma è antonioniana senza i manierismi e il gelo di Antonioni, la musica di Mario Nascimbene si alza violenta su una Rimini diroccata e invernale diversissima da quella di Fellini -malgrado la nebbia. E Alain Delon titaneggia con quell’infelicità che gli esplode dagli occhi. Renato Salvatori –altro amico di Delon per la vita- aveva già visibilmente i problemi di salute che l’avrebbero condotto a una morte prematura e la sua figura nel film accentua, agli occhi di chi l’ha visto nei Soliti ignoti, il senso di decadimento che lo assedia. Giancarlo Giannini nel 1972 aveva ancora quella versatilità che poi ha perso ed era capace di passare da un registro all’altro in maniera stregonesca, trasformando il suo personaggio apparentemente squallido nel più affascinante della pellicola dopo quello del protagonista.
È un film senza consolazioni e con qualche forzatura: l’ossessione di Zurlini per le guerre coloniali lo porta a cercare un addentellato con quella storia di cui la storia del film non ha bisogno. Se pensiamo al modo in cui Kieślowski, nelle sue sceneggiature “silenziose”, riusciva a introdurre i temi a lui cari drammatizzandoli, trasformandoli magari in immagini ricorrenti come quella della vecchia che butta l’immondizia, la differenza è evidente. Sembra che a Zurlini sia mancata questa capacità di trasformare le sue ossessioni in poesia, di trasfigurarle: a mio avviso, ha preferito introdurle brutalmente e, purtroppo, banalmente. Per contro, la reticenza mantenuta fino alla fine sul passato del protagonista appare eccessiva. Si poteva lasciare senza storia quell’uomo disperato, oppure delinearla meglio, il che non significa con più dettagli ma con più rigore poetico. Ma sono difetti perdonabili in un film che, per tutto il resto, è magnifico, e che di rigore poetico ne ha tanto. Nel clima di dissoluzione che la attraversa, la tragedia trova il suo valore umano, oltre che nell’amore tra Delon e la splendida Sonia Petrova -ballerina prestata quest’unica volta al cinema, che riempie l’inquadratura con la sua malinconia senza redenzione- nell’amicizia tra Delon e Giannini. Lo scambio di battute più memorabile lo pronunciano loro due verso la fine: “Che Dio ti protegga”, dice Giannini; “Ha altro da fare”, risponde Delon. Piena di splendide battute e di frasi memorabili, la sceneggiatura è piena anche di opacità e va incontro a una soluzione troppo facile. Ma non è un film di trama questo, e l’invenzione registica che attesta il talento sottovalutato di Zurlini è che il sole torna a splendere dopo la morte.
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